RUBRICA “BENI COMUNI”, 23. ALMANACCHI, CALENDARI, LUNARI, STRENNE (SECONDA PARTE)

a cura di FRANCESCO CORRENTI

(continua dalla puntata precedente)

La copertina della 23a rubrica “Beni comuni”, cui ho accennato la volta scorsa senza descriverla, è presto detta. Ma prima vorrei far presente che il rettangolo del cartiglio (o “etichetta”) l’ho disegnato – come molte delle immagini dei miei articoli – in modo che la proporzione dei lati della figura geometrica fosse il numero aureo, risultasse quindi un rettangolo aureo, dimensionato secondo il rapporto aureo o sezione aurea.

Un vezzo? No, l’applicazione dell’insegnamento famigliare e scolastico di prendere esempio da chi ne sa più di noi. Cioè, in questo caso, fidandomi ciecamente (alla Omero…) – sembra una contraddizione in termini – dell’occhio (degli occhi) di Ictino, Callicrate e Mnesicle, che sotto la super-visione di Fidia costruirono il Partenone, attenendosi ai canoni della “costante” detta appunto “di Fidia”, o se preferite, affidandomi al gusto di personaggi come Luca Pacioli, Leonardo da Vinci, Raffaello Santi (preferisco indicarlo con il cognome vero, paterno) e tantissimi altri, i quali, per opinione generale, di bello e di belle proporzioni ne capivano qualcosa. E loro, quella, la chiamavano divina proportione, e ancora oggi è detta «sezione aurea», il cui valore (lo scrivo solo per completezza della rubrica) è dato da:

φ = 1 +  1,6180339887.

A voler strafare, copiando dai tanti siti web che trattano della materia, potrei aggiungere che nella terza delle definizioni del libro VI degli Elementi, Euclide dice che un segmento è diviso in media ed estrema ragione, quando l’intero segmento ha alla sua parte maggiore lo stesso rapporto che questa parte maggiore ha alla minore; e l’effettiva costruzione del punto di divisione è data alla prop. 30 del medesimo libro. Ripeterei cose dette ed anche note ai più se precisassi che questo segmento, in molti trattati elementari moderni, si designa col nome di sezione aurea del segmento maggiore. E si riconnette al carattere estetico, che alla divisione di un segmento in media ed estrema ragione si attribuiva nel Rinascimento. Vedansi in proposito la Divina Proportione (1503) di Luca Pacioli, le Scholae mathematicae (1596) di Pierre de la Ramée (Petrus Ramus), le opere di Johannes Kepler. Potrei quindi concludere, per dare un senso didattico alla rubrica e sempre attingendo a piene mani dal web, che «il padre della sezione aurea, che è l’armonia di tutte le forme presenti, è Euclide, che poi Euclide trae la sua sezione armonica su base geometrico-numerologica, e che il padre della numerologia è Pitagora, mentre molti secoli dopo sarà Fibonacci (1175-1235) a trovare, per altra strada, il tracciato della sezione aurea attraverso una  sequenza di numeri, per cui si può concludere che  Fibonacci prende la numerologia di Pitagora (570-495 a.C.) e la geometria di Euclide (300 a.C.)». Ma di tutto questo, credetemi, non voglio proprio parlare, sia per non appesantire un discorso che vuole mantenersi su toni discorsivi e leggeri, un po’ nostalgici dei tempi ingenui e creduloni di quando mio nonno acquistava a inizio dell’anno l’almanacco del Gran Pescatore di Chiaravalle o di Barbanera per trovarvi previsioni felici, sia per non aggravare il retro-pensiero della puntata, che guarda con qualche dubbio, non dico preoccupazione, a certe coincidenze numerologiche e a ipotetici teoremi (Pitagora), nel timore di assetti e geometrie (Euclide) unidirezionali, in una spirale (Fibonacci) di ritorni all’indietro e di ricorsi nefasti.

Questo, con la preoccupazione per nuove repliche dei tempi “difficili” di quando mio nonno acquistava a inizio dell’anno l’almanacco del Gran Pescatore di Chiaravalle o di Barbanera, nella speranza di un futuro più sereno, senza guerre mondiali o di conquista imperiale, senza l’angoscia per la sorte dei suoi figli sul Carso (1915-18) o in Africa (1940-45), senza che quei “fatti di una certa portata e di una certa durata” continuassero a vanificare le conquiste civili ottenute nel 1860 da suo nonno Francesco e da suo padre Antonino, che avevano creduto, da carbonari, nel Dio di una religiosità mazziniana aperta e non confessionale, in una patria libera e unificata «dall’Alpe a Scilla, dall’Adria al mar Tirreno» ma rispettosa delle patrie di tutti, ed in una famiglia che era quella degli affetti più intimi ma anche della convivenza pacifica nella grande famiglia umana.

Riprendendo la descrizione della copertina di questa 23a rubrica “Beni comuni”, si vede, in alto, appunto, il nome della rubrica e il numero della puntata, in caratteri di mia invenzione ripresi da quelli rielaborati da studente di architettura per il logo del nostro Studio “Nuova città” di via Grazioli Lante, in Prati. Prendendo spunto dalla “E” del bar Euclide (sempre lui!), d’angolo sulla piazza omonima e via Civinini, ai Parioli, dove la mattina andavamo a rinfrancarci con prelibate tartine al granchio e maionese, negli intervalli delle lezioni di analisi matematica o di meccanica razionale in Facoltà, sede di via Gramsci, a Valle Giulia, a meno d’un chilometro a piedi di distanza. Non lontana neppure dalla bella piazza Pitagora (sempre lui!) che si fregiava allora di un maestoso pino, poi abbattuto e sostituito da uno più modesto e decentrato, sempre in funzione di perno della rotatoria. Con disinvoltura lessicale e ignoranza della lingua ellenica, qualcuno di noi sosteneva che quella piazza era doppiamente “Pitagora”: in omaggio al matematico di Samo e perché era una pit-agorà, che avrebbe significato, appunto, “piazza del pino” nella nostra fantasiosa etimologia. In basso, la copertina reca il titolo della puntata: Almanacchi, Calendari, Lunari, Strenne. Al centro del rettangolo, la figura barbuta del venerabile astronomo e astrologo (il Gran Pescatore pavese-tortonese è in tutto simile al Barbanera folignate, entrambi creati a metà del Settecento).

A destra per noi che guardiamo (mi trovo sempre spiazzato quando trovo scritto, come vuole la regola, al contrario, cioè in questo caso, a sinistra della figura), una buona bottiglia di Armagnac con la sua confezione, tanto per restare in tema di assonanze, affacciandoci alla Taverne de la Mémoire, e sotto gli anni di questo secolo della nostra storia, il 1922 – anno “nero” se non altro per il colore delle camicie in “marcia” – e l’attuale 2022, tricolorato come la nostra bandiera che ha garrito, sorprendendoci felicemente, sul podio di tantissime vittorie sportive ed ha “infiammato” i risultati elettorali, cui alludono anche le immagini e le iniziali sulla sinistra. L’antica moneta romana con Giano bifronte è simbolo della ianua, la porta dell’inizio d’anno e del mese di gennaio, che apre il calendario dell’almanacco. Finalmente, nell’angolo in basso, il disegno d’un topolino intento a produrre bolle di sapone o forse addirittura meloncini, in questa versione aggiornata, è il ricordo, la memoria, il souvenir del mio triennio delle scuole medie all’Istituto Massimo alle Terme (1949-50, 1950-51, 1951-52), avendo come professore di italiano, latino, storia e geografia il padre gesuita toscano Bernardino (Dino) Chemeri S.J. Il topolino è ripreso dal mio disegno della testata del giornalino di classe che quello straordinario insegnante – appena notata la mia attitudine al disegno ed alla caricatura – mi ha fatto disegnare e scrivere (tutto io) su grandi fogli a quadretti (100 x 70) per i tre anni delle medie, con periodicità quindicinale, ma con supplementi per i fatti straordinari dell’anno, come le vacanze estive o natalizie e le gare di bravura nelle varie materie in cui la classe era impegnata, suddivisa in gruppi di soppesata equivalenza di rendimento individuale e rotazioni periodiche, che abituavano alla collaborazione paritaria e spingevano ad un affiatamento emulativo formidabile.

Quelli di allora che siamo ancora in circolazione, continuiamo ad incontrarci in visite culturali o brevi viaggi esplorativi con le rispettive consorti (ormai affiatate tra loro da decenni di frequentazione) e, ogni primo giovedì del mese, solo noi compagni, a cena al ristorante “I Meloncini” (guarda caso). Tra i molti, anche illustri, compagni, i due fratelli Santi, non discendenti dall’Urbinate, nelle cui caricature del tempo me la cavavo piazzandogli vistose aureole sul capo. Il nome del giornalino era «Il Sorcio Saputello», con un sottotitolo, «gazzettino burbanzoso, umoristico, brioso, piccante, effervescente» che rispecchiava lo spirito di quel giovane sacerdote ed al quale mi sono subito adeguato, affinando il mio disegno e lo stile di scrittura, accentuando i tratti e le notazioni pungenti, con qualche garbo ma senza troppe remore. Varie esperienze successive mi hanno fortunatamente dissuaso dal continuare, ma quella scuola ha lasciato un segno. Padre Chemeri era nato a Londa, vicino a Firenze, nel 1913, aveva quindi sui 36 anni) e la sua presenza era immediatamente percepibile dalla sonorità imperiosa e al tempo stesso gentile ed allegra del suo eloquio e dagli inconfondibili accenti etruschi della parlata. Disegnavo quei fogli, divenuti poi innumerevoli, di pomeriggio a scuola, nella sua stanza sobria e spoglia, al piano dei Padri, il mezzanino al quarto, sopra il piano a doppia altezza delle cappelle, del teatro e delle aule del liceo classico. La finestra affacciava su piazza dei Cinquecento (i Caduti di Dogali, 1887) e quindi sulle grandi strutture delle Terme di Diocleziano, con la basilica di Santa Maria degli Angeli e il Museo Nazionale Romano da una parte e la Stazione Termini dall’altra, proprio in quegli anni al termine dei lavori di ristrutturazione generale e di riassetto, con la nuova pensilina, il “dinosauro” di Montuori, Vitellozzi ed altri, inaugurata per l’Anno Santo del 1950. Nel triennio delle Medie, le pareti della stanza si andarono tappezzando di quei fogli colorati. Era lui che poi, a notte, li ripassava con i pastelli, ravvivando i colori (come li davo io non gli sembravano mai abbastanza vivaci, forti, contrastati), sfumandoli col polpastrello delle grosse dita da contadino, come pensavo dovesse averle anche il suo compaesano Cimabue che appariva sulla scatola delle matite intento a giudicare un profilo di pecora disegnato dal pastorello su una pietra. Così ho confessato la mia immodestia di allora nell’immedesimarmi, molto immeritatamente, nientedimeno che nel grande Giotto di Bondone, anche se forse mi era noto, allora, più per l’aneddoto del famoso O che per altro. Lo stesso entusiasmo inesauribile, Padre Dino Chemeri lo metteva in tutta la sua attività didattica. Per ciascuno di noi, preparava una versione di latino diversa, secondo gli errori più frequenti nei nostri precedenti compiti in classe. Ci dettava note di grammatica d’una chiarezza straordinaria e tracciava sulla lavagna schemi di sintassi semplici e facili da ricordare che copiavamo sui nostri quaderni di appunti e furono preziosi all’esame di licenza e anche dopo. Ho voluto soffermarmi, per debito di gratitudine, sulla figura più importante della mia vita scolastica, tra tanti pure straordinari insegnanti che ho avuto nel corso degli anni, delle scuole elementari all’università. Fin da allora, posso dire proprio per i consigli e l’incitamento di padre Chemeri (e di mio padre) avevo scelto la facoltà universitaria dove anni dopo mi sarei iscritto. Quando, ai primi anni di architettura, andai a trovarlo nella nuova sede dell’Istituto all’EUR, mi sorprese ancora una volta: le pareti della sua stanza erano sempre tappezzate, come l’altra, dei miei (e suoi) disegni del «Il Sorcio Saputello». Ho ancora, per un momento, scantonato dall’esprimere – come ripetutamente annunciato – qualche idea, solo per il Blog e per questa rubrica sui “Beni comuni”. Lo farò, immancabilmente. Nella terza parte, tra una settimana. (continua)

FRANCESCO CORRENTI

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