“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI  –  A PROPOSITO DI DOPING

di STEFANO CERVARELLI

Non c’è alcun dubbio che nella storia dello sport, il grande buco nero, l’anima oscura, l’intruso – che poi a volte tanto intruso non era ma bensì invitato – è sicuramente il doping.

Problema sul quale è necessario tenere sempre alta la guardia, visti gli effetti tremendi dei quali è portatore che, seppure non provocano effetti deleteri gravi, arrivando pure alla morte, producono in chi lo pratica, o lo subisce,  conseguenze devastanti, e non solo dal punto di vista della salute.

Alla base c’è innanzitutto un problema morale.

Alterare le proprie prestazioni sportive in maniera da ottenere risultati superiori alle proprie possibilità è certamente condannabile in quanto viene meno a uno dei principi cardini dello sport: la lealtà.

Una pratica, quella del doping, che appare sempre più lontana dall’essere abbandonata, anzi a stimolatori ed integratori – più o meno leciti – fanno sempre più ricorso non solo i professionisti, ma anche i dilettanti e perfino gli amatoriali, con l’intento di porre sempre più lontano il confine dei propri limiti. Ma tant’è: fa parte dell’animo umano quella di superarsi sfidando i rischi che tale prospettiva comporta (Icaro insegna).

Per tornare al doping bisogna dire che ci sono però livelli diversi di consapevolezza.

Se a un certo punto della sua carriera volendo, attraverso un mezzo illecito, compiere un salto di qualità, un atleta decide di utilizzare sostanze dopanti di sua volontà, pur sapendo  compiutamente quello che succederà al suo fisico e quali saranno le conseguenze a livello disciplinare, se ne assume la piena e totale responsabilità.

Indubbiamente diversi sono i casi, purtroppo massivi, nei quali gli atleti non erano pienamente consapevoli, o non lo erano per niente, di quello che stava succedendo e ne pagassero poi le conseguenze senza che nessuno avesse chiesto la loro partecipazione. Di questo magari ne parlerò in un’altra occasione; adesso vorrei dire, per  amor di verità, che, secondo me, se questo poteva andar bene in anni lontani, oggi non mi pare una eventualità alquanto remota vista la maggior conoscenza che si ha in materia e che gli atleti, in quanto tali, dovrebbero avere più degli altri non mancando loro  certamente la possibilità e la sempre, mi auguro, più conscia partecipazione alla propria vita sportiva. In ogni caso l’omertà è una costante.

Un’omertà che ha quasi un sapore mafioso, viste le minacce a chi denuncia e che di solito è l’unico o l’unica a pagare le conseguenze; mentre a volte  il senso d’impunità che gode chi gestisce il sistema doping, a qualunque livello, risulta essere davvero imbarazzante (per tutti valga il caso del marciatore azzurro Alex Schwazer.

A proposito di minacce, famosa nel mondo dello sport  e  ancor più in quella del ciclismo è quella che  Lance Armstrong lanciò al Filippo Simeoni suo collega.

Lo statunitense che vinse sette tour prima di venire scoperto come “persona dedita solitamente a sostanze dopanti”, quando aveva già da tempo lasciato l’attività agonistica, era considerato nell’ambiente il mammasantissima del ciclismo. Simeoni, usando le parole dell’indimenticabile Gianni Brera, era un “onesto pedalatore” che si poneva, e poneva domande sul doping nel ciclismo.

Armstrong, durante una corsa trasmessa in mondovisione, lo minacciò di stare zitto, ma quel che è più grave che nessun corridore prese apertamente le difese di Simeoni e, con loro, nessuno degli addetti ai lavori, nessuno dei giornalisti.

L’unica considerazione fu che lo statunitense “era stato inopportuno”, vale a dire che quello che aveva detto  poteva evitare di dirlo in quel frangente!

Da molto tempo si era a conoscenza che il doping, utilizzato in maniera scientifica, potesse essere un grande affare; per la precisione da quando venne alla luce quanto accadeva nei paesi dell’Europa dell’Est  tra gli anni ’60 e gli anni ’80.

In particolar modo quando si scoprì (come se non lo si sapesse prima) quanto accadeva nella Germania dell’Est. Il sistema era talmente particolareggiato, coordinato,  diffuso e ben organizzato che in Occidente venne definito “doping di Stato”.

Chi mandava avanti il sistema usava definirlo con un codice   “Piano 14.25”,  un semplice numero per far sì che potesse essere più neutro possibile.

Sapete chi c’era dietro questo numero, dietro questo piano? Manfred Ewald,  vale a dire il Presidente del Comitato Olimpico della Germania dell’Est!

A parziale scusante c’è da dire che egli, in un certo senso, dovette mettere in pratica la volontà del suo Governo che era quella di primeggiare nello sport a qualunque costo per dimostrare la superiorità dello Stato Comunista nei confronti dei loro connazionali dell’Ovest; non di meno poi ci fu la voglia di stare davanti all’Unione Sovietica, mostrando ai sovietici una maggiore capacità organizzativa e qualitativa nello sport.

Era dunque una guerra sportiva quella lanciata dalla Germania dell’Est, e come tutte le guerre aveva bisogno di armi; andiamo  quindi a vedere qual’era l’arma segreta a disposizione di Eward e del suo comitato olimpico per vincere la battaglia.

Era l’Oral-Turinabol, uno steroide anabolizzante prodotto dalla Jenapharm, (casa farmaceutica fondata nella Germania dell’Est nel 1950 e tutt’ora essente) veniva somministrato sotto forma di pastiglie fatte passare per vitamine (qui torna il ballo il discorso sulla consapevolezza degli atleti).

Il bersaglio preferito di questa ”cura” erano le atlete, sopratutto quelle molto giovani. Perché vi chiederete? Perché da studi effettuati avevano constatato che in queste gli effetti degli anabolizzanti sarebbero stati più evidenti dando così modo di ottenere migliori prestazioni.

I risultati ottenuti in quegli anni dalla Germania dell’Est nello sport femminile ne sono la prova eloquente. Decine di medaglie olimpiche, record che hanno resistito per molti anni.

Visti i risultati tali “sistemi sportivi” furono ovviamente copiati (avvalendosi anche di un spionaggio sportivo) da altri Paesi dell’Est Europa.

Ma per ottenere questi successi naturalmente c’era un prezzo da pagare da parte degli atleti, (qui potrebbe far capolino la consapevolezza) ed a pagare il prezzo più alto  chi fu? Naturalmente quelle che avevano fatto più ricorso all’Oral-Turinabol, cioè le atlete.

Loro dovettero passare, come si dice?, sotto le grinfie della scuola dello sport di Stato (non pensate alle nostre Farfalle, la situazione è completamente differente) molte di loro, in seguito, hanno avuto problemi seri di salute, sopratutto dal punto di vista ginecologico, come infertilità, aborti spontanei, problemi cardiaci, deplezione ossea, disturbi alimentari, depressione. La relazionalità di tutto questo con le pratiche dopanti messe in atto ha sempre costituito materia  di scontro tra chi escludeva ogni possibile nesso e chi, invece, basandosi proprio sull’alta percentuale riscontrate nelle atlete di quelle sintomatologie, asseriva di certo che a causare danni alla salute, tra i quali anche casi di tumore al seno, fosse stato proprio l’assuefazione di anabolizzanti.

Il discorso è lungo e ho ritenuto opportuno,visto che si tratta anche di materia particolareggiata, dividere l’articolo in due parti di cui questa è la prima.

Mi auguro che lo troviate interessante.

STEFANO CERVARELLI

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