“Oltre la linea” a cura di Simonetta Bisi e Nicola R. Porro – Selfie made man (I). L’immagine e il racconto.
di NICOLA R. PORRO ♦
L’America del Novecento ha dato vita alla figura del self made man. Un uomo che “si è fatto da solo” affermandosi grazie alla propria laboriosità e al proprio talento. Misura, sobrietà, etica calvinistica ne rappresentavano i tratti salienti.
Il riservato self made man si concedeva di rado alle lusinghe di Narciso. Imparò però a lasciar traccia di sé rappresentandosi grazie alla neonata fotografia. Ne scaturì una narrativa per immagini, spesso stereotipata ma sempre in rigorosa consonanza con un’immagine composta e rassicurante di sé, della propria famiglia o del proprio ambiente di lavoro.
Nell’arco temporale di un secolo, fra metà Ottocento (il dagherrotipo, anticipatore della fotografia propriamente intesa, fece la sua comparsa nel 1839) e la Seconda Guerra mondiale, la borghesia si è narrata così. La nuova classe egemone, scalzate le gerarchie dinastiche dell’aristocrazia, si consegnava all’occhio indagatore di una macchina fotografica per restituirci i volti, l’abbigliamento e le posture che sarebbero stati magistralmente descritti da un Marcel Proust o da un Thomas Mann. Di quella epopea borghese possediamo un repertorio iconico imponente. Un archivio della memoria per immagini che racconta riti sociali, consuetudini, preferenze estetiche, vezzi e idiosincrasie: una miniera che solo da pochi decenni la ricerca storica e le scienze sociali hanno imparato a esplorare.
L’antichità classica, la stagione rinascimentale e la stessa arte moderna e contemporanea hanno regalato alle generazioni successive un patrimonio di inestimabile valore. Nessuna ci ha però restituito una narrazione sociale tanto vasta e precisa quanto quella trasmessa a noi da quella che chiameremo “età borghese”. L’antichità, in particolare, aveva prodotto una rappresentazione eroica o encomiastica di immenso pregio artistico. Confinata però nella sfera del sacro o della celebrazione del potere, senza produrre una vera e propria narrazione della vita sociale e della sua identità collettiva.
Non si tratta soltanto di un ovvio effetto di ritorno delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche. Ogni racconto per immagini, in qualsiasi tempo, rinvia a una visione del mondo, qualche volta a vera e propria ideologia. Quella sviluppata attraverso la fotografia dagli emergenti ceti borghesi assolve invece contemporaneamente tre funzioni: di liturgia civile, di narrazione biografica e di celebrazione dell’ordine sociale. Significativamente, era un rigoroso protocollo a suggerire pose, sfondi, posture capaci di evidenziare il rango e lo status dei soggetti ritratti. Logiche distinte ma altrettanto precise ispiravano tanto la fotoritrattistica della numerosa famiglia della Regina Vittoria quanto quella dei baffuti capireparto di un’azienda tessile del vercellese.
Le foto di gruppo della società borghese a cavallo fra XIX e XX secolo rimandano sguardi austeri e vagamente imbronciati. Solo di rado si accenna a un timido sorriso. Il deus machina è sempre lui, il “signor fotografo: un’inedita figura di specialista gemmata a metà Ottocento dalle inedite tecniche di riproducibilità dell’immagine
Alla povertà dei mezzi – se comparati con la potenza e la pervasività onnivora dei media digitali – corrispondeva la costruzione di una scenografia fondata su canoni rigorosi. A opera compiuta, una cornice in stile avrebbe tracciato il perimetro simbolico di uno spazio denso di “segni”: memorie, affetti, significati. Nidiate di bimbi imbracati in vestitini leziosi, visi burberi e pensosi di padri, ritratti di spose accudenti. Oppure adunate di commilitoni accigliati, lo sguardo fiero e le decorazioni vistosamente appuntate su divise perfettamente stirate. Più raramente i repertori d’epoca ci consegnano un primo piano o un ritratto individuale. La fuggevole ispirazione del “signor fotografo” sa però cogliere talvolta un attimo di spontaneità: un’espressione sognante, un sorriso sottratto alla prigionia della posa, uno sguardo allusivo.[1]
[1] Nella mia abitazione un’intera parete, in un angolo poco frequentato del mio appartamento, è dedicata a una galleria di queste “icone” del Novecento. Mi sono eletto custode della memoria storica della famiglia recuperando, classificando e incorniciando il patrimonio iconografico sopravvissuto alle guerre, ai traslochi, all’indifferenza dei posteri. Sono immagini d’epoca che spaziano dagli anni Sessanta dell’Ottocento alla Grande guerra. Con non poca soddisfazione sto da qualche tempo provando a decifrarne la “narrazione” utilizzando (alla buona) qualche suggerimento dell’antropologia e della sociologia visuale.
La Francia del Secondo Impero, a metà Ottocento, aveva fatto da incubatrice alla rivoluzione
innescata dall’invenzione della fotografia. La Gran Bretagna vittoriana (la Regina Vittoria regnerà dal 1837 al 1901) le avrebbe fornito un corposo repertorio simbolico. Pochi decenni più tardi gli Stati Uniti daranno invece forma all’icona più rappresentativa dell’eroe borghese: quella del self made man. Si avviava allora un processo ininterrotto di progressiva dilatazione, perfezionamento e diversificazione delle tecnologie dell’immagine. La cinematografia donerà all’immagine il movimento, la televisione, figliazione della radiofonia, consentirà una fruizione estesa e capillare di contenuti. L’avvento delle strumentazioni digitali segnerà un ulteriore pervasivo salto di qualità. Le continue mutazioni dei media trasformeranno così non solo i codici comunicativi ma le stesse narrazioni sociali.
Fra la seconda e la terza decade del Duemila, sarà però l’Italia a partorire un idealtipo alternativo a quello incarnato dal vecchio self made man: è sotto il nostro cielo che nasce il selfie made man. La sua figura simbolo sarà rappresentata da un giovane leader politico in ascesa, accudito da spin doctor di formazione pubblicitaria ingaggiati per aggiornare la consunta narrazione del nazional-populismo, brutalizzata in Italia dalla contaminazione con il totalitarismo fascista.
Si tratta di costruire l’immagine brusca e operosa di un uomo del fare e di un demiurgo del senso comune. Insofferente del bon ton, incline a una rappresentazione muscolare e manichea della politica, il nostro selfie made man dovrà ostentare modi spicci e una comunicazione affidata a slogan roboanti quanto banali. Purché orecchiabili e di facile presa, raccomandano gli addetti ai lavori. Ma il nostro uomo farà assai di più. Perché disgraziatamente possiede uno smartphone…
Il selfie made man non si separa mai dalla sua protesi comunicativa. Vive in simbiosi con essa e la brandisce in ogni circostanza come uno scettro digitale. Può al massimo riporla per pochi attimi: giusto il tempo di consentire ai tifosi (pardon: ai follower) di inquadrare a loro volta, debitamente muniti delle rispettive protesi, il faccione sorridente e i generosi sorrisi del Capitano. Forse uno psicoanalista sospetterebbe dietro un tale eccesso di ritualità compulsiva bisogni latenti che nemmeno l’ebbrezza fusionale del bagno di folla basta a soddisfare. Un godimento che non può essere consumato nella sfera privata: va esibito, ostentato e debitamente digitalizzato.
Tutta la comunicazione digitale è però succube di un paradosso: è capace di produrre in tempo reale un diluvio di rappresentazioni ma non può coltivarne la conservazione, dar loro un ordine. La comunicazione via selfie, in particolare, agisce in presa diretta, si imprime sulle nostre retine senza mediazioni. Ciò è perfettamente coerente con una sottostante rappresentazione politica, ispirata alla relazione diretta fra il Capo e la nuova plebe digitale. Favorisce la “disintermediazione” del consenso, aspirazione dei populismi di ogni colore. Ma non sedimenta un significato persistente né un senso comune condivisibile al di fuori della pur vasta platea fidelizzata. Generando inevitabilmente dinamiche negative, a volte di autentico rigetto, nell’universo – fortunatamente assai vasto – popolato dagli “altri”.
Per amore o per forza, tutti i leader del nostro tempo, esposti alla dittatura del selfie, si sforzeranno di adattarsi alle impietose regole del gioco del nuovo sistema. Tenteranno persino di “interpretare” la propria immagine, ricercando un precario equilibrio fra strategie di immagine e personali sensibilità di ciascuno. Difficilmente però troveranno con lo strumento e con le sue logiche la spontanea sintonia di un selfie made man a marca populista di origine controllata. Una categoria estesa ma su cui giganteggia la figura del nostro Capitano. Il solo disposto a rivestire compiaciuto i panni della figura più detestata a tutte le latitudini dal pensiero democratico: quella del capopolo.
La dinamica del selfie è sempre, per definizione, di tipo “usa e getta”. È coercitiva nel suo formato comunicativo quanto evanescente nei contenuti che trasmette. Essi si generano freneticamente e incessantemente si dissolvono rendendo difficile e talvolta penoso il ricorso alla politica del selfie per i leader che si ritengono portatori di una visione e titolari di una missione che non si accontenti di catturare un’effimera manifestazione di consenso. Quella che prende forma con la pseudodemocrazia del selfie è insomma la malinconica constatazione di una crescente biodegradabilità della politica tout court: un preoccupante segno dei tempi
Se Herbert Marcuse poteva agli albori del Sessantotto denunciare la “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà” generata dal sorgente neo-capitalismo, il selfie made man si trova invece perfettamente a proprio agio nell’anonima, compulsiva, ridanciana, mediatica non-libertà della post-modernità. Un universo culturale rovesciato rispetto alla narrazione dell’eroe borghese e al simbolismo del self made man. Ci ritorneremo presto.
NICOLA R. PORRO
Buongiorno Nicola, recentemente ho letto il libro di Vanno Codeluppi “Mi metto in vetrina” ripercorre anche storicamente come hai fatto tu la narrazione del ritratto, dal
Dagherrotipo, l’intermediazione del fotografo e, infine, i selfie. Hai messo molte immagini di Matteo Salvini, ma il maestro dell’uso di questa “vetrinizzazione sociale” della politica italiana è un altro Matteo. Renzi. L’uomo in maniche di camicia arrotolate da Mussolini a Renzi. Ora no, ora
preferisce di sé l’immagine del vecchio manovratore di palazzo.
Grazie per queste tue riflessioni.
Valentina Di Gennaro
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Grazie, condivido!
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Contributo interessantissimo, come chiaro percorso storico e come lucida analisi sociologica. Il visuale (Marina ne sarà la lettrice più appassionata) non è solo medium dell’analisi, ma accolto, sia pure di scorcio, come metodica. Grazie davvero! Letto d’un fiato anche per la godibilita’dello stile. 👏
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Divertente e da approfondire: l’elenco dei selfie made man ( notato il gioco di parole con self made man) è lunghissimo e anche in questa nostra città non mancano validi e interessanti😂😂😂esempi
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L’anonimo è Rosamaria lingua pizzuta
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In verità non c’è nulla di più lontano dalla fotografia come analogon del reale (Barthes) di un’immagine usa e getta, di uno scatto transeunte, di un selfie che non porta tracce vere del self.Il valore documentale, sia pubblico che privato, di una foto origina da un altro sguardo, da un altro occhio e da un’altra intenzione
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Brillante contributo con la consueta vene d’ironia. Nel trionfo dell’evanescenza, i selfie vengono a malapena guardati una volta e condivisi, poi finiscono nell’archivio del cellulare e dimenticati. Ben altra sorte aveva l’opera del “signor fotografo”, destinata a essere incorniciata e tramandata alla posterità. Siamo veramente una società usa e getta.
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Viviamo di “sguardi”, questo di carattere francofortese ci mancava nelle rubriche. Benvenute/i ai sociologi che hanno usurato la filosofia!
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Sinceramente ammirato per la lucida illustrazione. Una “lezione magistrale” su un’abitudine “virale” che – lo ammetto “senza se e senza ma” – ci ha contagiato in molti, come tante altre. Naturalmente, nello scrivere, anche se non so come, avevo le due mani ai lati della testa e muovevo in su e giù i due indici e i due medi “acconigliati” nel segno della vittoria, a simulare le virgolette. Ma non voglio proporre il tema dei “luoghi comuni”, ma certe altre abitudini che abbiamo anche nei nostri commenti sui blog meriterebbero la vostra attenzione. Grazie, intanto, Simonetta e Nicola.
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L’antropologia visuale è una declinazione del vostro tema. Il tema dei duplicati ebbe implicazioni filosofiche con Leibniz ed il principio degli indiscernibili, ma ha anche implicazioni giuridiche; pensiamo al tema della privacy che non viene rispettata ( o alla registrazione della mia voce…) che ci espropriano del nostro vissuto. Diverso il ritratto fotografico che avete presentato: i borghesi si riconoscono per il modo di vestire e per le posture fotografiche, o per celebrare l’ integrazione del gruppo nella famiglia riunita.
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Nella”‘archeologia” della cultura visiva è data un’attenzione specifica alle foto dei banditi del brigantaggio postunitario. Mi manca la foto del brigante Gasperone, del quale ha parlato Silvio Serangeli, ritratto, forse, dopo la sua ” vendetta di sangue”…. Sono” corpi”criminali, corpi morti che prefigurano la fotografia segnaletica. Anche le foto segnaletiche ed indiziarie dei ” sovversivi” del 1921, riportate da Enrico Ciancarini nei suoi scritti e ricavate dal Casellario Politico Centrale, hanno una pregnante funzione simbolica: il nostro sguardo dovrebbe vederli come ” brutti, sporchi e cattivi”, ma non sono selfie!. Le foto segnaletiche tuttavia rinviano a logiche di potere che nel caso dei selfie sono frutto di costruzioni massmediatiche volute dallo stesso soggetto che si fotografa. Condivido la vostra analisi perché il loro uso e consumo”usa e getta” é piegato a forme ideologiche come nel caso esemplare del capopolo e la nuova plebe digitale, che “guarda”.
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