IL VANVITELLI E IL BAZAR DE’ TURCHI SCHIAVI

di FRANCESCO CORRENTI

“Il” Vanvitelli, come “il” Bramante ed “il” Sangallo (Antonio il Giovane), gode, per così dire, a Civitavecchia e nelle altre località frequentate ai suoi tempi per prestigiosi incarichi professionali, d’una particolare situazione mnemonica che lo fa ricordare con il solo cognome preceduto dall’articolo determinativo al singolare. Il suo vero cognome fiammingo, ormai, è riservato nella letteratura d’arte al padre Gaspar, ed a lui spetta – giustamente, visto che allora valeva lo jus soli – la trascrizione italiana, che non è neppure la traduzione di quello originario (che sarebbe un «Del Bianco» o «Della Bianca»!) ma semplicemente la sua dizione assonante, fatta da e per noi italiani, pochissimo inclini da sempre all’apprendimento di lingue non neolatine e per di più un po’ ostiche e neppure alla pronuncia di parole prive di sillabe sonore ben dotate di vocali.

Altri architetti e artisti in genere, sono conosciuti con il nome di battesimo, come Raffaello e Michelangelo (con la variante Michelangiolo o Michelagnolo) e ci sono esempi anche contemporanei, come – sempre a Civitavecchia, nell’ambiente – “Alfiero”, data l’unicità locale del medesimo, mentre altri li si ricorda con nome e cognome, come accade per Gian Lorenzo Bernini, Carlo Fontana e così via. Di alcuni si cita il soprannome (così “il Guercino” per Giovanni Francesco Barbieri) oppure l’appellativo, spesso riferito alla provenienza: il Caravaggio, il Lorenese, e appunto il/i da Sangallo, trascurando il cognome di famiglia, Giamberti. Famiglia che sappiamo bene essere stata numerosa: Antonio il vecchio e Antonio giovane, Giuliano, Francesco, Giovanni, Bastiano e tanti altri, talmente tanti e onnipresenti da essere definiti una “setta” dallo stizzito Buonarroti.

Tra gli pseudonimi, soprannomi scelti dallo stesso artista quale nome d’arte o di penna (nom de plume), in genere per brevità e facilità di pronuncia, celeberrimo è il Palladio, sempre con tanto di articolo, con cui Andrea di Pietro detto “della Gondola” ebbe fama, prima nella sua Vicenza e nella Repubblica di Venezia e poi – grazie all’esportabilità delle opere ed ai Quattro Libri del suo trattato – nel mondo anglosassone dall’Inghilterra agli Stati Uniti, ma anche in Russia ed ovunque. Così, è “universalmente noto” quello di Charles-Édouard Jeanneret-Gris, ossia Le Corbusier (con l’articolo francese), anche con il diminutivo “Le Corbu”. Nello studio del “Gruppo A” a Roma, in via Riccardo Grazioli Lante della Rovere (che avrebbe avuto bisogno a sua volta di un diminutivo, come l’amico del mio articolo precedente), di cui ero titolare da studente di architettura con Donatella Ciaffi, Simonetta Corongiu, Roberto de Rubertis, Maria Grazia Martini, Paola Moretti, Luciano Sapora e Fabrizio Vescovo, tra il 1960 ed il ’67, la nostra ammirazione per quello che consideravamo il nostro Maestro più influente, la nostra guida indiscussa e la massima fonte d’ispirazione in ogni problema progettuale era tale da farcelo  indicare con il semplice, univoco ed eloquente nome di “Papà”: di fronte a qualunque difficoltà, curvi sui tavoli da disegno alle prese con una pianta, un prospetto, un particolare cui dare forma, il nostro pensiero, il suggerimento al collega, la risposta agli interrogativi era senz’altro una sola: «Che avrebbe fatto Papà?».

Ma tornando al Vanvitelli, la sua immagine, quale ci è stata tramandata da pittori e caricaturisti, ce lo mostra alquanto pingue, negli anni di maggiore affermazione, dopo aver realizzato il suo capolavoro con la Reggia di Caserta. Bruno Zevi, senza mezzi termini dichiara che «per aver brutalmente deturpato, con un ordine spurio, il sublime spazio galleggiante di Michelangiolo a Santa Maria degli Angeli, meriterebbe esecrazione», ma lo perdona per l’attività professionale, talmente intensa e poliforme da renderlo una personalità centrale del Settecento, addirittura «un Bernini spettacolare e tuttavia scevro di oratoria».

A Civitavecchia, il nostro Luigi è notissimo in quanto autore della grande fontana al centro della Calata portuale, conosciuta appunto come la “Fontana del Vanvitelli”, molto più che come opera voluta da papa Benedetto XIV Lambertini. Anche per colpa dei soldatacci francesi che nel 1789 ne abbatterono lo stemma (conoscete la storia dei miei tentativi di recupero). Ma la lapide (rifatta) rimane e porta la data del 1743. In quegli anni, in diversi lavori, ritroviamo il nostro associato a Nicola Salvi che, peraltro, gli era stato preferito da Clemente XII Corsini undici anni prima per la mostra dell’Acqua Vergine (la Fontana di Trevi), benché nel concorso il progetto vanvitelliano fosse stato ritenuto molto più apprezzabile. Parrebbe che per questa di Civitavecchia, invece, i due abbiano collaborato, ma il Salvi (chi era costui?) non è un nome che fa “notizia” e quindi non se ne parla.

Tavola 1

Un disegno del 1740 circa, di mano d’un collaboratore, conservato proprio a Caserta – Biblioteca Palatina, Collezione di disegni vanvitelliani, n° 205, matita e penna acquerellata –, rappresenta la Fontana eretta nel Porto di Civita Vecchia (dicitura scritta in data posteriore), posta a ridosso della cortina merlata di Urbano VIII Barberini, con la soluzione delle doppie rampe di scale poi realizzata ai lati del semicerchio aggettante dalla banchina, concentrico con la vasca in cui getta acqua il mascherone barbuto, e con una serie di sette bocchette zampillanti nella parte bassa del cilindro, ma con un prospetto lineare che ha al centro un grande stemma pontificio in fregio alla lapide commemorativa, soluzione meno elaborata di quella finale oggi ancora in opera e restaurata.

Già Carlo Fontana, nel 1692 e poi nel 1699 aveva ideato una mostra per l’acquedotto di Traiano da lui ripristinato, lasciandocene le immagini (nella Veduta de nuovi aquedotti inserisce anche una terza soluzione a tre fornici). Un esempio tra i tanti del concetto assolutamente “moderno” che presiedeva alla realizzazione delle opere da parte dei grandi architetti dello Stato Pontificio, possiamo dire a Civitavecchia quasi più che altrove ed a Roma stessa. Proprio perché a Civitavecchia si era partiti da una preesistenza eccezionale, il porto di Traiano, da restaurare dopo la distruzione saracena ed i secoli dell’abbandono, e considerato il modello ideale di città con porto – o piuttosto porto con città – da arricchire di attrezzature, impianti e servizi con assoluta coerenza e costante attenzione a non alterarne l’immagine generale e di dettaglio. 

Va ricordato che, negli anni successivi alla tragedia dei bombardamenti alleati del 1943-44 ed alla sventura della ricostruzione in deroga (ai piani, alle leggi, alla ragione, al buon senso ed alla civiltà), la miopia e la mancanza di criteri meditati hanno continuato ad arrecare danni. La demolizione dello sporgente del Marzocco, l’ostinatamente tentata demolizione del Molo romano del Lazzaretto comunque lasciato ipocritamente in abbandono (benché oggi “Luogo del Cuore”!), l’ipotesi di non ricostruire il bastione di San Giulio del Forte Michelangelo, centrato dalle bombe, hanno informato i progetti anche dello stesso Genio Civile per le Opere Marittime (autore della demolizione dell’Arsenale chigiano) e del Consorzio Autonomo per il Porto. In questo clima, ancora negli anni Settanta, abbiamo dovuto assistere – certo non in silenzio, ma inascoltati, allo stesso modo della costosissima e inutile sopraelevazione dei merli del Bagno Penale di Via Tarquinia imposta dalla Procura – a diverse scelte ormai anacronistiche. Tra l’altro, per lungo tempo, è stato opposto un deciso rifiuto, stupido, alla proposta di ripristino della piazzetta semicircolare del Vanvitelli, rettificata o, come allora si diceva, resecata già dagli Alleati (autori anche dei micidiali ma sicuramente necessari varchi nella Rocca, a Porta Livorno e nelle mura della darsena), per mantenere cinque o sei posti auto in più ai parcheggi “a pettine” posti davanti alla Calata. Che non erano a servizio dei traffici marittimi ma integravano quelli, insufficienti, nelle zone urbane vicine (per qualsiasi cosa non si trovasse spazio in città, per un magazzino, un’officina, un posto dove abbandonare la carcassa d’un veicolo, c’erano sempre angoli disponibili sulle banchine e pure tra i resti monumentali del porto storico). Dovremo giungere fino al 2005 per attuarne il doveroso ripristino, formalmente ineccepibile e scientificamente esatto, ma certo dall’aspetto rigido e squadrato del taglio meccanico del travertino.

Un altro disegno vanvitelliano degno di attenzione è lo studio iniziale d’un prospetto del Lazzaretto di Ancona ed è datato al 1733 – Biblioteca Palatina, Collezione di disegni vanvitelliani, n° 223, sanguigna. Si tratta del primo lavoro affidato al giovane italo-olandese, che era divenuto architetto camerale nel 1731. Il disegno del foglio 223 raffigura appunto una prima idea, riconosciuta come tale da Cesare De Seta nel 1973.

Quel prospetto è molto simile all’Ergastolo aggiunto nel 1728 al complesso della Rocca di Civitavecchia. Nel 1975, molti anni prima di poter illustrare al professor De Seta i miei studi, ho analizzato il disegno, insieme a quello della prima soluzione della fontana sulla Calata, riprendendo per le mie ricerche l’immenso materiale raccolto da Paola Moretti per la sua tesi di laurea nel 1965-66. In quell’occasione, ammetto di essermi fatto ingannare dalla somiglianza accennata. Per cui mi sono chiesto se si trattasse di uno schizzo progettuale o solo di un appunto grafico dell’edificio esistente. I due grandi stemmi pontifici posti in alto sui due elementi aggettanti alle estremità della facciata mi facevano pensare ad un progetto, con la parte degli stemmi poi non realizzata, analoga al disegno del Palazzo Reale di Lisbona. Poteva trattarsi d’una idea rapidamente raffigurata sul posto, guardando il luogo dove doveva sorgere il nuovo fabbricato. Mi confermava in quella idea l’altro schizzo, con una chiesa a cupola ed una torretta vicina, che poteva rappresentare quello che il Vanvitelli vedeva dall’altra parte della piazza d’armi in cui – secondo me – si trovava, cioè la chiesa della Morte e la Torre poligonale delle mura castellane. Non era così, il mio era un errore dovuto alla mancanza di altri riscontri, ma questi abbagli, nel corso di una ricerca, possono essere frequenti.

Tavola 2

Tavola 3

In realtà, qualcosa di plausibile c’era. Si tratta, infatti, di uno schema che Vanvitelli ripeterà più volte: appunto sul lato d’ingresso del pentagono del Lazzaretto di Ancona e con alcune varianti sugli altri quattro lati, sui quattro prospetti della Reggia di Caserta e che, del resto, sarebbe stato utilizzato, circa un decennio dopo, anche per il Granaio di Civitavecchia, voluto dallo stesso Benedetto XIV e progettato da Giuseppe Panini.

Ma per dare un senso al titolo dell’articolo, un qualcosa sul “Bazar” va pure detto. Anche se posso tranquillamente replicare il giochino del racconto su Napoleone Bonaparte a San Severino nella Marca di Macerata (SpazioLiberoBlog, 13 gennaio 2020), ripetendo pari-pari che nel Bazar de’ Turchi schiavi, nella darsena del porto di Civitavecchia, il Vanvitelli non c’è mai stato.

Semplicemente perché quella riproposizione del suk delle città dell’impero ottomano, quando Vanvitelli frequentava Civitavecchia, era stata letteralmente “sbaraccata”, anche se di fatto le attività che schiavi e galeotti vi svolgevano e che avevano preoccupato papa Orsini erano proseguite tranquillamente, rispondendo ad una precisa richiesta dei cittadini.

Tutti gli storiografi municipali che io chiamo “classici”, in quanto anteriori alla nostra epoca e fonti primarie di notizie, hanno parlato di questa presenza insolita per un porto della Cristianità, anzi, di quello più vicino alla Santa Sede, quale era appunto Civitavecchia, in cui erano consentite varie “attività di servizio” a prigionieri ed a condannati al remo, nel tempo libero da impegni marinari. Da quanto risulta, tali attività rappresentavano, da una parte, un modo di utilizzare le ciurme delle galere quando erano a terra, consentendo ai galeotti dei guadagni anche di qualche entità, dall’altra, oltre al gradimento che riscuotevano in città quei servizi, essi rappresentavano anche una risorsa economica per alcuni cittadini “imprenditori”, che non disdegnavano d’entrare in società con gli schiavi.

A darcene eloquenti descrizioni sono, per primi, Antigono Frangipani e Gaetano Torraca, che pubblicano entrambi i loro scritti nel 1761, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. Frangipani ci fornisce della Darsena una descrizione «in due modi», in realtà molto simili, riferendosi allo stato di fatto, quindi successivo ai lavori di Benedetto XIII.

Arrivandovi dalla parte del porto, cioè dalla banchina che parte dalla Calata davanti a Porta Livorno, costeggia il muro della Rocca verso levante e gira lungo la stretta imboccatura d’ingresso (che costringe le ciurme ad acconigliare i remi per non urtare ai lati, come scrive appunto Antigono e come scrive il mio amico Giovanni, che non per nulla ha “fatto il militare” come ufficiale della Capitaneria), si giunge alla piazzetta che forma il lato meridionale del porticciolo artificiale traianeo. Qui, «s’entra per un’amplia porta di buona architettura con iscrizione in cima detta porta della Darsena dalla parte del porto; e passando per un corridore coperto fatto ad arcate si arriva ad altra amplia porta parimenti di buona architettura detta porta della Darsena ove stanno di guardia i marinari, chiamata guardia della bocca (e sono i marinari invalidi) e si esce nella piazza detta la piazzetta della Darsena, ivi a sinistra si vedono diverse arcate, che è una porzione dell’palazzo della Rocca Cammerale; ove i Schiavi vi fanno botteghe di caffè, è liquori, è tavolini da gioco; nominate le baracche i Galeotti vi hanno botteghe di lavori; in faccia a dette botteghe vi è una competente fontana, e diversi banchi, ove si vendono commestibili, e si arriva alla porta Marina […]».

Di questa specie di “mercatino” dei giorni nostri, nella sua “dissertazione” Delle antiche Terme Taurine, alle pagine 67-68, il Torraca, che diversamente dal Frangipani è civitavecchiese, precisa anche i motivi di lagnanza che avevano indotto oltre trent’anni prima il papa di allora ad intervenire:

«Baracche di Turchi schiavi, dove essi vendono tabacchi, e acquevite alla minuta gente avean reso un ricovro di ludibrio la piazza della Darsena: il sovralodato Pontefice [Benedetto XIII] provvide a tanta sconvenevolezza, facendovi edificare un Portico, sopra di cui l’Ergastolo allora destinato per i Condannati, e inabili, serve ora per officina di molte manifatture opportune al bisognevole del porto medesimo. Presiedeva all’esecuzione di quest’opera Monsig. Carlo Colligola Prelato degnissimo.»

Rincara la dose, turbato dagli avvenimenti politici e militari dei suoi anni in cui ha visto nuovi e più gravi motivi di afflizione, monsignor Vincenzo Annovazzi, a pagina 319 della Storia di Civitavecchia dalla sua origine fino all’anno 1848, edita postuma nel 1853 dai nipoti, tre anni dopo la sua morte:

«[Parla dei prigionieri ottomani] Contuttociò infedeli, come erano, davansi ad ogni vizio di giuochi, di crapole, di lascivia, e, quel che era peggio, di maleficii con abuso di cose sacre. A tanto inconveniente, sommi ripari appose il venerabile Benedetto XIII. Tolte via le sucide ed oscure baracche esistenti nella piazza di darsena, dove più facile al mancipio Turco si rendeva la comunicazione con l’estero e con il cittadino, vi costrusse magnifici portici aperti al cospetto d’ognuno e sopra un lungo fabbricato, che servir fece allora per un deposito d’invalidi.»

Finalmente, Carlo Calisse, a pagina 561 dell’edizione del 1936 della sua Storia di Civitavecchia, completa le nostre informazioni sull’argomento con una sintesi chiara dei fatti:

Tavola 4

«Quando le galere erano in porto, essi cercavano guadagno con lavori diversi, o facendo servizi anche presso le famiglie. Sulla piazza della darsena alzavano baracche, per vendere oggetti da loro stessi fabbricati ovvero generi di consumo. Ma poi che con questa industria facevano frodi in danno delle gabelle, e potevano inoltre aver facile mezzo di comunicazioni col di fuori, onde avvenivano congiure ed altri disordini, di cui non sempre si riusciva a prevenire gli effetti; il pontefice Benedetto XIII fin dal 1728 aveva fatto sgombrare la piazza, dandovi migliore aspetto col fabbricarvi un portico per uso del commercio, con locali al di sopra per alloggio dei condannati divenuti invalidi. Il divieto ebbe durata breve, ché dopo pochi anni le baracche furono ricostruite, poiché ne avevano comodità i cittadini, e taluni anche vi facevano guadagni. E non si era mancato di farne doglianza fino al Bey d’Algeri, con altre accuse insieme di sofferte vessazioni da parte degli schiavi del suo paese; accuse che provocarono fin interventi diplomatici, col resultato finale che erano ponderate calunnie.»

Leggo ora, per completare il quadro con considerazioni più moderne e per doveroso ed affettuoso ricordo, quanto scrive nel secondo volume della sua Storia (1996, pagina 207) Odoardo Toti, con il quale, insieme ad altri amici, fin dalla prima manifestazione pubblica – la mostra e tavola rotonda (e successiva pubblicazione) Civitavecchia da salvare del 18 settembre 1971 – abbiamo condiviso la volontà di restituire alla città, annichilita dalle distruzioni e dalle demolizioni, la memoria consapevole del suo passato: «L’intento della sistemazione di questo angolo della darsena e anche quello di regolare in qualche modo il commercio che vi svolgevano, con grande tolleranza delle autorità, gli schiavi relegati nelle carceri locali. Taluni di costoro con la vendita di generi di consumo e di oggetti artigianali riuscivano a rendere meno grama la loro esistenza.»

Le mie ricerche – credo sia noto – hanno sempre riguardato la “rilettura critica” e l’indagine approfondita non della storia generale dei territori della Tuscia, ma di quella urbanistica della città di Civitavecchia e degli altri centri in cui ho svolto la mia attività professionale di architetto e urbanista per la comunità, sia locale, ai diversi livelli, sia spesso anche nazionale. Fin dalle prime indagini archivistiche, bibliografiche e progettuali a metà degli anni Sessanta, ho affrontato le due tematiche che diverranno il costante obiettivo degli studi successivi: la conoscenza sempre più dettagliata delle preesistenze storiche (forma civitatis), finalizzata al loro recupero, e l’analisi dei problemi urbani, finalizzata alla loro soluzione attraverso la pianificazione urbanistica.

Il risultato degli studi, l’Atlante delle cento tavole sullo sviluppo urbano di Civitavecchia (un omaggio a Francesco [padre Alberto] Guglielmotti), con le altre elaborazioni grafiche e gli scritti, hanno costituito una valida e compiuta base di rigorose certezze scientifiche. Questo materiale è stato messo a disposizione, di tutti, gratuitamente, proprio dal 1971 e, dal 1977, con l’attività del CDU / Centro di documentazione urbanistica sulla storia urbana e l’assetto del territorio (oggi Centro interregionale di documentazione e catalogazione del patrimonio culturale) ed i Quaderni OC, ha rappresentato la base di convegni, seminari e corsi (Punti di fuga), mostre e pubblicazioni, inventari e cataloghi ed iniziative progettuali per ottenere agli enti partecipanti finanziamenti e contributi. Accresciuta con l’apporto fecondo di numerosi studiosi e studenti (saggi, tesi di laurea e altro), della riproduzione e della ristampa anastatica (sempre di iniziativa pubblica) di manoscritti, opere inedite o non più reperibili, questa dotazione si è poi arricchita via via di quella monumentale e straordinaria visualizzazione storico-artistica formata dalle vedute e dalle ricostruzioni di Arnaldo Massarelli, aggiuntesi dal 1991 al vasto archivio delle edizioni del CDU (fino all’album Civitavecchia veduta, del 2012).

Le descrizioni sopra trascritte di quello che abbiamo chiamato il “Bazar” di Civitavecchia e lo studio dei diversi aspetti assunti dalla piazzetta della Darsena nel tempo erano una sfida alla mia curiosità.

Anche un impegno mentale, mnemonico e scientifico nel tentare l’ennesima anastilosi grafica di una parte di quelle molteplici città che furono l’immagine di Civitavecchia nel volgere di secoli, di cui rimangono solo poche tracce, non sempre veritiere. Spero di aver raggiunto risultati plausibili.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

FRANCESCO CORRENTI