RUBRICA “BENI COMUNI”, 33. SI GIRA…

di FRANCESCO CORRENTI ♦

Progetto di riprese televisive su alcuni aspetti insoliti della città e del porto di Civitavecchia.

Sarà ancora una volta il porto di Civitavecchia ad essere la nostra porta per raggiungere gli antichi luoghi dove Traiano trascorreva in simpatica e colta compagnia le sue ore di riposo e di svago. Entriamo, quindi, nel porto con la galera o con la caravella della fantasia, dato che le due antiche bocche d’ingresso, quella di levante e quella di ponente, a sud e a nord dell’isola artificiale traianea, sono oggi ostruite dal dorso roccioso dei prolungamenti ottocenteschi dell’antemurale.

Non ci accoglie il torrione del faro Borghese e neppure ci accolgono le tozze torri gemelle – geminae turres – dei due moli protèsi sul mare, Bicchiere e Lazzaretto, né la terza, la gregoriana, sul Marzocco. E più che accogliere, piuttosto ci respinge la palazzata orribile – Messina è lontana nello spazio e nel tempo – che ha sostituito con la stolta “ricostruzione”, il secolare fronte a mare, il fronte del porto che fino alle distruzioni della guerra e del dopo era dominato dalla torre quadrata della Rocca e dal campanile di Santa Maria, tra i quali aleggiava, nel sogno di fratel Raimondo Diaccini, l’anima immortale della città, a svolger tra quelle due cime il canto imperituro della propria grandezza, purtroppo miseramente perito per mani sacrileghe. La tonaca e la cappa dei “cani del Signore”, quei Domini canes vestiti di bianco e di nero che dal 1422 predicavano in Santa Maria, non passeggiano più sulla calata o in prima strada. Anche le campane dell’antico campanile, amato da Vincenzo Fasolo e tuttavia abbattuto, sono appese a una ridicola stampella nel quartiere del Lauro, lontana, avulsa dalla architettura della nuova chiesa, quanto quel quartiere è distante dalla città storica. Ma proviamo a percorrere questo nostro immaginario cammino, in questa che fu la città delle continue processioni, dei fedeli oranti e dei penitenti incatenati, delle confraternite a suffragio delle anime purganti, del gregge plaudente ammaliato da imbonitori e ciarlatani durante le fiere del Settecento, dei morti di campagna e dei condannati di mastro Titta, che poi vide i cortei della dura e ferma protesta operaia e della contestazione ambientalista, per scemare oggi, parrebbe, nell’indifferenza e nell’abulia avulsa dalla partecipazione attiva alla politica cittadina. Seguendo le schiere di genti arrivate nel porto, sbarcate da ogni tipo di nave, dai classiari della flotta misenate ai feroci saraceni, dagli schiavi turchi ai pellegrini, ai viaggiatori d’ogni tipo. Seguiamo, però, piuttosto che le tracce lasciate dai passi o dai carri sul selciato, quelle lasciate sui muri dai pennelli di tanti pittori, tanti e di talento, tranne che dei due maggiori artisti del Rinascimento che con certezza assoluta non hanno mai operato alcunché da queste parti, nonostante le elucubrazioni e le assurde invenzioni in contrario di vari mitomani, Raffaello Santi e Michelangelo Buonarroti. Entriamo da porta Livorno e ci accoglie e sorprende la statua d’un samurai giapponese. Ne riparleremo.

Lasciataci alle spalle la porta, ancora mutila della parte più nobile del fastigio, ignorato per carità estetica lo squallore aggiunto a bruttura del volume informe sorto in luogo della gloriosa Rocca apostolica sul basolato di Centumcellae, osserviamo la facciata dell’antico ospedale che ingloba la chiesetta – tempio della Concezione della Beata Vergine – con la coppia di finestrelle barocche. Sono della stessa forma bilobata di innumerevoli aperture gemelle di innumerevoli luoghi in cui qualcuno è ricorso a quella stessa forma, ossia quella classica della pianta della basilica biabsidata romana. Quella forma di cui Venezia è piena a migliaia e migliaia di esemplari, accoppiati ai lati dei portoni delle sue casette a schiera, secondo lo stesso schema di cui si trovano repliche minimali o magniloquenti in tutte le architetture dei Sei e Settecento o successive in quasi tutto il mondo, compresa New York e altri luoghi apparentemente improbabili.

E qui, entrando nella cappella di sinistra dedicata a San Giovanni di Dio, di fronte a quella della Madonna lauretana, insieme alla sagoma incerta d’un probabile devoto offerente, scopriamo la colorata allegria dei vasi dipinti con mazzi di fiori, dei cherubini riccioluti e svolazzanti, forse di mano d’un Serpotta (se il geco di stucco è la firma) e dell’inusuale cornice rosso corallo. Sulle pareti laterali, nelle due grandi vedute purtroppo rovinate a metà altezza dall’umidità trascurata, si nota, sulla parete a destra ancora non decifrata, una cupola quasi certamente romana, un’architettura di porta urbana o di fontana, delle fiamme, teste di angeli e di santi e una tipica barella su ruote. Dall’altra parte, a sinistra, le immagini sono state comprese, dato che chi scrive ha riconosciuto la scena della morte del santo, assistito da sacerdoti e da tanti fedeli, sullo sfondo della sua Granada con l’Alhambra, l’ospedale, una strana torre-ciminiera e le vette imbiancate della Sierra Nevada. E questo è il primo contatto con la pittura che la città ci offre, ma poco più oltre, in cima alla salita di quello che fu il Colle dell’Ulivo, all’interno della maestosa cupola ellittica della chiesa della Morte, nel severo impianto radiale di cappelle ed altari, possiamo ammirare quel che resta dei dipinti del palermitano Giuseppe Errante con le anime del Purgatorio. Poco lontano, sulla più antica ed anzi la sola delle piazze cittadine, gli incappucciati confratelli del Gonfalone, dipinti da Ennio Galice nella piccola chiesa della Stella, balzano avanti a noi incatenati e salmodianti.

Mentre nella stessa piazza, in una sala del palazzo settecentesco della famiglia Manzi, nel ricordo affettuoso e addolorato di Tarcisio, recentemente scomparso, ritroviamo i dipinti imitati dalle incisioni delle stanze vaticane che ripetono, con diverse dimensioni ed altre interessanti differenze, le quattro pareti della Stanza di Eliodoro di Raffaello, disgraziatamente danneggiati o del tutto cancellati dai lavori fatti prima che fossero riportati alla luce. Scomparsa del tutto la scena della liberazione di Pietro e gran parte di quella appunto di Eliodoro, mentre rimane la parete con la Messa di Bolsena e l’incontro di Leone Magno con Attila. Anche qui, si ipotizza la mano del già ricordato Giuseppe Errante o d’un artista coevo, nonostante i voli di fantasia che vorrebbero i dipinti addirittura la “prova generale” pretesa da Giulio II, incerto delle capacità dell’urbinate, nonostante gli avesse già dipinto con discreti risultati la prima stanza. Leone Magno con le basette di Pietro Manzi la dice lunga…

Ancora un’altra opera pittorica degna di nota è la grande, magnifica veduta “sottomarina” di Civitavecchia risorta nella fantasia di Afro Basaldella (con piccole sculture di Mirko) nell’ex atrio di un cinema, oggi sede della Fondazione CaRiCiv. Possiamo dire che a far da contraltare, nel vero senso della parola, a questa immagine di “Civitavecchia com’era” abbiamo quella “com’è”, operosa, industriale, portuale ed urbana, dipinta dal maestro Pino Marzi con uno spirito di religiosità non “bigotta” nell’abside della nuova chiesa di San Francesco di Paola, dove santi ed angeli sono sostituiti dalla gente comune, da volti veri di persone vere, sullo sfondo delle vere insegne dei negozi e delle vere turbine termoelettriche dell’Enel. Mentre, protetti dalle braccia spalancate della grande statua di San Francesco d’Assisi, sulla piazza antistante la chiesa dei Santi Martiri Giapponesi, i dipinti del pittore Lucas Hasegawa stupiscono il visitatore con forme e figure della tradizione nipponica. In quegli affreschi, dedicati al drammatico supplizio dei ventisei crocifissi del 1597 a Nagasaki, è rievocato anche il viaggio incredibile di Hasekura Tsunenaga – la cui statua ci aveva silenziosamente accolto all’ingresso da Porta Livorno – sbarcato a Civitavecchia nel 1615 col suo seguito di frati, samurai e servitori, dopo aver attraversato il Pacifico, il Messico, l’Atlantico, la Spagna e il Tirreno, per fermarsi vari mesi a Roma, ospite riverito di Paolo V e del nipote cardinal Scipione Borghese. E ancora altri dipinti, in totale abbandono, ricordano che la città ha avuto le sue mura stellate nelle sue replicate aggiunte, grazie all’ingegno del genio militare pontificio, poi di quello francese ed infine italiano e che qui le specialità dell’Arma sono state rappresentate in una caserma con ingenuo pennello, mentre il dolore e la vergogna dell’8 settembre e del re fuggiasco hanno trovato vendetta sulle immagini dei due capi scellerati del nuovo, falso fasto imperiale, salvando però le toghe dell’antica dignità romana.

Tornando sulla calata del porto, dove altri soldati francesi nel 1789 avevano spicconato via dalla fontana di Luigi Vanvitelli l’arme papale di Benedetto XIV Lambertini, che ora abbiamo ritrovato e sarà riportata nei pressi del monumento, possiamo immaginare le folle variopinte di ogni epoca che animano i moli, e le sentinelle dietro le artiglierie sugli spalti, i galeotti, i bonavoglia e gli schiavi turchi, marinai e viaggiatori, frati, pescatori “pozzolani” e lavandaie “gaetane”. Mente, in una fantasia fuori del tempo ed incuranti delle rispettive convinzioni, si affacciano chiacchierando nella loro lingua, dalle loro finestre, il padre domenicano, architetto e pro-vicario del Sant’Uffizio Jean-Baptiste Labat, parigino, e il console di Francia Henri Beyle, lo scrittore Stendhal, nativo di Grenoble ma “milanese” per scelta. Che noi salutiamo idealmente, ripromettendoci di rileggerne ancora una volta gli scritti, con un cordiale au revoir.

A completamento di questa visita veloce, raccomandiamo al visitatore di rimanere ancora nella stessa piazza Leandra che ci ha già offerto le due interessanti soste che abbiamo descritto: potrà così soffermarsi ad apprezzare la documentazione esposta nella “Casa della Memoria”, curata dalla Società Storica Civitavecchiese e che ospita spesso mostre allestite in collaborazione con l’Associazione Cinefotografica ed osservare lì intorno: la fontana, l’altra chiesuola, la porta dell’Archetto, le case, anche se l’indicazione turistica di “Quartiere medioevale” non trova conferme nel tessuto e nella compagine edilizia dei luoghi. Poco lontano, però, sulla discesa davanti alla chiesa della Stella, al pianterreno del medesimo Palazzo Manzi, un’altra sosta nello spazio romantico della “Macchina del Tempo” potrà consentire un autentico “tuffo nel passato”, sia pure limitato alle architetture del Settecento e Ottocento, con la guida degli avatar di tre illustri personaggi: padre Guglielmotti, l’incisore Calamatta e l’ammiraglio Cialdi, che fortunatamente – per carità di patria e amor proprio – evitano di accompagnare i turisti alle loro “Tombe degli Uomini Illustri” nel Cimitero monumentale. Si tratta del progetto di ricostruzione ideale della Civitavecchia dei secoli passati, disegnato in ogni dettaglio grazie ad attenti studi negli anni 1964-67, approfondito a più mani coordinate negli anni successivi (la vicenda è ben nota), poi inserito nei programmi del Comune ma improvvisamente abbandonato, salvato e fatto realizzare dal sogno appassionato e generoso di Roberta Galletta, che permette per ora di percorrere virtualmente la Prima strada con le sue facciate di case e botteghe, fino ad ammirare anche l’interno della Matrice di Santa Maria, distrutta da mani sacrileghe negli anni Cinquanta.

Naturalmente, qualunque visita a Civitavecchia non può prescindere dal Museo Archeologico Nazionale, straordinariamente riqualificato, vivacizzato e reso uno spazio accogliente dalla nuova e dinamica direzione. Accanto al Museo, saranno in futuro presenti altri spazi museali ed espositivi, civici e specialistici. Impegno tenace dei prossimi giorni, sarà quello di rendere fruibile al pubblico, a studiosi e scolaresche, la vastissima documentazione archivistica, bibliografica e iconografica sulla storia urbanistica della Tuscia in generale e di Civitavecchia in particolare. Tra l’altro, realizzazioni inedite, di grande interesse, come la riqualificazione del porto storico per il Giubileo del 2000, e pubblicazioni, studi e ricerche prodotte dal Centro di documentazione urbanistica (futuro Urban Center), che secondo il programma finanziato dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti dovrà esser posto nel casale Antonelli, con il portone “OC” a rilievi simbolici in cemento e il viale dei “Cento pilastri” della Aurelia nova (segmento del rettifilo di quasi tre chilometri tra i ponti di Zampa d’Agnello e della Fiumaretta), in cui saranno a breve consultabili intriganti ricerche d’archivio su molti aspetti inediti e quasi sconosciuti delle ricerche sulla città, sul gruppo statuario di Perseo e Andromeda con mostro (che un generale cercò di portar via in elicottero, bloccato dai granatieri di Sardegna), e inoltre: le indagini con droni sul grande santuario di Aquae Tauri e sul campanile templare di San Giulio-Sant’Egidio; le ipotesi sulle diverse parti della villa traianea; sulle centrali Enel e altri spazi perduti ed occasioni mancate, quali il Bagno Penale, ultima opera di Pio IX nel 1870, che ha subito, anni fa, l’assurda, costosissima e asimmetrica soprelevazione dei suoi merli, quasi a dover ancora soffocare le grida silenziose dei prigionieri politici, mentre il monumento potrebbe ospitare più consone attività culturali nei suoi suggestivi spazi interni ed esterni, come previsto dagli strumenti urbanistici.

FRANCESCO CORRENTI

https://spazioliberoblog.com/
N.B.: Il progetto è stato redatto quale traccia di lavoro per la puntata su Civitavecchia della trasmissione televisiva Rai News 24 “AR – Frammenti d’Arte” condotta da Costantino D’Orazio e diretta da Alessia Vitali, che ringrazio vivamente, con la troupe Rai. Come ringrazio (omettendo i titoli e in ordine di incontro) Pasquale Marino, Ivano Berti, Pino Solinas, Lara Anniboletti e le signore del Museo, Rachele Giannini, Cristina e Michele Galice, Remo Barletta, Francesco De Paolis, Roberta Galletta, Daniele Verzì. Per i consigli: Giovanni Insolera, Giuseppe Bellu e Paola Moretti, mia moglie, anche per la sua pazienza infinita in questi 62 anni insieme.