Il diritto alla vita e le sue declinazioni. (Parte prima)
di ENRICO IENGO ♦
“Io amo la vita, Presidente, vita è la donna che ti ama, il vento fra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico.
Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico, né un maniaco depresso: morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita”
P.Welby “lettera al Presidente della Repubblica” 2006
Nel Febbraio 2017 Marco Cappato accompagna il dj Fabo (Fabiano Antoniani), un uomo rimasto tetraplegico e non vedente in seguito ad incidente stradale avvenuto nel 2014, da Milano a Zurigo, fornendo l’assistenza alla morte volontaria nella clinica ove si pratica il suicidio assistito.
Successivamente Cappato si autodenuncia per violazione dell’art. 580 del c.p., ovvero aiuto al suicidio. La procura di Milano inizialmente dispone l’archiviazione, ma a fronte del rifiuto da parte del GIP, la procura presenta una memoria per suggerire al giudice di sollevare la questione di costituzionalità dell’art. 580 del c.p. per verificare se l’articolo salvaguarda i principi fondamentali di dignità e di libertà dell’individuo.
Nel Novembre del 2019 la Corte Costituzionale emana una sentenza che rappresenta una vera e propria svolta nell’iter controverso dei diritti fondamentali dell’uomo: per la prima volta viene emessa la dichiarazione di incostituzionalità parziale dell’articolo 580.
“Da un lato la Corte, facendo leva su una forma di paternalismo moderato, ritiene che il divieto di aiuto al suicidio non sia di per sé incostituzionale, in quanto idoneo alla tutela del diritto alla vita (soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili) e quindi funzionale alla protezione di interessi degni di essere salvaguardati dall’ordinamento. Dall’altro lato, essa ritiene che l’assolutezza di tale divieto limiti la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta dei trattamenti finalizzati a liberarlo dalle sofferenze, finendo per dar luogo ad una asimmetria protettiva che risulta in contrasto con l’odierno assetto dei valori costituzionali, in particolare con i principi della dignità umana e con i criteri di ragionevolezza ed uguaglianza”[1].
[1] G. Fornero “Indisponibilità e disponibilità della vita. Una difesa filosofico-giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria”, ed. UTET anno 2020
Nonostante la sentenza contenga elementi di compromesso e di mediazione, in particolare per il chiaro intento di circoscrivere il più possibile il novero delle persone per le quali può essere valido il principio di incostituzionalità della 580, non c’è dubbio che tale sentenza rappresenti una novità assoluta. A questo punto la Corte Costituzionale ha sollecitato in modo diretto e chiaro l’intervento del Parlamento, ma non ha avuto a tutt’oggi risposte da parte del legislatore, anche se il 25 Ottobre è stato annunciato l’arrivo in aula della proposta di legge sulla eutanasia legale, che difficilmente però avrà una maggioranza. Negli scorsi mesi è stata attivata la raccolta di firme per un referendum abrogativo del reato di omicidio del consenziente e al 23 Settembre, secondo quanto afferma la segretaria dell’associazione Luca Coscione, oltre un milione di Italiani hanno sottoscritto il referendum.
Nel momento in cui ci si avvia quindi verso il possibile appello al corpo elettorale, non è facile per nessuno immergersi nel dibattito sul fine vita, è certamente difficile per me che per oltre 40 anni mi sono dedicato a curare o alleviare, con alterna fortuna, la sofferenza sia psichica che fisica. Sono consapevole della estrema sensibilità dell’argomento che impressiona chiunque. Spero di dare un contributo alla chiarezza e seppure alla fine una scelta personale ci sarà, dico fin da ora che è degna del massimo rispetto qualsiasi opinione in materia.
Oggi lo scontro fra laici e cattolici, il dibattito fra norme morali, la discussione giuridica e filosofica ed il possibile referendum alle porte, induce ogni coscienza ad interrogarsi e a decidere in quale schieramento posizionarsi, se con coloro che propugnano la assoluta indisponibilità della vita o con coloro che affermano la necessità della disponibilità della vita in determinate circostanze.
Scelta in ogni caso sofferta, complicata da ricordi personali dolorosi e da proiezioni angosciose.
La eutanasia non è una invenzione della modernità. Già nel diciassettesimo secolo al filosofo Francis Bacone si attribuisce il cambiamento del significato del termine eutanasia, da lui impiegato non per designare semplicemente una buona morte, senza patimenti e dolore, ma mettendo al centro la figura e il ruolo del medico il cui compito- scrive il filosofo inglese- “non è solamente quello di ristabilire la salute, ma anche quello di mitigare le sofferenze provocate dalla infermità e in tal senso egli dovrebbe imparare l’arte di aiutare gli agonizzanti ad uscire da questo mondo con più dolcezza e serenità ed applicarla con diligenza”.
Nel corso dei secoli il dibattito, seppure sotterraneo e in forme e con accenti diversi è continuato ed è interessante scoprire che la maggior parte del mondo filosofico, religioso e medico ha sempre affermato in maniera convinta la sua contrarietà alla pratica della “buona morte”, linea di pensiero che interessa anche il XIX e gli inizi del ventesimo secolo con l’importante eccezione di Nietzsche. A tal proposito pagine illustri furono scritte da Kant contro il suicidio, pagine che rappresentano una sorta di manifesto laico contro la disponibilità della vita: “Se la libertà è la condizione della vita non può essere usata per sopprimere la vita e quindi per sopprimere e distruggere se stessa, è contradditorio”. Kant non tratta in maniera esplicita il tema dell’eutanasia, si interessa invece della compatibilità del suicidio con i dettami della legge morale, Il suo giudizio contrasta con quello di molti esponenti dell’Illuminismo, più propensi ad un atteggiamento di comprensione delle cause che spingono questi individui a compiere la scelta estrema.
Le cose cambiano dalla seconda metà del 900: il dibattito morale circa la legittimità e la controversia giuridica sulla depenalizzazione o legalizzazione dell’eutanasia coinvolge filosofi, giuristi, comitati bioetici, politici, trasformando talora la disputa in scontro ideologico. L’argomento diventa sempre più presente e controverso, fino ad arrivare ai giorni nostri e al ricorso popolare alla raccolta di firme per un referendum nazionale.
La domanda sorge spontanea: perché ha assunto sempre più rilevanza un argomento che genera indubbiamente disagio, imbarazzo, predisposizione alla rimozione, perché è cresciuta la sensibilità e l’attenzione di una collettività, che in questi anni fa diventare centrale una questione dagli evidenti risvolti morali, religiosi e giuridici?
La risposta, a mio parere, consiste fondamentalmente in due aspetti che in questi ultimi 70-80 anni hanno contribuito ad alimentare e far crescere dubbi o certezze.
Il primo è il progredire della tecnologia medica: questo progresso ha contribuito sicuramente a vincere battaglie importanti contro malattie e sofferenze prima incurabili, ma ha anche determinato situazioni limite, ove l’allungamento della vita, come vedremo, si è tradotto semplicemente in vita biologica, in uno stato di grave decadimento fisico e mentale, con tutto il carico di sofferenza e di perdita di dignità che un essere, ridotto a pura corporeità, porta con sé.
Malattie degenerative come la sclerosi laterale amiotrofica, la malattia di Alzheimer, le neoplasie allo stato preterminale, le lesioni del sistema nervoso in seguito a gravi incidenti, con conseguente stato vegetativo permanente, nel recente passato erano destinate all’exitus nell’arco di settimane, mesi o anni, ma soprattutto l’intervallo di tempo che trascorreva fra la perdita dell’autonomia o la presenza di sofferenza fisica e psichica intollerabili e la morte era un tempo breve, durante il quale i pazienti venivano accompagnati alla morte con semplici presidi farmacologici finalizzati a ridurre la sofferenza. Oggi queste malattie, arrivate ad uno stadio grave e irreversibile, grazie ai progressi tecnologici della medicina hanno una durata molto più lunga, con l’inevitabile carico di sofferenza del paziente, anche in termini di dignità perduta, e dei suoi familiari. La ventilazione meccanica tramite intubazione, la nutrizione enterale tramite gastroscopia endoscopica percutanea (si tratta di posizionare un dispositivo direttamente nello stomaco) per nutrire un paziente non più in grado di deglutire, farmaci sempre più mirati contro infezioni, complicazioni cardiocircolatorie, hanno certamente giovato e salvato numerose vite, ma il loro uso in casi ove non c’è nessuna speranza di miglioramento, con l’unico obiettivo perseguibile di allungare una vita ormai giunta alla fine e che alcuni malati ritengono non valga più la pena di essere vissuta, ha insinuato in tanti il dubbio se fosse giusto rinunciare completamente al diritto di decidere in piena libertà quando e come interrompere la propria esistenza. Ogni individuo ha diritto all’impegno assoluto e diligente da parte di terzi nel perseguire il proprio benessere e, nella sua assoluta libertà, deve essere protagonista delle decisioni che si prendono intorno alla sua esistenza.
Una spiegazione sulla crescente disputa intorno all’ eutanasia quindi è legata al miglioramento della medicina e in particolare alla possibilità mai vista prima di anticipare o posticipare la morte, di trasformarla in un evento meno traumatico. Se la eutanasia non è una invenzione della modernità, senza dubbio è recente il dibattito morale circa la sua legittimità e la controversia giuridica circa la depenalizzazione o legalizzazione.
L’altro aspetto direttamente collegato al precedente e che ha contribuito in maniera determinante alla sensibilizzazione crescente della opinione pubblica è quello mediatico. Non c’è dubbio che casi come quelli di Eluana Englaro, di Piergiorgio Welby, del dj Fabo, tanto per restare in Italia, hanno avuto una risonanza tale da suscitare attenzione da parte di una opinione pubblica schierata a favore o contro spesso su presupposti di scarsa informazione o al seguito di slogan ideologici. Di qui la conseguente necessità di riflettere intorno ai risvolti etici, filosofici, religiosi e giuridici di un tema che, ormai, anche secondo la Giurisprudenza, è diventato ineludibile da parte del mondo politico.
ENRICO IENGO
In Sardegna c’era una figura femminile che metteva fine alle sofferenze dei malati terminali e delle loro famiglie : l’Accabadora.Il tema è sicuramente scottante perché poi certe situazioni coinvolgono anche le famiglie che vivono per anni come sospesi e anche la loro non è più vita; io sono a conoscenza di situazioni allucinanti, di persone a casa in stato vegetativo da anni, tenute in vita da medicine e macchinari e senza possibilità alcuna di ripresa a detta degli stessi medici; io non vorrei vivere in queste condizioni e non vorrei che ci vivessero le persone che amo; se ci sarà il referendum voteró a favore
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Caro Enrico, fai bene a sollevare la questione. Mi pare che la stessa chiesa cattolica sia divisa sull’argomento. Nel catechismo ufficiale si afferma che, se non è etico provocare la morte, è ammissibile, nell’interesse e secondo la volontà del paziente o dei suoi cari, evitare ogni forma di accanimento terapeutico. Si accetta cioè di non poter impedire la morte.
Poi c’è un altro aspetto, che è quello delle sofferenze, ma penso ne parlerai diffusamente nel prossimo articolo
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Cari amici,
Alcuni argomenti sensibilissimi da voi toccati verranno ripresi nei prossimi due articoli, spero con chiarezza, ma soprattutto con il rispetto che è dovuto ad un problema così lacerante per tutti.
Per il momento grazie per l’attenzione: non era affatto scontata
Enrico
J
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Un tema tra i più sensibili e complicati per la coscienza contemporanea, anche laica. Se lo si affronta sotto un solo profilo (ad esempio filosofico o giuridico o etico-religioso) rimangono inevitabilmente scoperti gli altri aspetti altrettanto motivati e motivanti. Il mio modestissimo parere però è che, come per l’aborto, uno stato laico attraverso le sue norme possa (non debba) prevedere il ricorso alla cessazione volontaria del vivere (peraltro già praticata in molti casi attraverso anestesia profonda negli ultraterminali) se richiesta formalmente e in piena coscienza dal malato senza alcuna speranza di miglioramento.Tale possibilità non è di per sé inducente alla pratica stessa consentita solo in quei termini specialissimi previsti per legge. La depenalizzazione della voluntas moriendi non è un incentivo al suicidio legalizzato, ma il riconoscimento, da parte dello stato, di condizioni straordinarie da prevedere, riconoscere per non lasciare i soliti spazi aperti solo a chi può permettersi i viaggi eutanasici all’estero. Comunque un lacerante problema su cui riflettere. È bene affrontarlo con cura.
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Grazie Enrico per la chiarezza con cui esponi il tema. Nella seconda parte sento la tua massima disponibilità alla cura ed al rispetto del paziente, come sempre hai dimostrato nella professione di medico.
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L’uomo va cercando certezze ma, purtroppo per lui, spesso non ci sono ed è costretto a scelte a volte drammatiche. Drammatiche, in questo caso, tanto più quanto più si ritenga che la vita non sia ‘di proprietà’, ma anche per chi crede che ognuno sia pienamente titolare della propria, facile non è. In questo mare dubbioso si cerca, giustamente, aiuto nelle considerazioni di varia natura: etica, religiosa, civile ecc… ma l’aiuto é difficile da trovare. Beato chi non ha dubbi…!!
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Grazie a Enrico del prezioso contributo a una riflessione importante. La quale tocca corde sensibili ed è anche collegata alle trasformazioni intervenute nella relazione fra progresso scientifico-tecnologico e “comune sentire”. Processi che hanno concorso a limitare il potere ordinativo delle istituzioni civili e religiose, producendo l’esigenza di una nuova tavola di responsabilità, diritti e doveri. Attendo il prosieguo…
Nicola
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Vorrei riflettere intorno ai risvolti filosofici della situazione limite qual è l’allungamento della vita, che si è tradotto in vita biologica, decadimento e sofferenza; siamo costretti a riformulare norme etiche e giuridiche che regolano i diritti dei singoli e delle famiglie, fino ad arrivare all’ esito di un referendum.
In generale le biotecnologie mediche innovano forme di cura mediante le terapie geniche. Ciò può produrre sconcerto, quando cadono barriere tra le specie( Spillover e Covid19), in particolare, lo spostamento delle barriere della vita modifica le aspettative del singolo e quel che era una dura necessità, la Nera Signora, si trasforma in una scelta. Ciò non avviene in maniera indolore, con il predominio delle biotecnologie sembra che la vita e la morte perdano la loro venerabilità o mistero, così private di valore intrinseco.
Le biotecnologie scaricano così sui singoli responsabilità inedite, delegate prima ai grandi emissori di norme e orientamenti morali come le Chiese e lo Stato, ponendo ciascuno di noi di fronte a scenari metafisici: vita e morte.
La bioetica ha ridato importanza all’ etica pubblica, che non si risolve solo nel diritto e nella morale privata, dato che l’interesse dell’etica si sposta dal metafisico alla corporeità: siamo anche un corpo! La corporeità – rimossa dalla tradizione occidentale ( la prigione dell’anima, il dualismo di res cogitans e res extensa)- viene riportata in primo piano, allorchè le biotecnologie possono modificare la dimensione corporea.
Ora, Enrico, assistiamo ad uno spasimo di conflitti e fanatismi che pongono in rotta di collisione regole morali e fedi religiose. Come hai mostrato, riportando le parole: ” Ciò che mi è rimasto non è più vita”, vi è la scelta fisica e metafisica insieme, è la vita stessa( e la morte), in termini biologici, ma anche spirituali e culturali.
Io propendo per una posizione laica di autonomia individuale.
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