“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI  – DUE PERSONAGGI

di STEFANO CERVARELLI

Questa settima l’Agorà Sportiva offre ai suoi frequentatori due storie. Due storie che parlano di personaggi molto diversi tra loro, ma accomunanti in questo momento dall’interesse suscitato per motivi completamente diversi, nell’opinione pubblica. Due personaggi che si trovano a vivere, l’uno per propria volontà, l’altro non proprio, stati d’animo direi contrastanti; in uno alberga la serena tranquillità di chi, dopo momenti brutti ed incomprensioni, ha finalmente acquisito la serenità derivante dall’aver rivelato la sua natura, ossia il suo essere omosessuale, al mondo in cui lavora: il calcio. L’altro personaggio, ma sarebbe meglio dire l’altra, perché parlo di una donna, vive la delusione derivante da una vittoria forse tropo frettolosamente annunciata, data per scontata e mancata per un qualcosa che mai si era verificato nelle sua carriera.

Ma anche in lei comunque, oltre la normale delusione, trova posto la serenità, la tranquillità di chi sa che non doveva dimostrare niente a nessuno e che, sopratutto, ha profuso tutto l’impegno possibile per raggiungere quella vittoria che, solo un banale errore, le ha impedito di raggiungere.

Sto parlando di Jacubo Jankto (e chi è? domanderete voi) e  Sofia Goggia, certamente molto più conosciuta anche agli occhi di chi non è solito frequentatore delle vicende sportive.

Allora chi è Jacubo Jakto? Nato nella Repubblica Ceca, è un un calciatore professionista  come tanti. Niente di insolito, quindi; perché occuparsi di lui? Perché Jacubo ha avuto il coraggio di ammettere di essere gay.

“Non voglio più nascondermi” ha detto, venendo così a rompere gli ultimi stereotipi esistenti nel mondo del pallone.

Si presume che nell’evoluzione sociale raggiunta anche nel mondo del calcio, un giocatore che si dichiara gay troverebbe comprensione e verrebbe sostenuto con la più semplice e scontata delle frasi: “Vivi la tua vita”. Per Jankto non è stato così facile vivere la sua vita, no davvero.

Per di più  è anche un giocatore della nazionale del suo paese ed ha partecipato agli ultimi europei: questo fa di lui, senza dubbio, il personaggio più rilevante ad aver scelto il  Coming out.  Un bel gesto di coraggio, una dichiarazione, una ammissione che nel mondo professionistico del pallone   andrebbe presa come una buona notizia.

Un ragazzo di 27 anni, a un certo punto della sua vita, si è chiesto perché, per quale motivo dovrebbe ancora vivere nell’ombra convivendo con l’angoscia di essere visto in “malo modo” e giudicato fino alla fine della sua carriera.

Con la sua dichiarazione Jankto credo che abbia voluto  assumersi il ruolo, non facile, di esempio, qualcuno da imitare, indicare cioè una strada che porti altri ragazzi calciatori omosessuali, ad non aver paura di dichiarare la loro tendenza naturale.

Siamo all’inizio di un cammino che non sarà certo privo di ostacoli perché il calcio ha fissato le sue regole che non sono facili  da disinnescare. Certo, ripeto, siamo all’inizio, ma siamo anche al punto in cui l’argine costituito dalla frase “meglio stare zitti” è crollato.

Jakubo Jankto ha passato gran parte della sua carriera in Italia, prima di andare in Spagna, al Getafe, per poi fare ritorno allo Sporting Praga, squadra nella quale aveva esordito.

Una volta a casa sua il calciatore ha deciso di dare la notizia  alla sua società  ricevendo la risposta: “Sono affari tuoi, da parte nostra nessuna intrusione e massimo sostegno”.

Confortato da queste parole Janko  si è postato su Instagram con queste parole: “Non voglio più nascondermi. Voglio fare il lavoro che amo senza paura, in piena libertà”.

Paura e libertà, parole contrapposte che esprimono sentimenti contrastanti: la paura, direi, di perdere la libertà, di non poterla vivere appieno, soffocata dai pregiudizi, consapevole che la preoccupazione vincola, limita. Jankto ne sa qualcosa: ne è cresciuto insieme.

Con lui ci sono altri due calciatori in attività,  di cui si ha notizia, che hanno fatto Coming  out:

Josh Cavallo, che vive in Australia e di certo non ha tutte le pressioni  dei suoi collegi europei, e poi Jake Daniels, ragazzo di 18 anni, che gioca nella seconda divisione inglese, lontano quindi da palcoscenici famosi.

Questo è tutto, almeno nel mondo del calcio maschile, perché in quello femminile, appena approdato al professionismo, le cose vanno diversamente.

Comunque rimane il fatto che Janko è la dimostrazione che la controcultura calcistica sta avanzando, il coming out arriva  infatti da uno che gioca in nazionale, quindi un nome pesante.

La svolta  definitiva si avrà quando non ci sarà più bisogno di usare, come approvazione la frase:    “Vivi la tua vita” che sa tanto di consiglio di stare al riparo dentro quella di un altro.

Ed eccoci al secondo personaggio, quello che è stato al centro dell’opinione pubblica solo per un risultato non raggiunto, come se questo fosse la cosa più semplice da conseguire, quasi il risultato di una banale operazione aritmetica.

Parlo di Sofia Goggia campionessa, plurimedagliata dello sci alpino.

Da lei, come se scivolare sulla neve a quasi 150 km orari nel minor tempo possibile, fosse la cosa più facile da fare, ci si aspettava, anzi si dava per scontata, la vittoria nella prova di discesa  libera negli  ultimi mondiali di sci tenutesi in Savoia.  Ad alimentare questa convinzione c’era anche il fatto che la bergamasca  aveva conquistato  ben quattro delle sei gare di discesa disputate nella stagione, e vincendo, cosa che alzava a dismisura il livello dell’ottimismo, due delle tre prove cronometrate svoltesi alla vigilia del mondiale.

La Goggia non ha vinto ed ecco che contro di lei si è alzato il coro degli sportivi della poltrona ai quali tutto sembra facile, che gli imputavano appunto la grave colpa di non aver vinto.

Sofia ha invece dimostrato, ancora una volta, l’imprevedibilità dello sport, la capacità che questo possiede – e in questo risiede la sua bellezza – di ribaltare i pronostici, rimandando i favoriti a mani vuote. (Basta guardare cosa è successo ai recenti campionati italiani indoor di atletica leggera. Lo strafavorito  Jacobs,  campione olimpico e stella mondiale, è stato battuto nella gara dei 60 m. da Samuele Ceccarelli di professione avvocato.

Nella discesa delle Trois Vallès, a sorpresa,  l’azzurra  è rimasta fuori dal podio; a vincere è stata la svizzera Jasmine Flury, mentre la Goggia è finita fuori classifica, perché squalificata a causa di  un’inforcata, evento davvero raro nella discesa; anche senza quel contrattempo l’azzurra non avrebbe vinto. Quindi è giusto riconoscere tutto l’onore e il merito alla sciatrice elvetica.

Prima di andare avanti però credo sia necessario, per i non addetti ai lavori, spiegare cos’è un’inforcata.

In parole molto semplici è quando non viene rispettato il modo di passare dei paletti, errore sovente nello slalom speciale. Nella discesa libera accade raramente perché non ci sono paletti, ma solo le porte al limite della pista in corrispondenza delle curve; in questo caso inforcare significa praticamente “cavalcare” una di queste porte che segnano il limite della pista stessa, andandone fuori. Questo errore viene considerato come infrazione e quindi scatta la squalifica.

Certo dispiace che dopo aver dominato fino a questo momento la stagione, le azzurre, protagoniste, non dimentichiamolo, di splendidi successi, siano “scivolate” ( in senso negativo) sulle nevi della Savoia, tanto che il miglior piazzamento è stato un tredicesimo posto conseguito da Elena Curtoni, dopo che la Goggia era stata squalificata . “Non mi aspettavo assolutamente un errore del genere” ha detto nel post-gara.

Per la campionessa olimpica, e detentrice  oltretutto della coppa di specialità, continua la maledizione del mondiale. A questo appuntamento era arrivata da favorita, sebbene non fosse nella migliore condizione, ma perdere una medaglia per un errore del genere e, occorre sottolinearlo, mai compiuto in precedenza, fa davvero rabbia; il valore di Sofia Goggia comunque resta immutato.

Continua l’azzurra: “Quando hai la consapevolezza  di aver fatto tutto quello che potevi e dovevi fare, rimane il dispiacere per l’obiettivo mancato, ma questo in maniera più che certa non influirà sulla nostra competitività che rimane sempre di primo ordine”.

Questa avventura sportiva, conclusasi senza il lieto fine, in fondo ci lascia un messaggio.

Abituati, viziati direi, da tempo alle vittorie delle nostre sciatrici, avevamo dimenticato che nello sport si può anche perdere, per tanti motivi diversi.

Scendere lungo pendii ripidissimi a velocità incredibili, per trovare poi alla fine una medaglia    sembra qualcosa di scontato, di abitudinario quasi, ma il triste è che il nostro pensiero si spinge oltre, arriva a concepire l’errore come incapacità da parte di chi lo compie e, dalla nostra comoda poltrona o dal tavolo dove stiamo mangiando (vista l’ora in cui si disputano le gare) siamo pronti a commentare, addirittura criticare, anche se non abbiamo mai messo ai piedi gli sci, una curva presa male, l’angolazione del corpo sbagliata, un bastoncino poggiato male, insomma un qualsiasi errore compiuto scivolando a più di cento all’ora, contando solo sulle proprie gambe e sulla rapidità di riflessi.

No, cari amici, gli atleti sono atleti, forse un giorno ci sarà pure l’atleta l’artificiale che non sbaglierà più, ma certo non si potrà più parlare di sport.

Lo sport, per adesso, rimane affidato alla complessa macchina  dell’essere umano capace sì di prestazioni atletiche e tecniche di grande capacità e prestigio, ma è anche in grado di provare emozioni, timori, paure, incertezze e sbagliare.

Ecco, Sofia Goggia sulle nevi francesi non ha vinto la medaglia tanto desiderata, ma ha  conquistato il diritto di essere libera di sbagliare. Come tutti.

STEFANO CERVARELLI

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