“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI  – TRANSGENDER: DOVE GAREGGIARE? (parte seconda)

dii STEFANO CERVARELLI ♦

La transessualità nello sport è un argomento molto dibattuto, specialmente quando si parla di stabilire in quale categoria dovrebbero competere gli atleti transessuali o con identità non binarie.

Ogni federazione o organizzazione sportiva adotta le proprie regole; oggi spesso la distinzione tra la categoria maschile e quella femminile si basa sul livello di testosterone per litro degli sportivi, mentre in passato un requisito comune era l’aver effettuato un’operazione per la riassegnazione di genere.

Secondo la ricercatrice e atleta Joanna Harper, che è spesso stata criticata per le sue posizioni conservatrici, “Anche se in media è vero che le donne transgender hanno strutture fisiche più grandi, questo non costituisce sempre un vantaggio: in seguito alla terapia ormonale, “un corpo più ampio viene mosso e alimentato da una massa muscolare e una capacità aerobica ridotte, e questo può portare a svantaggi in termini di velocità, ripresa e altri fattori”.

Oltre alla questione della correttezza ed equità delle competizioni, un altro aspetto messo al centro del dibattito, soprattutto da gruppi trans-escludenti, è la necessità di proteggere le donne cisgenere e il loro diritto ad eccellere. A lungo escluse e definite inadatte a praticare sport e poi relegate ad attività fisiche considerate più adeguate al loro genere, le donne sono ancora, e spesso, considerate marginali in ambito sportivo sia per la narrazione che se ne dà, sia per le minori opportunità che vengono loro offerte.

Secondo Britni de la Cretaz, giornalista freelance che si occupa di sport, genere e cultura, definire la presenza delle donne transgender nelle categorie sportive femminili come una minaccia è  piuttosto ironico.

C’è molta disinformazione che fa pensare che le donne transgender domineranno negli sport, ma questo non sta accadendo – continua de la Cretaz, – il Comitato Olimpico ha dato la possibilità a persone trans di competere ai giochi olimpici fin dal 2003 (seppure con regole molto stringenti) ma è nel 2021 che abbiamo visto gareggiare per la prima volta una donna transgender. Proprio la vittoria di Laurel Hubbard, la prima atleta trans a competere alle Olimpiadi di Tokyo lo scorso anno, aveva scatenato numerose polemiche e questo fa emergere un altro aspetto: ci preoccupiamo delle donne transgender solo quando vincono”.

Nel frattempo, al nuovo regolamento pubblicato dal Comitato Olimpico nel 2021 hanno già risposto alcune federazioni sportive internazionali; la FINA, Federazione degli sport acquatici, ha reso noto che saranno ammesse alle gare solo le donne transgender che hanno iniziato la transizione prima dei dodici anni di età o coloro che, essendo insensibili agli ormoni androgeni, non hanno attraversato la pubertà maschile. L’International Rugby League, federazione internazionale di Rugby a 13, invece ha dichiarato che, fino a quando non ci saranno ulteriori ricerche, le giocatrici transgender non potranno fare parte delle squadre femminili.

Cleo Madeleine, addetta alla comunicazione dell’organizzazione britannica Gendered Intelligence, spiega: “Le federazioni sportive subiscono pressioni sia dalle organizzazioni trans-escludenti sia dal governo per escludere del tutto le persone transgender e che non solo questo fomenta ulteriori attacchi nei confronti delle persone transgender, ma ha anche delle ricadute sullo sport amatoriale”.

Non è infatti soltanto nelle competizioni a livello professionistico che il corpo delle persone e soprattutto delle donne trans è stato messo al centro del dibattito politico; basti pensare che tra il 2021 e il 2022, decine di Stati Americani hanno introdotto delle leggi che vietano alle persone transgender di partecipare a competizioni sportive scolastiche o universitarie sulla base della loro identità di genere. La motivazione ufficiale è, di nuovo, la necessità di tutelare lo sport e le categorie femminili.

In Texas, già nel 2016 la University Interscholastic League, che regola le competizioni sportive nelle scuole superiori, aveva imposto che studenti e studentesse gareggiassero in base al sesso stabilito dal loro certificato di nascita. Questo però ha creato un vero e proprio cortocircuito, quando Mack Beggs, ragazzo transgender, ha dovuto partecipare alle competizioni di wrestling femminile sulla base del suo certificato di nascita e ha vinto 89 gare e due campionati nazionali. Nonostante ciò, a gennaio 2022, il Governatore del Texas ha approvato una legge simile.

Per comprendere meglio queste scelte, Associated Press ha contattato diversi legislatori e gruppi conservatori che hanno sostenuto queste nuove leggi, chiedendo loro di illustrare la situazione attuale attraverso numeri ed esempi di studentesse transgender che avessero vinto e, a loro dire, dunque rubato la vittoria a scapito delle loro avversarie cisgenere. La stragrande maggioranza non è stata però in grado di nominare sportive transgender che avessero preso parte a competizioni nelle loro Regioni o Stati, vincendole o  che avessero costituito  un problema. Inoltre  non si sa di preciso quanti siano gli atleti e le atlete transgender che hanno preso parte a competizioni scolastiche o universitarie negli Stati Uniti, perché non ci sono enti che raccolgono ufficialmente questo tipo di dati.

Ed a proposito di questo, mentre si parla tanto di presunti vantaggi e vittorie rubate, si parla pochissimo della pressione sociale e degli effetti che questo tipo di dibattiti hanno sulla salute mentale di atleti e atlete transgender e persone non binarie.

La tossicità di certi ambienti è ciò che poi spesso allontana le persone transgender dall’attività sportiva: se ad esempio è proprio nello sport che molti ragazzi e ragazze trans hanno trovato benefici per il proprio benessere psicofisico, è l’odio che spesso hanno ricevuto in questi contesti a spingerli a ritirarsi.

Come dimostrano le decisioni prese da alcune federazioni nazionali e internazionali, alle ragazze e alle donne transgender che vengono escluse dalle competizioni sportive non sono infatti date alternative. Trincerandosi dietro la motivazione per cui non esistono abbastanza studi che assicurino l’equità delle competizioni, molte organizzazioni sportive preferiscono assecondare la pressione politica e di una parte della società. In questo modo, però, si evita di adempiere a quello che anche l’organizzazione sui diritti umani Human Rights Watch ha definito come un dovere intrinseco, ovvero tutelare i diritti di atleti e atlete. Sono le stesse atlete transgender a chiedere alla scienza maggiori chiarimenti perché come si è visto, esistono degli studi che smentiscono o quantomeno mettono in discussione l’esclusione a priori delle persone trans e non binarie dalle competizioni.

Mentre c’è intanto chi si chiede se sia arrivato il momento per il mondo dello sport di ripensare alla sua definizione e alle sue classificazioni – da sempre incapaci di racchiudere la complessità dell’essere umano ma che oggi dimostrano ancora di più tutta la loro limitatezza – è ancora più urgente comprendere cosa si celi dietro certe scelte politiche e istituzionali e quali siano le conseguenze.

Come ha spiegato Cleo Madeleine  “le persone transgender – e le donne transgender in particolare – sono costantemente presentate come una minaccia, cosa che influenza negativamente la percezione pubblica e porta a maggiore discriminazione e odio”.

Questo risulta evidente soprattutto in ambito sportivo, dove si è creato un vero e proprio dibattito artificioso costruito ad arte dalla politica, dai gruppi trans-escludenti e anche da quegli stessi media che, invece di fornire dati e strumenti, chiedono all’opinione pubblica di prendere posizione favorendo così la polarizzazione.   Infine, secondo Madeleine “sottoporre i corpi trans a un dibattito e a un esame così intensi porta ad attaccare chiunque non si conformi a una concezione limitata del proprio genere”, come dimostrano casi come quelli di Caster Semenya e Dutee Chand.

La FIFA sta attualmente rivedendo i suoi regolamenti “sull’idoneità di genere” ha affermato un portavoce dell’organo internazionale del calcio, che ha fatto anche sapere come stia prendendo in considerazione la possibilità di rivolgersi al parere di esperti medici, legali, scientifici, delle prestazioni e dei diritti umani e anche della posizione del Comitato Olimpico Internazionale per capire in che modo agire e se effettivamente le atlete transgender possano avere dei vantaggi così notevoli. Se alla FIFA venisse chiesto di verificare l’idoneità di un giocatore prima dell’entrata in vigore del nuovo regolamento, ogni caso del genere verrebbe trattato caso per caso, tenendo conto del chiaro impegno della FIFA a rispettare i diritti umani”, ha sottolineato ancora il portavoce della FIFA che comunque dimostra di voler prendere questa decisione con la massima attenzione. L’anno scorso il CIO ha emesso un “quadro” sulla questione, lasciando le decisioni di ammissibilità ai singoli organismi sportivi, ma aggiungendo che “fino a quando le prove non determinano diversamente, gli atleti non dovrebbero essere considerati come beneficiari di un vantaggio competitivo ingiusto o sproporzionato a causa delle loro variazioni di sesso, aspetto fisico e/o stato transgender”.

La nuotatrice britannica  Sharron Davies, che arrivò seconda nei 400 misti, battuta dalla tedesca dell’Est Petra Schneider, che ammise poi di aver assunto sostanze dopanti, vittima quindi di un illecito sportivo ha dichiarato che: “Lo stesso senso d’ingiustizia lo trovo quando una donna deve confrontarsi con un’atleta trans. A mio avviso quest’ultima ha un vantaggio fisico che rende la competizione falsata, proprio come accadeva negli anni ottanta con le atlete della Germania dell’Est”. Ha quindi lanciato una crociata chiedendo che le donne si uniscano e combattano insieme per uno sport più giusto.

Per l’ex atleta britannica questa battaglia contro i trans nello sport femminile non ha nulla a che vedere con i diritti civili o il diritto di ognuno di essere quello che sente di essere o che vuole essere. “Ho totale empatia con chiunque abbia disforia di genere e lo sport deve essere inclusivo, ma l’equità deve venire prima dell’inclusione, quindi dobbiamo trovare modi migliori per essere inclusivi piuttosto che buttare lo sport femminile sotto un treno”.

In conclusione c’è da dire che nonostante la medicina e la scienza si prodighino per dissolvere i preconcetti che in campo sportivo esistono, provocando disagi e problemi, nel’immaginario collettivo sarà difficile evitare di pensare, confortati in questo anche dai, diciamo così, “residui ” di aspetto mascolino, sarà diffcile dicevo, convincere che proprio questo non nasconda, alla fine, un vantaggio dovuto a maggiore superiorità atletica.

Quindi  dove far gareggiare gli atleti “transessuali”?

STEFANO CERVARELLI

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