DEVIANDO SU BOVES
di ETTORE FALZETTI ♦
Dall’apice del cuneo da cui la città prende nome si vede nitidamente la sagoma poderosa di una montagna innevata. Mia figlia e io siamo incuriositi, vorremmo saperne il nome. C’è poca gente in giro per domandare, il primo che troviamo non ne sa nulla, è un romeno. Poi una macchina parcheggia, ne scende una coppia, hanno l’aria di essere gente del posto. “Quello è il monte Bisalta” dice lui “e sotto c’è un paese che durante la guerra fu incendiato”. “Boves” dico subito. “Sì, ci ha ragione”.
E’ ormai tardi, dobbiamo lasciare la città di Duccio Galimberti e rientrare al nostro alloggio che è piuttosto distante, a Dogliani, la terra degli Einaudi.
Ma alla circonvallazione ci rendiamo conto che solo sette chilometri ci separano dalla città martire e decidiamo di andare. Attraversiamo fertili campi coltivati, scopriamo che in questa zona c’è una pregiata qualità di fagioli. Arriviamo nella piazza centrale: è pressoché deserta, è il giorno di Pasquetta. Cerchiamo testimonianze, tracce di quei tragici eventi, qualcosa ci deve essere. Poi finalmente, su un angolo della piazza scorgiamo una loggia, il cui interno è colmo di lapidi, leggendo le quali, e con l’ausilio di internet, riusciamo a ricostruire la storia a grandi linee.
Dopo l’8 settembre alcuni militari italiani al comando dell’ufficiale veneziano Ignazio Vian, si rifugiano sulla Bisalta iniziando a resistere ai tedeschi. Il mattino del 19 settembre, scendendo a valle per approvvigionarsi, incrociano una Fiat 1100 con due soldati delle SS a bordo e li fanno prigionieri. Poche ore più tardi, con Boves ormai occupata, i comandi tedeschi convocano il parroco don Giuseppe Bernardi perché ottenga dai partigiani il rilascio dei prigionieri, pena una feroce rappresaglia sui cittadini del paese. Il parroco chiede una garanzia scritta, ma il comandante, maggiore Peiper, sprezzantemente risponde che la parola di un tedesco vale più di mille scritti degli italiani. Don Bernardi, accompagnato dall’ingegner Vassallo, bovesano, con un’automobile pubblica raggiunge la postazione partigiana e, malgrado i legittimi dubbi di Vian secondo il quale gli ostaggi costituirebbero una sorta di garanzia, riporta indietro i prigionieri.
A questo punto, anziché rispettare la parola data, Peiper scatena i suoi che percorrono la città bruciando e uccidendo: 350 le case incendiate, 23 le vittime della rappresaglia, fra cui il viceparroco don Ghibaudo e gli stessi Bernardi e Vassallo, i cui corpi, ritrovati carbonizzati, lasciano perfino sospettare che siano stati arsi vivi. Dopo di che l’artiglieria tedesca attacca senza sosta le posizioni partigiane. I morti sarebbero potuti essere molti di più se buona parte della popolazione non avesse preventivamente abbandonato le proprie abitazioni al momento dell’occupazione.
E’ la prima strage nazista dopo l’8 settembre, ma i numeri nella zona non si fermano qui: pochi mesi più tardi, in risposta alle azioni di resistenza, ci saranno ancora incendi e 59 morti fra partigiani e civili (le lapidi riportano tuttavia cifre ben più alte).
A guerra finita il massacratore di Boves sarà processato non per questo eccidio, ma per aver giustiziato 80 prigionieri americani nelle Ardenne. Condannato a morte, avrà la pena commutata in carcere a vita, godendo di un’amnistia nel 1956. Rifugiatosi in Francia sotto falso nome, sarà vittima venti anni dopo di un attentato mortale, a opera probabilmente di ex partigiani.
I due prelati sono stati beatificati pochi mesi fa.
E’ ora di andare, ci scopriamo turbati e commossi da quelle testimonianze di coraggio e di dolore, riflettiamo su quale abisso di crudeltà e infamia l’umanità possa raggiungere. Eppure, all’ultimo momento ci accorgiamo di un messaggio di speranza e di riconciliazione. Su un cippo campeggiano gli stemmi di Boves e della cittadina bavarese di Schondorf, nel cui cimitero è sepolto colui che ordinò la strage.
Le due città sono oggi gemellate.
P.s: La sera del 25 su Rai storia si racconterà l’eccidio. Confidiamo che questo articolo possa costituire una modesta introduzione.
ETTORE FALZETTI
L’ha ripubblicato su Il Canto delle Muse.
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Grazie Ettore per questo articolo commovente e struggente di un eccidio così efferato, che costituisce un monito per tutti, sempre, e una “introduzione” su cui riflettere: la scelta ci campo. Dopo l’8 settembre, le truppe e molti ufficiali italiani, anziché aderire alla Repubblica sociale, preferirono entrare nella resistenza, contribuendo alla liberazione dal nazi-fascismo, altri furono deportati nei campi di concentramento pagando con la morte la loro scelta.
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La tua “modesta”introduzione è un compiuto, emozionante ricordo storico e un delicato suggello alla coscienza e alla memoria collettive. Grazie, come sempre Carlo..
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Scusa!! Talmente abituata a rispondere a Carlo.. Grazie Ettore! ❤️
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Grazi Ettore per tuo bel racconto! Anch’io ho visitato Boves tanti anni fa con la stessa emozione; lì ho conosciuto iniziativa figlia di quell’orrore : una Cooperativa sociale fatta da alcuni falegnami per inserire nel lavoro ragazzi disabili!, ( una delle prime in assoluto in Italia). Ne fui colpito per il senso profondo dell’impegno solidale tanto che anni dopo cercai di imitarla . Quella Cooperativa ancora esiste , si chiama “ Arti e Mestieri” ed ha multo successo. Grande gente!
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Anonimo = Roberto Sanzolini
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Una pagina drammatica e sanguinosa riportata con delicata commozione. Giusto e doveroso ricordo, in occasione di una delle date costitutive e fondative della nostra Nazione. Grazie Ettore per questo toccante resoconto.
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sono luoghi che conosco bene, dove tra la gente è diffuso il senso di appartenenza e di vita democratica. Cuneo, San Dalmazzo, Bovese e le valli occitane sono li a testimoniare la malvagità fascista e nazista
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Grazie Ettore, per il tuo impegno democratico che hai dimostrato come docente di storia e che continui ad esercitare in questa asciutta e tragica narrazione. Che la storia continui ad essere insegnata per rinvigorire la democrazia, dando il tuo messaggio di speranza e quello aggiunto da Roberto Sanzolini, presidente dell’ARCI.
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Racconto molto toccante e per la storia in sé e per il modo scarno ed essenziale con cui solleciti la memoria e la partecipazione attiva di noi che leggiamo. Grandi storie, eventi così dolorosi hanno in sé il senso dell’epica, non ricercata né voluta , ma che ad alcuni, in certi momenti storici ” tocca di vivere”.In questa tragica cartina al tornasole ci sono persone che diventano eroi loro malgrado , altri che consapevolmente scelgono da che parte stare e fanno sì che il loro innato senso di dignità rifulga per sempre.
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