RUBRICA – “BENI COMUNI” – 9. TI CONOSCO, MASCHERINA… Dal “folleggiar della carne” alla follia della guerra, usi e costumi verso la Quaresima… Capitolo 1
Catalogo Documenti Utili: Stralcio delle disposizioni sul divieto di coprire il volto in luoghi pubblici
a cura di FRANCESCO CORRENTI ♦
Che sia un diffuso modo di dire dalle origini medioevali, sia stato il titolo d’un film del 1944 di Eduardo De Filippo con Peppino e Titina, d’uno sketch tv di Monica Vitti del ’55 o lo sia, oggi, di alcuni libri e opuscoli di vari autori (come la notissima scienziata Ilaria Capua) sulle regole da rispettare per difenderci dal virus proprio con tale indumento ormai abituale, nelle mie orecchie risuonerà sempre con la voce di mia mamma, che mi “smascherava” quando le dicevo, alle elementari o alle medie, d’aver finito i compiti a casa e non era vero.
Oggi, troppi personaggi vorrebbero gabbarci con le loro apparenze e ci fanno venire in mente la stessa frase, in toni che vanno dallo scherzoso al tragico, ma voglio iniziare da un ennesimo “manoscritto ritrovato”, non senza aver ricordato la mia recente visita ad uno dei Musei di Abano, di cui ho riferito in una puntata precedente, il Museo Internazionale della Maschera, dove ho “schizzato” sul taccuino Moleskine alcune impressioni ed ho acquistato il volume di Alberti, Carmelo e Piizzi, Paola (a cura di), Il Museo Internazionale della Maschera. L’arte magica di Amleto e Donato Sartori, Centro Maschere e Strutture Gestuali, Abano Terme (PD) 2005, con una presentazione di Dario Fo e una nota di Claude Lévi-Strauss sul potere attribuito alle maschere in ogni parte della terra.
Il manoscritto è effettivamente tale, ossia un fascicolo di fogli (non di carta ma di cartoncino colorato, verdi alcuni e gialli altri), forati su un lato e tenuti insieme entro un’apposita copertina rigida da due anelli a scatto, con lunghe annotazioni scritte a china con la mia ordinatissima calligrafia, con molti disegni a colori e diverse fotografie in bianco e nero. È l’album-diario di viaggio (il viaggio nella Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Roma) del “Gruppo A” poi “Gruppo Nuova Città” con studio collettivo in Via Riccardo Grazioli Lante della Rovere (Prati, rigorosamente, come direbbe quella antipaticissima pubblicità d’una pasta), cioè di dieci-sedici – gli esami falcidiavano – studenti di entrambi i sessi, con perfetta parità di genere. Datato (molto datato) tra il 1° maggio 1961 ed il 28 febbraio 1964, ma pure con qualche foto successiva.
Alcune pagine sono dedicate ad una festicciola svoltasi mercoledì 28 febbraio 1962 a casa d’uno degli studenti, con tanto di ballo in maschera, per il Carnevale di quell’anno, dove (oltre al frac e mutande di Giancarlo) il tema comune era quello d’invertire i generi dell’abito – maschietti in gonna scozzese e parrucca bionda, per dire, e femminucce in gessato o in tenuta da “pittore di Montmartre” ma sempre con baffi e pizzo o barba finti – e, a parte i paragoni con fatti recenti e il cordoglio per qualche amico ed amica che non ci sono più, sono divertenti – sotto quei trucchi – le faccette giovanili e ingenue di alcuni attuali docenti emeriti o di note coordinatrici scientifiche di importanti riviste di geopolitica. Prendo spunto, quindi, da quei fogli che per età hanno ormai superato la sessantina e trascrivo, pari pari, le divagazioni che avevo scritto allora in tema di maschere e simili.
Lascio tutto come lo trovo, le foto delle gite, delle feste e di qualche interpretazione “filodrammatica” e gli scritti del diario, comprese le poesiole in rima baciata, perché “così eravamo”: non particolarmente sciocchi, forse non eccezionalmente brillanti, ma normali, normali studenti di una Facoltà ancora ibrida, di una architettura ancora con piccoli spunti di goliardia e molte ma vaghe speranze per il futuro, ancora del tutto lontani dalle attuali mascherine e dalle altre preoccupazioni ed angosce del nostro oggi.
Ma pur sempre quelli dell’occupazione della Facoltà del ’63 «con il programma di porsi in continuità con le linee culturali e politiche del Movimento Moderno così come celebrato dalla critica antifascista del dopoguerra». Quelli che si uniscono ai colleghi più anziani dell’ASeA – Associazione Studenti e Architetti (soci fondatori Lucio Barbera, Sergio Bracco, Alessandro Calza Bini, Enrico Fattinnanzi, Massimo La Perna, Claudio Maroni, Gianfranco Moneta, Giorgio Piccinato, Vieri Quilici, Manfredo Tafuri e Massimo Teodori) – e dell’AUA/Architetti e Urbanisti Associati, e che partecipano «ad organizzare la “serrata” contro il Corso di Composizione del prof. Saverio Muratori» che portò all’istituzione del corso – aperto, democratico, progressista, impegnato, di sinistra – di Adalberto Libera e poi, per la sua dolorosa improvvisa scomparsa, di Ludovico Quaroni, «da cui prendono inizio i rivolgimenti anche istituzionali che per tutti gli anni Sessanta interesseranno la Facoltà di Architettura di Roma, assieme ad altre Facoltà italiane, e che le scuoteranno nel 1968», fino ai momenti drammatici dei fatti di Valle Giulia.
Questo, dunque, il manoscritto:
«Ora. voi lo sapete bene, il Carnevale ha una tradizione antica che può farsi risalire ai Saturnali romani. La continuità storica è indiscutibile e il personaggio burlesco che si mette pubblicamente a morte, dopo un breve periodo di dissipatezze e di piaceri, non è che il discendente dell’antico re dei Saturnali, giunto a noi attraverso i vari personaggi ridicoli o lubrici dei ludi medievali (il re della fava, il vescovo dei folli, l’abate della derisione).
«Ma ben più vetusta è, amici, l’usanza dell’uomo di nascondere le proprie sembianze dietro maschere e travestimenti. Sorta nelle più antiche età con intenti magici propiziatori, tale pratica – testimoniata, ad esempio, dalla pittura rupestre detta “il Mago” nella grotta maddaleniana dei Trois Frères – si è conservata nelle consuetudini tribali dei popoli primitivi ed è giustamente riconoscibile nei riti dei Mamutones e degli Issocadores, caratteristici di Mamoiada in Sardegna. Riti che hanno significativi termini di confronto con γέρος di Skiros e di καλογέροι di Viza, nonché con le botargas spagnole (vedi R.M. Dawkins, The Modern Carnival in Thrace and the Cult of Dionysus in «Journal of Hellenic Studies», vol. XXVI, Novembre 1906, p. 191-206;J. R. López de los Mozos Jiménez y S. Garcia Sans,Botargas y enmascarados alcarreños: notas de etnografía y folklore, in «Revista de dialectología y tradiciones populares», IX, 1953, p. 467 e segg.).Peraltro, il tipo di maschera lignea dei Boes di Ottana in Barbagia ha un’antichità documentata dalla testimonianza di Sant’Agostino («alii vestiuntur pellibus pecudum, alii assumunt capita bestiarum, gaudentes et exsultantes si taliter inferinas species transformaverint ut homines non esse videantur», Sermone CXXIX).
«È a tutti noto come il Carnevale – assurse spesso a ruolo principale in città come Roma, Ivrea, Venezia – (nulla sappiamo dire di Pomezia). – A Torino si avevano tornei, – carri infiorati carchi di trofei, – mentre in Firenze, culla di gaiezza, – canta Lorenzo: “È bella giovinezza!” – Per tornare a Venezia, tutti sanno – che le feste duravan tutto l’anno. – Lo stesso Doge, in domino, la sera – andava con la bella Locandiera. – Dal ponte di Rialto, in canti e suoni, – gettava giù i coriandoli Goldoni.
«Non dirò del Brasile, poi, e di Rio – dove folleggia l’essere più pio, – dove discese nelle grandi piazze, – ballano vecchie e ballano ragazze. – In tutto il mondo ognuno vi sa dire: – «Semel in anno licet insanire!» – Pertanto, credo, stupir non vi potrà – vedere in feste e in canti il Gruppo A, – messi un giorno da parte squadre e testi, – per indossare delle strane vesti.»
L’introduzione pretestuosa in questo racconto del “solito” (ma autentico) manoscritto, mi consente di passare, “en passant”, ad una questione capitale di quegli stessi anni, la «Guerra Fredda», cioè la lotta senza battaglie militari vere e proprie per l’egemonia (di ogni tipo) tra i due blocchi in cui si collocavano le potenze mondiali, con il rischio incombente delle armi atomiche, ma anche con la consapevolezza, ed era il fattore tranquillizzante di dissuasione, della sicura scomparsa di entrambi i contendenti “con tutti i Filistei”, in caso di loro uso. Quella consapevolezza ha retto l’equilibrio fino a questi ultimissimi giorni. Ma per quel 1962 degli anni spensierati ma non troppo della mia generazione, ricordo ancora le telefonate angosciate del mio amico e compagno di studi Fabrizio (Vescovo) nelle ore del braccio di ferro tra John F. Kennedy e Nikita Kruscev, in quel paio di giornate di ottobre in cui la crisi di Cuba raggiunse l’apice della tensione.
E però, qui mi viene in mente uno degli aspetti più evidenti del tema che stiamo sviluppando, ossia il capovolgimento di comportamenti radicati e generalizzati. Oggi l’antico, assoluto divieto del nostro codice di alterare il proprio aspetto, di camuffare le proprie sembianze, insomma di coprire la fisionomia, con maschere o con altri mezzi, per nascondere il volto e renderci irriconoscibili, è stato totalmente cancellato e certamente ne hanno approfittato alcuni malfattori per ingannare qualche malcapitato. Ci sembravano un po’ assurdi ed anche ridicoli, a Tokyo, tutti quegli impiegati, studenti, Revengers, passanti di ogni tipo, per strada o nella metro, tutti con quella mascherina, protettiva per se stessi o “di cortesia”, a scudo del prossimo. Era ovvio, per noi, l’uso in sala operatoria da parte di chirurghi ed infermieri, ma io ricordo perfettamente le mie saltuarie sedute odontoiatriche da ragazzo, in cui il mio dentista, dottor XYZ (successivamente, ho sempre avuto giovani dottoresse), tra l’altro commilitone di mio padre nella Grande Guerra – e col solo rumore del trapano avrebbe potuto far risalire in disordine e senza speranza le valli a intere compagnie austro-ungariche o bosniache –, scrutare nello specchietto avvicinando il suo naso al mio, senza particolari accorgimenti igienici, se non quelli ormai normali dopo le scoperte di Nicolas Appert (1749-1841), Louis Jacque Thenard (1777-1857), Ignaz Philipp Semmelweis (1818-1865), John Tyndall (1820-1893) e Louis Pasteur (1822-1895). Vero è che nel “gabinetto dentistico” faceva bella mostra di sé (parlo di anni proprio distanti) il nuovissimo macchinario per la sterilizzazione degli strumenti, con quelle luci azzurre, già di per sé simbolo di igiene assoluta. Ma certo, non c’era il COVID-19.
Con la pandemia, nascondere il viso dietro la mascherina è diventato un obbligo, che peraltro ha consentito alcune stravaganze, come portare in faccia alcune proprie “identità” vere o presunte, modi di essere o modi per far vedere di essere, di farsi credere di essere, o per credere di essere o per far credere agli altri – ingannandoli –, per farsi credere diversi, o per affermare proprie idee o credi o credenze, di avere certe virtù (più raramente vizi) e così via. E quindi, abbiamo visto “rappresentati” sulla mascherina i segni dei patrioti, dei tifosi, dei pacifisti, e varie altre forme di esternazione o simulazione, come la mia proposta scherzosa dei mustacchi da fare indossare ai poliziotti sulle mascherine rosa, per renderli più mascoli e virili. Poi ci sono tutte le varianti proposte dalla rete, in cui le mascherine sono “personalizzate” con «stampe uniche e vivide dei personaggi cult che ti faranno distinguere dalla massa ovunque tu vada». Il seguito, alla prossima puntata…