Il diritto alla vita e le sue declinazioni. (Ultima parte)

di ENRICO IENGO ♦

Ho citato nell’ultimo intervento le organizzazioni mediche, il  rifiuto ufficiale di contravvenire in qualsiasi modo al giuramento ippocratico; nella realtà quotidiana delle corsie ospedaliere, dei reparti di terapia intensiva, degli Hospice,  delle case si combatte una guerra quotidiana contro la sofferenza sia fisica che psichica. In questa guerra ci si batte con le armi di cui si dispone: spesso un dolore insopportabile, in un malato terminale, viene trattato con oppioidi a dosaggi alti i quali possono tuttavia, come effetto secondario, abbreviare la vita del paziente.

E’ una mal practice medica? No è un atto medico in linea di massima consentito, non regolato esplicitamente dal Codice penale, giustificato, direi anche pregno di pietà; è deontologicamente corretto alleviare le sofferenze di un paziente che non ha nessuna speranza di miglioramento e che è comunque vicino alla fine della sua vita. Si può parlare in questo caso di eutanasia attiva indiretta, cosiddetta perché l’intervento medico non è volto intenzionalmente a provocare la morte del paziente, ma questa avviene come effetto secondario, anche se prevedibile.

Ma esiste anche un’altra eutanasia che riguarda quotidianamente il mondo sanitario: si chiama eutanasia passiva e consiste nella sospensione delle terapie necessarie per la sopravvivenza, nello “staccare la spina”, laddove una respirazione artificiale è solo un mezzo per ritardare di qualche giorno o qualche settimana l’exitus; il confine con la sospensione di cure futili e sproporzionate è molto labile e questo atto omissivo del medico spesso viene compiuto senza il consenso del paziente impossibilitato a darlo.

Esemplare, ma diverso, a tal riguardo il caso Welby. Affetto da una grave forma di distrofia muscolare e attaccato al respiratore dal 1997, senza una sia pur residua autonomia, nel 2006 con l’aiuto del dr. Mario Riccio, muore dopo essere stato sedato e dopo che gli fu staccato il respiratore. Nel successivo processo il medico venne scagionato. Il giudice fece riferimento all’art. 51 del c.p. che sostiene la non punibilità per il medico che adempie alle volontà del paziente, comprese quelle di abbandonare le cure, secondo quanto sancito dall’art. 32 della Costituzione.

Per completezza, a questo punto è necessario introdurre l’argomento delle terapie “palliative”, che hanno assunto negli anni importanza e dignità di disciplina medica autonoma e che vengono indicate come alternativa alla eutanasia. La loro applicazione è indirizzata soprattutto alla terapia del dolore e certamente assolvono un ruolo decisivo per persone che soffrono senza speranza di miglioramento. E’ chiaro che ciò può essere di grande aiuto per il paziente che soffre e cerca una soluzione al suo dolore, ma abbiamo già sottolineato come non è solo il dolore fisico a spingere un individuo a terminare una esistenza mancante di libertà, autonomia e dignità; pensiamo ad esempio ad alcune condizioni penose, quali la necessità di essere assistiti per tutte le quotidiane esigenze fisiologiche quali il mangiare, l’essere accudito, l’essere pulito, soprattutto quando queste necessità non hanno un carattere temporaneo, ma permanente e ingravescente.

La sedazione palliativa profonda permanente è una scelta medica estrema, consentita nell’imminenza della morte, in presenza di una sofferenza intollerabile e con il consenso del paziente. Anche in questo caso non ci avviciniamo fatalmente al concetto di disponibilità della vita?  La sedazione palliativa profonda terminale sembra differenziarsi dalla eutanasia attiva volontaria soprattutto per il carattere temporale relativo al dilazionare la inevitabilità della fine nel primo caso rispetto al secondo. Come detto sopra, inoltre, la soluzione sedazione profonda non è applicabile in tutti i casi, ma solo ai malati negli ultimi giorni di vita. Non soddisfa chi non vuole attendere un percorso lungo e inaccettabile o non voglia morire  in uno stato di coscienza ridotta.

Sono convinto comunque che la medicina palliativista rappresenti uno strumento moderno e prezioso divenuto centrale nella terapia del dolore, semmai c’è da sottolineare la insufficienza dei servizi ad essa dedicati nel territorio nazionale.

Un’altra argomentazione contraria alla eutanasia è quella che sostiene che il paziente è spinto a chiedere di porre fine alla sua vita perché solo, abbandonato, di peso per tutti, parenti e medici.  Sarebbe la sua una scelta legata ad una condizione depressiva, di disistima verso se stesso, ma secondariamente ad un vuoto affettivo che il paziente sente intorno a sé. Dietro la richiesta di morire si nasconderebbe una domanda di amore e vicinanza. E’ sicuramente una verità che una sanità zoppicante nel territorio, che lascia troppo soli i parenti e i pazienti non autonomi e con gravi necessità di assistenza crea situazioni drammatiche, con oggettive difficoltà a relazionarsi con affetto, empatia da parte del care giver. Familiari lasciati soli in momenti terribili, spesso in precarie condizioni economiche e che debbono accudire pazienti difficili, possono subire contraccolpi psicologici e situazioni conflittuali con il paziente. E’ un problema che una società civile e democratica deve porsi; occorre che l’assistenza medica, sociale, psicologica faccia sentire il paziente un membro della comunità non con meno ma con più diritti rispetto agli altri, proprio perché debole e vulnerabile. Detto ciò non si può affermare che tutti i pazienti che arrivano a chiedere di porre fine alle loro sofferenze siano spinti da sentimenti di solitudine e inutilità.

Ne abbiamo già parlato più sopra, ma giova ripeterci e occuparci con attenzione del campo semantico per evitare confusione e chiarire concetti e termini legati al significato di eutanasia. Occorre distinguere fra eutanasia attiva che consiste nel sopprimere la vita del paziente da parte del medico, mediante la somministrazione di farmaci letali, ed eutanasia passiva che consiste nel provocare la morte del paziente tramite la omissione di terapie indispensabili alla sua sopravvivenza. Come abbiamo detto in precedenza, a ben guardare questa distinzione è spesso così sottile da essere incerta: la sospensione delle cure, azione fra l’altro costituzionalmente permessa e accettata anche dalla Chiesa (che la definisce ortotanasia), nelle circostanze in cui la terapia si inquadra nell’accanimento terapeutico, è comunque un atto medico, comporta che il medico stacchi la spina, e in quanto tale non ha una connotazione del tutto passiva: somministrare un farmaco letale o sospendere terapie che mantengono in vita il paziente non sono concettualmente così lontani. Diverso è il modo di morire, che è rapido nel primo caso e può essere lento e pertanto non accettato dal paziente nel secondo.

Altrettanto labile è la distinzione con la cosiddetta eutanasia indiretta, che come abbiamo detto sopra, viene eticamente accettata e consiste nel somministrare elevate dosi di farmaci, solitamente oppiacei, al fine di lenire la sofferenza del malato e non con lo scopo di determinare la sua morte, che però è possibile venga ad essere anticipata.

Centrale è la distinzione fra eutanasia volontaria e involontaria: l’eutanasia volontaria possiede il requisito fondamentale della richiesta esplicita dell’individuo;  l’eutanasia involontaria, viene eseguita senza il consenso. Siamo tutti d’accordo che tale forma di eutanasia è  ripugnante ed esecrabile sotto i punti di vista etico-giuridici. Fornero, citando Peter Singer afferma una terza forma che viene chiamata eutanasia non volontaria eseguita su persone che a causa della malattia o di un incidente hanno perso o non hanno mai avuto la capacità di esprimere un consenso pieno ed affidabile.

Quando il soggetto non è in condizione di esprimere la sua volontà, potrebbero essere tenute in conto le indicazioni consegnate (il cosiddetto testamento biologico), o, in casi eccezionali, le preferenze comunicate a familiari ed amici.

Il suicidio assistito, come abbiamo visto, consiste nel fatto che il paziente stesso provoca la sua morte con l’aiuto indispensabile del medico o di una figura competente; si vuole sottolineare qui la differenza con il suicidio non assistito che avviene generalmente con mezzi violenti ed in drammatica solitudine.

Mi sembra inutile affermarlo, ma è meglio farlo per la estrema delicatezza dei contenuti di tali definizioni semantiche: non si può non manifestare un disagio che ci riguarda tutti indistintamente: il primo impulso è quello della rimozione come strumento di difesa, ma se decliniamo questi argomenti in termini di libertà e qualità della vita, allora possiamo anche accettare di parlarne, rispettando le posizioni di tutti. Nessuno giustificatamente immagina di potersi trovare in quelle situazioni che ho più volte descritto, né nella condizione di malato, né in quella di medico o familiare e nessuno sa quale tipo di scelta farebbe in quel caso, ma un punto di riferimento imprescindibile, una sorta di stella polare, almeno per me, sarebbe il rispetto della libertà personale. E’ certo comunque che nel prossimo futuro casi come Welby o il dj Fabo si presenteranno all’opinione pubblica e pretenderanno una risposta da parte di tutti noi.

A tal proposito, voglio aggiungere che per evitare il minimo rischio di accuse di futuri scivolamenti verso derive eugenetiche o finalità economicistiche o di commercio di organi, timori che fanno parte delle argomentazioni addotte da alcuni fra gli indisponibilisti, va sottolineato il valore centrale del consenso esplicito. Consenso frutto di una volontà espressa con chiarezza e determinazione, ponderato, ribadito più volte per evitare scelte impulsive o transitorie, non influenzato da altri, informato sulla condizione clinica e sulle conseguenze della scelta. In questa ottica il ruolo del medico è semplicemente quello di esecutore di un desiderio che sostituisce l’azione del paziente impossibilitato a mettere in atto il suo intento.

Al di fuori di questo consenso si deve parlare di crimine da prevenire e da perseguire senza alcun dubbio e senza alcuna esitazione.

Recentemente è uscito nelle sale cinematografiche un film che consiglio di vedere e che scuote profondamente i sentimenti. Si tratta di “Blackbird”, in italiano “L’ultimo abbraccio”;  la protagonista Susan Sarandon, affetta da una malattia degenerativa che la porterà ad una progressiva invalidità e alla morte, riunisce la famiglia: figlie, marito e amica, per un ultimo week end e fra sentimenti contrastanti e controversi di tutti, comunica la sua decisione di togliersi la vita con l’aiuto del marito che le ha procurato il farmaco letale. La spiegazione che dà alle figlie sbigottite è che vuole lasciarle quando la malattia che già sta manifestando i suoi sintomi la rende ancora autonoma e capace di  relazionarsi con tutte loro. Nella scena finale in effetti il marito porge la bevanda contenente il farmaco e la donna con una esitazione drammatica e toccante compie l’ultimo gesto, con i familiari vicini, appunto nell’ultimo abbraccio,  sfuggendo quindi ad un imminente destino per lei inaccettabile.

 

In Francia, il 24 settembre del 2000 Vincent Humbert, 19 anni, ha un terribile incidente stradale che, dopo nove mesi di coma, lo lascia tetraplegico, muto e quasi cieco, ma drammaticamente lucido. Nel novembre 2002, in preda a continue, indicibili sofferenze, Vincent detta a un’infermiera – sfruttando l’unica parte di sé che riesce a muovere, il pollice destro – una lettera aperta per Chirac, in cui manifesta per la prima volta pubblicamente la volontà di morire. «A lei, che ha il diritto di concedere la grazia, io chiedo il diritto di morire». Ma Chirac non può aiutarlo, anzi, lo incita a vivere. A Vincent non resta che pregare Marie, sua madre, colei che gli ha dato la vita, di donargli la più grande prova d’amore: procurargli la morte. Il 24 settembre 2003 nel terzo anniversario dell’incidente, la madre di Vincent gli inietta una dose letale di barbiturici, come avevano precedentemente concordato. Il ragazzo però non muore ma cade in coma profondo. Due giorni più tardi una équipe medica diretta dal dottor Chaussoy decide di staccare la spina e di iniettare del cloruro di potassio. Vincent muore il 26 settembre 2003. La madre e il medico vengono imputati e poi assolti dagli stessi procuratori perché avrebbero agito in circostanze estreme. La vicenda sconvolse la Francia. Vincent non ha potuto leggere il libro che ha dettato e che fu pubblicato dopo la sua morte: «Vi chiedo il diritto di morire».                                                           Enrico Iengo