Il giardino degli aranci

di NICOLA R. PORRO

Il giardino degli aranci (Europa Edizioni, Milano, 2022) è il romanzo di esordio di Massimo Cozzi. Chiunque lo legga troverà la cosa sorprendente perché l’autore muove con l’agilità e l’eleganza di un consumato romanziere i fili di una trama semplice – ispirata a una vicenda reale – ma densa di suggestioni, di felici transiti narrativi e di efficaci rappresentazioni di personaggi che si riveleranno via via altrettanti testimoni del tempo. Armando, il protagonista, è un anziano professore in pensione alle prese con una depressione latente che gli ispira dubbi, rimorsi, nostalgie. Il male di vivere che giorno dopo giorno si insinua nella sua esistenza lo spinge a cercare una sorta di riscatto morale inseguendo Alessandro, un figlio ribelle che si rivelerà bisognoso di tutto tranne che di un padre alla malinconica ricerca di se’ stesso. Cozzi ricostruisce ed esplora questa sofferta relazione padre-figlio sottraendosi al rischio – sempre incombente quando ci si misura con le narrazioni del vissuto – dello stereotipo e della banalità. Quella che compone attorno ad Armando, alla sua famiglia – l’insoddisfatta moglie Serena, l’incostante altra figlia Elisa –, si fa invece passo passo l’occasione dolente, e perciò urgente e sincera, per una vera e propria ricerca interiore. Ad alimentarla non c’è soltanto la condizione soggettiva del protagonista e la silenziosa infelicità del quotidiano comune a tante famiglie. Armando, pur rassegnato al ruolo dell’intellettuale di provincia, sa infatti attingere a un patrimonio culturale per nulla trascurabile. L’autore costruisce con garbo una riflessione introspettiva nutrita di autentici umori filosofici. Prende così forma, pagina dopo pagina, un dolente dialogo con sé stesso che non interroga una singola biografia bensì la più complessa trama delle sue relazioni sociali, familiari, professionali. Forse, sembra suggerire Cozzi, è proprio perché intessuta di sofferenza che l’introspezione si fa via via più nitida, coraggiosa e autocritica, sino a tradursi in un amaro ma finalmente genuino redde rationem. All’epilogo del racconto, insieme malinconico e liberatorio (cui per ovvie ragioni non farò cenno), Armando giunge scavando in sé stesso e ripensando false certezze. Ma è solo aprendosi al dolore degli altri che riuscirà a dare un senso alla sofferenza condividendo solidarietà, paure e qualche illusione. Accompagnerà la malattia senza ritorno di Paolo, l’amico più caro. Cercherà persino sostegno in una religiosità assopita che però, per onestà intellettuale, rifiuta di usare come placebo capace di offrire qualche momento di fuggevole consolazione. Per tutte le 130 pagine della narrazione il protagonista non cesserà mai di inseguire l’ombra sfuggente del figlio, quasi che – consumatasi ogni realistica speranza – fosse la ricerca in sé a restituire un senso alla sua esistenza. Non saprei riassumere in un’espressione adeguata questo sovrapporsi di disagio esistenziale, male di vivere e ricerca di senso. La letteratura tedesca descrive questa condizione con una parola intraducibile: Weltschmerz. È quel “dolore del mondo” che rivive nelle nostre esistenze, e che induce a interrogarci sul senso stesso della vita ben al di là delle sue definizioni biologiche o esistenziali. Cozzi accompagna con una sorta di fraterna partecipazione la ricerca del suo Armando. E ce ne consegna una testimonianza intensa e insieme di piacevole lettura.

NICOLA R. PORRO

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