La resistenza del mediano

di LUCIA SCAGGIANTE

C’è una fotografia che abbiamo tutti negli occhi: Tommie Smith e John Carlos che sul podio olimpico dei 200 metri, Città del Messico 1968, alzano il pugno chiuso e guantato di nero e abbassano il capo in un gesto di straordinaria potenza drammatica, che intendeva esprimere la loro protesta contro la negazione dei diritti ai neri d’America. Niente era lasciato al caso, dai piedi scalzi che volevano dire povertà, alla sciarpa nera dell’orgoglio africano, alla giacca della tuta lasciata aperta in omaggio ai lavoratori e perfino alla lunga collana di pietruzze che evocavano le pietre dei linciaggi. Con una discrezione piena di rispetto, anche l’australiano Peter Norman, medaglia d’argento, si unì alla protesta indossando come loro il distintivo del Progetto Olimpico per i Diritti Umani. Lo stadio ammutolì.

Esiste un’altra fotografia, molto meno nota e dall’aria più dimessa e provvisoria. Firenze 1931. Lo stadio è ancora in costruzione, si intravedono gli ultimi tralicci degli spalti. Nell’imminenza della partita, gli atleti della Fiorentina si schierano nel saluto romano, rivolgendosi allo stato maggiore fascista sistemato nella tribuna d’onore, che resta fuori dalla scena. Tutti meno uno, che porta sulla maglia viola la giacchetta delle riserve e tiene le braccia abbassate, tese lungo i fianchi. L’occhio si impiglia lì (è quello che Barthes chiamava il punctum, il particolare di una foto che ci viene a cercare, ci punge come una ferita, produce una reazione chimica di essenza e di verità) e poi torna a scorrere più volte la fila, dal portiere ai tecnici: niente da fare, a rifiutarsi all’ossequio c’è proprio solo lui. Bruno Neri. La partita era un’amichevole per collaudare il nuovo stadio di Firenze, un progetto razionalista di Pier Luigi Nervi che, grazie a un rettilineo allungato per la corsa, componeva l’inconfondibile profilo di una D – D come Duce; il grandioso impianto sportivo era intitolato a Giovanni Berta, martire fascista.

Quel giorno del 1931, il giorno di quel doppio affronto, il mediano faentino Bruno Neri non aveva ancora compiuto ventun anni. Il 10 luglio 1944 sarebbe morto da partigiano in un combattimento sulle alture di Marradi, a poca distanza dall’eremo di Gamogna.

La sua storia viene raccontata in un podcast disponibile su RaiPlay Sound  che si intitola Bruno Neri calciatore e partigiano e si snoda per sei puntate di circa mezz’ora ciascuna, intitolate La fotografia, La resistenza, La banda, La rivoluzione di Tredozio, Il martirio, Raccontare la memoria. Lo firmano due romagnoli narratori nati, Gianni Gozzoli e Matteo Cavezzali, che affidano alla voce di Alfonso Cucurullo il compito di intrecciare e confrontare i fili di mille ricordi. Perché quando si tratta di memoria, anche di memoria diretta e genuina, ci sono due rischi: generalizzare l’esperienza (“per me la resistenza è stato questo, dunque è questo”) e inscrivere l’esperienza in un orizzonte necessariamente ed esclusivamente glorioso: e invece la storia deve far vedere le luci tanto quanto le ombre, in modo che proprio dal contrasto con le ombre la prevalenza della luce sprigioni tutto il suo fulgore.  Sono ancora vivi testimoni di allora, per esempio Italo Neri, 83 anni di esuberanza in procinto di partire per un circuito della Sardegna in motocicletta: è figlio di Virgilio Neri,  carismatico cugino di Bruno e una delle figure centrali della resistenza romagnola. Ci sono storici come Alessandro Luparini, che dirige la Fondazione Casa di Oriani-Biblioteca di Storia Contemporanea di Ravenna, o  ex professionisti come Enzo Casadio o il medico fiorentino Marco Vichi, per i quali, frutto di personale passione, la storia locale di quegli anni non ha segreti, o ancora esponenti dell’ANPI come Franco Conti, politici e cultori dello sport. Le loro voci si alternano a descrivere una figura originalissima di  campione, la faccia strana e simpatica, il carattere equilibrato e tutt’altro che spavaldo, la grande capacità di corsa che gli permetteva di giocare di eleganza – costruzione e interdizione, come dicono i tecnici: un mediano perfetto, insomma, che correva con gli altri e per gli altri senza andare sotto i riflettori, ma facendoci arrivare i compagni. Amato e particolarmente leale, tanto che, divenuto allenatore al termine della carriera, avrebbe composto per i suoi allievi un decalogo del calciatore improntato a spirito cavalleresco. Il Faenza, e poi la Fiorentina, una breve parentesi alla Lucchese e da ultimo il Torino; anche la Nazionale di Vittorio Pozzo, come coronamento della sua serietà e della sua tenacia. Ma poi, un uomo curioso, che si era iscritto alla facoltà di Lingue Orientali ed era affascinato dalla poesia e dall’arte, a Firenze frequentava il Caffè delle Giubbe Rosse e  a Torino ambienti dell’opposizione (negli anni Trenta il calcio non era ancora un dio geloso che pretende l’esclusiva), traendo consapevolezza ulteriore dagli incontri con gli intellettuali antifascisti a cui l’introduceva a Milano Virgilio.

Virgilio che dopo l’8 settembre entrò in una banda partigiana divenendo per tutti “Capitan Rivolta”, e ripetutamente sfuggì alla cattura in circostanze romanzesche i cui particolari confermano una volta di più come la guerra civile laceri in primo luogo le famiglie; Virgilio, l’esempio che portò anche Bruno a salire sulle colline.

A questo punto la narrazione prende un altro respiro e dà conto di come nacque e si strutturò l’ORI, l’Organizzazione della Resistenza Italiana che doveva coordinare l’attività di diverse formazioni partigiane e soprattutto  tenere i contatti con i servizi segreti degli eserciti alleati fornendo supporti di informazione, sabotaggio e raccolta di armi e viveri tramite gli aviolanci. Intorno al Gruppo Zella, dal nome di un’emittente radio messa in opera da tre uomini appositamente addestrati, gravitava quello che poi sarebbe divenuto il battaglione Ravenna, una compagine politicamente eterogenea di azionisti, comunisti, cattolici e badogliani  a cui appartenevano entrambi i cugini Neri; col nome di battaglia di “Berni”, Bruno ne era vicecomandante, mentre a comandarlo era Vittorio Bellenghi, “Nico”, un ex ufficiale dell’esercito con esperienza di combattimento e anche di guerriglia.

Accanto a questa resistenza coraggiosa e disciplinata, ci fu poi quella temeraria e spettacolare di Silvio Corbari, che fra l’altro conosceva Neri per aver militato nei ranghi giovanili del Faenza affidati alle cure del campione, e da ragazzo aveva estrosamente calcato le tavole dei teatrini parrocchiali. Insofferente a ogni autorità, impulsivo e difficile da gestire, nella sua banda non ammetteva commissari politici e le sue azioni si distinguevano per la rapidità micidiale del fulmine e la sfrontatezza beffarda con cui, travestito o a viso aperto che fosse, metteva invariabilmente in ridicolo i fascisti, incoraggiando di fatto nuove adesioni alla lotta. Come avviene sempre per le leggende, che corrono a lungo di bocca in bocca prima di essere fissate sulla carta, è quasi impossibile ricostruire le sue gesta in modo preciso, e anche questo è un segno, come lo è del resto il particolare che nella sede faentina dell’ANPI siano appesi in bella mostra tre ritratti, Garibaldi, Che Guevara, Corbari.

La brigata di Corbari e quella di Virgilio e Bruno Neri furono l’una a fianco dell’altra in un evento che, per quanto effimero, anticipò e preparò la liberazione delle terre fra Romagna e Toscana: l’istituzione di una Zona libera partigiana, una sorta di minuscola repubblica indipendente nel comune di Tredozio.

Per molti, la morte arrivò che la guerra non era ancora finita, in un precipitare tragico di eventi  rimasti in parte misteriosi. Vittorio Bellenghi e Bruno Neri in perlustrazione sulla costa impervia e nuda di Gamogna – che stranezza, che imprudenza un comandante e il suo vice nella stessa missione esplorativa – folgorati da Mauser tedeschi che non potevano essere lì; “Zanco”, il marconista di Radio Zella, sorpreso in un remoto casolare di campagna con codici e macchinari; e ancora i fratelli Spazzoli, e Silvio Corbari con la sua compagna Iris Versari e Adriano Casadei, amico inseparabile, circondati in un’alba d’agosto da due o trecento fra tedeschi e fascisti… Tante cose non tornano, le voci diventano più fitte nella ricerca di ragioni, per un bisogno di chiarezza e di giustizia, ed evocano i conflitti fratricidi della guerra di Spagna e di Porzus, i tradimenti di infiltrati, l’umanissima debolezza di abbassare la guardia proprio nel momento meno opportuno; dichiarano certezze d’istinto che disdegnano le prove e l’amara convinzione di non poter raggiungere mai la verità.

   È bella questa drammaturgia capace di disegnare paesaggi con minimi tocchi sonori, i passi diversamente felpati dall’erba secca o dalla neve, oppure attraverso la voce raccolta del narratore che sembra condividere personali memorie; onesta e disincantata nel dare spazio ai contributi più diversi e nel riconoscere che la famosa fotografia potrebbe anche essere un falso, un’icona fabbricata nel dopoguerra per dare evidenza plastica a un mito dell’opposizione al fascismo.

Quello che non si discute e rimane, è il senso di un sacrificio e di una vita. E questo trova approfondimento nell’ultima puntata, davvero tutta da ascoltare, dove senza retorica si parla di vittoria, di sconfitta e di eredità, della lotta come strazio, dell’urgenza esistenziale della scelta, di quanto lo sport sia stato mistificato politicamente e si sia fatto lezione autentica di vita e di libertà, di come il racconto di esperienze come questa costruisca l’identità e quindi l’anima e sia, nella sostanza, una promessa e un giuramento d’amore.

LUCIA SCAGGIANTE

https://www.raiplaysound.it/programmi/brunonericalciatoreepartigianoht
https://www.youtube.com/watch?v=Vu2So2gjdvw (un brano musicale del gruppo Gasparazzo Bandabastarda dedicato a Bruno Neri)