Con gli occhi dell’Europa: una videochat sul voto italiano

di NICOLA R. PORRO

Si fanno vivi tutti. Qualcuno mi invia una mail. Qualche altro addirittura mi telefona. C’è Inès che insegna a Valenza, Etienne docente a Science Po di Parigi, Kurt che scrive da Francoforte e il nostro decano Bob, politologo di Leicester anche lui fresco di pensionamento. E poi altri che mi lasciano in posta elettronica quesiti preoccupati sul voto in Italia: per Etienne è il Settembre nero della sinistra europea. Non ho memoria di una simile attenzione in passato e mi sforzo di dare risposte non banali alla curiosità e alle inquietudini degli amici ritrovati. Indubbiamente il successo di un partito giudicato postfascista e di una leader “anomala” per gli standard europei come Giorgia Meloni, le sparate di Salvini e il ritorno del redivivo Berlusconi suscitano apprensione. Per gli studiosi di politologia il caso italiano è comunque del più grande interesse. Cosa di meglio, allora, di un bel brain storming transnazionale che produca un frullato di idee da sfruttare per il saggio che ho in cantiere per la Critica sociologica? Kurt asseconda l’idea e avanza la soluzione pratica: trasferirci sul digitale e organizzare a stretto giro una videochat (coniamo la formula eurochat di cui rivendicheremo il copyright). Ci diamo appuntamento per la sera successiva quando alla comitiva si aggregheranno Ingrid, una giovane collega danese, e un imberbe ricercatore austriaco mai visto e conosciuto che si rivelerà però il meglio documentato della compagnia. A un certo punto, a sorpresa – informata chissà come e da chi –, fa irruzione anche Irini da Salonicco, il viso sorridente attraversato dalla nuvola di fumo della perenne sigaretta. Siamo in otto e tutti in grado di comunicare passabilmente in inglese: un panel tecnicamente ideale composto da amici che si stavano perdendo di vista e da qualche promettente new entry. Le note che seguono rappresentano il sunto, un po’ disordinato ma fedele, di una riflessione a più voci che mi è parso interessante socializzare.

La discussione prende le mosse dall’impennata dell’’astensionismo. Bob tende a ridimensionarne la rilevanza: in fondo l’Italia non fa che allinearsi alle medie internazionali. Qualcuno obietta però che la crescita a raggio europeo dell’astensionismo non va liquidata a cuor leggero: il voto di chi non vota non è necessariamente una forma di consenso allo status quo. Intervengo per contestualizzare il caso italiano: la fuga dal voto, preciso, andrà verificata alla prossima scadenza elettorale per indagare meglio l’effetto di possibili cause contingenti. Il sistema elettorale – il famigerato rosatellum – potrebbe, ad esempio, aver incoraggiato il non voto rimuovendo di fatto le preferenze. Strumento classico di scambio politico-clientelare, esse hanno tuttavia rappresentato, sempre e dovunque, un incentivo non trascurabile alla partecipazione al voto. Accennando ai risultati della Svezia e ad altri casi a scala continentale, la collega danese segnala come l’offerta elettorale e la mediatizzazione della politica tendano a enfatizzare sempre più la figura dei leader e una comunicazione politica ricalcata sul formato pubblicitario. Fenomeno che ha un imprinting italiano, ricorda Etienne evocando il Berlusconì del ’94.  Anche in Francia, aggiunge, si è persa la memoria dei comizi pubblici, delle grandi adunate popolari, dei contatti personali, del censimento dei militanti. Condivido e segnalo come la mediatizzazione della politica rappresenti un terreno fertile per i nuovi populismi, sebbene con alcuni distinguo. Irini mi chiede di fare un esempio. Propongo il caso di Conte che cerca di arginare la débacle annunciata dai sondaggi rinunciando provvisoriamente alla pochette e andando a far cassa elettorale nelle città del Sud con il reddito di cittadinanza e la necessità di difenderlo “a prescindere”.

L’astensione attorno al 36% degli aventi diritto, in ogni caso, altera la comparazione con le precedenti consultazioni. La fuga dell’elettorato non produce quasi mai, ricorda Kurt, effetti equamente distribuiti fra le liste in competizione. Inès – che si interessa di media e politica – è sconcertata dalla rappresentazione distorta dei risultati offerta dalle nostre reti televisive e testate giornalistiche: una sarabanda de voces y comentarios! (quando siamo infervorati Kurt ci consente qualche battuta nell’idioma natio). Evidentemente finalizzata, aggiunge, a orientare l’interpretazione del voto magnificando successi inesistenti (il caso della coalizione di centrodestra) o viceversa drammatizzando risultati deludenti ma non catastrofici (il Pd). Mostra in proposito un paginone del Paìs dedicato alle strategie di deformazione comunicativa di cui il recente caso italiano fornirebbe l’esempio. Insomma, riassume Bob, il maquillage post-elettorale è parte del gioco e non solo in Italia. Però non c’è dubbio che il fenomeno abbia assunto nel nostro caso un profilo indecente: really amazing! Fa gli esempi di Conte e Salvini, reduci da solenni batoste trasformate in maniera impudente, come in un gioco di prestigio, in squillanti successi. Come sarebbe stato possibile farla franca impunemente – interviene Etienne – se l’opinione pubblica fosse stata correttamente informata? È un effetto di ritorno del fatto che la comunicazione politica sia monopolizzata dalla neotelevisione – dove “passa” il messaggio più gridato – e dai social… quelle honte!

In proposito mostro le prime pagine di Repubblica e Corriere e traduco alla buona i titoli. Segnalo come campeggino sempre nelle prime pagine “resa dei conti nel Pd”, “un partito in liquidazione”, “aperta la corsa alla successione di Letta”. I dodici milioni di voti persi dalla trimurti populista – Lega, M5S e Forza Italia – sono fuggevolmente richiamati dal politologo di turno in undicesima pagina. Ingrid mi interrompe: «Back then all the things we read were bullshit?». Beh, proprio bullshit è un po’ forte, però il senso è quello: di fesserie ne abbiamo lette tante, troppe… Kurt la dice giusta: l’onda nera fa parte di una narrazione, c’è una palese dissociazione dalla realtà. I rapporti di forza fra schieramento conservatore e area progressista non sono mutati rispetti a quattro anni fa. La vera novità è data piuttosto dai nuovi rapporti di forza dentro la coalizione vincente a beneficio dell’estrema destra. Si è spostato il baricentro conservatore.

La new entry austriaca – che rivela di chiamarsi Lukas– ha scovato un dato che basterebbe da solo per condannare all’esilio perpetuo gli estensori del Rosatellum. Infatti, calcolando il “costo in voti“ di ogni singolo eletto (si prende il totale dei voti alla coalizione o al partito e si divide per il numero degli eletti, a prescindere dagli specifici meccanismi di assegnazione dei seggi), si scopre che a un candidato di centrosinistra ne sono serviti 94.000 mentre a uno di centrodestra ne sono bastati appena 52.300. Sembra incredibile ma è vero: calcolatrice alla mano Kurt conferma l’osservazione di Lukas. Rappresentando lui il nostro oracolo in materia statistica, il suo inappellabile giudizio fa gongolare il giovanotto austriaco. Anche nell’esaminare il risultato del Pd occorre preventivamente sfatare una non disinteressata “narrazione”.  Il risultato è certamente inferiore alle aspettative e alle speranze, osservano Etienne e Bob, ma non può essere enfatizzato arbitrariamente: legittimo parlare di un mancato successo, inaccettabile bollarlo come una catastrofe. Intervengo tuttavia per ricordare come, rispetto al 2018, il Pd abbia perso oltre 800mila voti: un’enormità, non c’è dubbio. E anche un indicatore di disaffezione che sarebbe colpevole trascurare o minimizzare. Resta però, aggiungo, che in percentuale il partito cresce, seppur di poco: dal 18.8% al 19.1%. Non si discosta insomma da quella “quota 20” che – ricorda Inès – sembra essere diventato il formato standard di buona parte dei partiti di sinistra europei, o almeno di quelli che competono in contesti pluripartitici. Ma soprattutto, osserva Bob, a smentire una rappresentazione apocalittica della sconfitta Pd sta il confronto con i contendenti: il Pd ha perso sul terreno delle alleanze e della strategia assai più che su quello del consenso. Più che voti ha perso centralità politica. Etienne si associa all’analisi che viene emergendo: a suo parere, il caso del Pd non presenta alcuna attinenza con quello, evocato a sproposito da qualche analista, del Partito socialista francese, cancellato dalla scena politica nazionale in meno di un decennio.

I due colleghi che hanno meglio approfondito i report della stampa italiana si sentono chiamati in causa. A Inès e Lukas, ad esempio, pare surreale che Salvini possa sbraitare, pretendere poltrone, porre condizioni e minacciare sfracelli dopo aver dilapidato in quattro anni qualcosa come tre milioni e duecentomila voti (quattro volte quelli persi dal Pd!) e addirittura sei milioni e settecentomila rispetto alle Europee 2019, precipitando dal 17.4% del 2018 e dal 34.2% del 2019 all’8.8%. Tutti, en passant, sono sorpresi dal fatto che dopo una simile legnata il Capitano non abbia neppure ventilato le dimissioni mentre in campo avversario già si allestiva un metaforico rogo ove ardere Letta e l’intera leadership Pd, reduci da una seppur modestissima avanzata in percentuale. Al di là delle Alpi, ne convengo, si fa più fatica a capire certe cose. Ah, les Italiens! Il redivivo Berlusconi, ad esempio, soddisfatto della “rinnovata fiducia” concessagli dagli elettori forse non si è accorto di aver perso in quattro anni più di due milioni e duecentomila voti e sei punti netti in percentuale. Per non parlare del Movimento cinquestelle: poco meno di sei milioni e mezzo di voti bruciati rispetto al 2018 e una percentuale di consensi più che dimezzata in meno di quattro anni: dal 32.7% al 15.4%. Eppure eccoli lì: a pontificare sulle colpe del Pd, a esigere abiure, a porre condizioni. Un panorama surreale, fa osservare Inès, chiedendosi di nuovo perché il Pd dovrebbe cambiare segretario, nome, simbolo e, già che ci siamo, anche l’indirizzo mail, le piastrelle della cucina e la lavatrice che perde… Per parte mia confermo che in effetti la stessa analisi aggregata per coalizioni rivela una sostanziale stabilità rispetto al 2018. Il centrodestra, in forza della diversa geografia delle forze in campo e del collasso cinquestelle, cresce di quasi sette punti percentuali ma ha un saldo attivo in numero di votanti insignificante: poco più di centomila voti.

Specularmente, lo schieramento di centrosinistra guadagna più di tre punti percentuali (dal 22.9% del 2018 al 26.1% del 2022) ma flette in numero di votanti di circa centocinquantamila voti. In qualunque altro Paese al mondo si sarebbe parlato di una situazione di sostanziale stallo fra le coalizioni maggiori, di un vero e proprio collasso delle forze populiste (segnatamente di M5S e Lega) e dell’exploit di FdI, la sola forza parlamentare storicamente estranea alla cultura dell’antifascismo. I Fratelli d’Italia schizzano infatti di 22 punti percentuali (dal 4.3% al 26%) con un’avanzata di quasi sei milioni di voti: da 1.421.109 a 7.302.517 (26%). Si tratta tuttavia, a ben vedere, della fisiologica alternanza alla testa della coalizione di centrodestra di uno dei partner. In anni recenti era toccato prima a Berlusconi e poi a Salvini di fagocitare il consenso degli alleati: adesso Lega e FI insieme raggiungono a stento il 40% del totale della coalizione. Bob descrive la situazione italiana come una forma di bipolarismo incompiuto, ma invita a non sottovalutarne le conseguenze: da vecchio laburista si augura che i compagni (proprio così…) non perdano tempo a leccarsi le ferite. Per un inglese l’imprinting postfascista dei Fratelli d’Italia non è una semplice curiosità storica…

Dedichiamo l’ultima parte della nostra call a due questioni che ci riproponiamo di analizzare meglio un’altra volta: ci abbiamo preso gusto. La prima riguarda la figura di Giorgia Meloni e il paradosso della prima leader donna espressa dalla più maschilista delle forze in campo. La questione divide le colleghe. Ingrid e Inès pensano che si tratti comunque di una novità importante: in qualche modo il tetto di cristallo è stato infranto anche in Italia. Irini non è d’accordo: ricorda come la stessa Grecia abbia già avuto una premier, Vasilikī Thanou-Christofilou, chiamata nel 2015 a presiedere un governo ad interim dopo le dimissioni di Tsipras. Giudica però Meloni una perfetta icona del vecchio che si camuffa da innovazione. Aggiunge che i precedenti si sprecano e non solo in Europa. E ricorda come Paesi lontani, importanti ma non certo esempi di democrazie consolidate, abbiano conosciuto già da decenni leadership femminili (non sempre progressiste): da Indira Gandhi a Benazir Bhutto, da Evita Peròn ad Aung San Suu Kyi. Etienne ed io ci inseriamo per qualche precisazione. Molti degli esempi citati da Irini, ad esempio, non riguardano leader “democratiche” ma piuttosto figure depositarie di quello che la sociologia chiama “carisma di posizione”: la figlia di Nehru, la moglie di Bhutto, la vedova di Peròn… Figure prestigiose che sarebbe però errato considerare emblemi di modernizzazione culturale e di emancipazione femminile incarnando piuttosto vetuste eredità culturali come il diritto di sangue. Il caso italiano, venuto alla ribalta con l’affermazione della Meloni, segnala piuttosto un serio ritardo democratico colpevolmente subito dai vecchi partiti. Colmato adesso, in modo paradossale e un po’ beffardo, da parte di forze dichiaratamente conservatrici e sotterraneamente divise da conflitti e gelosie.

Il voto di settembre, tuttavia, offre qualche spiraglio alla speranza. Lukas ricorda, ad esempio, come le tre forze di più esplicita matrice populista (M5S, FI, Lega) perdano, fra il 2018 e oggi, oltre dodici milioni di voti reali, che corrispondono – aggiungo – all’intera popolazione elettorale di Lombardia, Lazio e Campania. Del terremoto beneficiano però l’astensione e l’estrema destra. Ingrid torna a ricordare come anche nel Nord Europa, culla delle grandi socialdemocrazie del Novecento, l’onda di destra (sebbene non populista nell’accezione politologicamente corretta del termine) abbia sommerso di recente la Svezia mentre Inès istituisce un confronto fra populismi italiani e spagnoli. Segnala la crescita elettorale e la contemporanea crisi di leadership di Vox – l’interfaccia iberico della Meloni, nostalgico del franchismo – in parallelo con il ridimensionamento di Podemos, gemmato dal movimento degli Indignados e non privo anch’esso di pulsioni populiste. Etienne propone una suggestiva lettura dei due idealtipi francesi (il populismo reazionario della Le Pen e quello nutrito di demagogia di Mélenchon), troppo dotta e articolata per essere compatibile con il tempo che si sta consumando. Per Kurt il caso di Alternative fur Deutschland non è assimilabile a quello di FdI, anche se entrambi rappresentano a suo dire forme di destra radicale piuttosto che autentici movimenti populisti. Irini descrive Tsipras e il suo partito Syriza come l’espressione di un populismo sui generis, capace di arrivare alla guida del Paese sull’onda di un plebiscito popolare senza però riuscire a governare. Una parabola assai ricorrente nei populismi al potere.

I tempi stringono e mi affretto a tirare alla buona le conclusioni. Il terremoto in Italia c’è stato ma ha colpito trasversalmente le forze populiste più che la sinistra. La narrazione dell’evento è stata però deformata da letture frettolose e talvolta strumentali che hanno alterato la percezione collettiva dei risultati. I dodici milioni di voti persi da M5S, Lega e Forza Italia – le tre forze di più nitida ascendenza populista – sono stati intercettati in parte dalla Meloni ma ancor più dall’astensionismo. I principali blocchi elettorali (centrodestra-centrosinistra) presentano però, più o meno, la stessa consistenza del recente passato. Una demenziale legge elettorale ha sfacciatamente favorito la coalizione di centrodestra. Il caso del Pd non è quello di un tracollo dei consensi bensì piuttosto di una inadeguata conduzione di una sfida politica, peraltro assai complicata. Si trattava infatti di associare forze fra loro incompatibili tenendo a bada il populismo della pochette, le piroette di Calenda e le trame di Renzi… Certo: è quello che passava il convento. In politica il motto «meglio soli che male accompagnati» gode però di scarsi favori. La politica non è fatta per i seguaci di de Coubertin. L’importante non è partecipare: bisogna vincere. E qualche volta, per esorcizzare gli incubi, occorre camminare insieme.

NICOLA R. PORRO

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