UN GIORNO AL CINEMA

di ENRICO IENGO

Il film stava per cominciare, quando l’uomo entrò nella sala. Erano presenti pochi spettatori.

L’aspetto era distinto, il portamento eretto, i capelli brizzolati, qualche ruga di troppo a dimostrare che il tempo incalzava impietosamente sul suo viso.

Scelse una poltrona alla prima fila, piuttosto lontano dagli altri. Il film in proiezione era “Esterno notte” di Marco Bellocchio, che narra del rapimento e uccisione di Aldo Moro e prende  il titolo dal fatto che il regista si concentra soprattutto su ciò che avvenne fuori della prigione di Moro in quei drammatici giorni e in particolare nella sua famiglia, nel partito della Democrazia Cristiana, fra i brigatisti e al Vaticano.

Le immagini cominciarono a scorrere: l’assassinio della scorta, il rapimento, la prigione, le reazioni di sgomento dei familiari e della classe politica, l’impotenza, forse voluta, delle forze di polizia e dei servizi segreti, fino all’uccisione dello statista.

L’uomo assisteva con attenta partecipazione: il viso assunse un’espressione concentrata, lo sguardo sembrava a volte perso nella memoria.

Erano gli anni di piombo, mentre lui si affacciava alla professione, formava una famiglia e comunque cambiava il suo status di studente.

Lo assalirono impietosamente i ricordi: venne in mente cosa faceva esattamente nel momento in cui seppe del rapimento, i posti di blocco con agenti a mitra spianati, i comunicati delle Brigate Rosse, che scandivano i lunghi giorni della prigionia, i maghi, medium e indovini che vivevano il loro attimo di celebrità proponendo improbabili indirizzi di possibili covi dove era tenuto Moro.

L’uomo vide scorrere la sua giovinezza: schierato a sinistra, aveva fatto parte  del gruppo del Manifesto, fatto da intellettuali allontanatisi, o meglio, espulsi dal PCI, che contestavano il “Compromesso Storico” ed in generale una politica troppo moderata del gruppo dirigente del PCI.

Si citava Gramsci, più che Lenin, ma si stava attenti a non cadere nella trappola delle scorciatoie velleitarie.

Vennero in mente le manifestazioni in piazza a difesa dei deboli e degli sfruttati, contro la guerra in Vietnam e contro la dittatura di Pinochet. E poi Piazza Fontana, la bomba di Brescia, la stazione di Bologna, la strage dell’Italicus. Si vide insieme agli altri compagni, uniti dall’aspirazione a vivere in una società più giusta e a lottare per essa. Nel perseguire quegli obiettivi obbediva quasi più ad un codice etico che politico: non si poteva rimanere fuori da quello che doveva diventare il corso della Storia, i suoi appuntamenti, le sue tragicità.

Il film continuava a rievocare vicende e ricordi che appartengono alla memoria collettiva: il drammatico dibattito sulla trattativa interno alle Brigate Rosse e alla Democrazia Cristiana, uno stato impotente che assisteva passivamente alla prigionia e poi alla morte di uno dei più grandi statisti del nostro paese.

Una nazione atterrita viveva una sorta di “redde rationem” con la sua storia passata e recente.   

Nel ripensare a quegli anni, cercava di recuperare un sentimento di quel passato fra rovine e macerie che avevano un sapore di fallimento. Si pensava allora: “noi siamo il futuro” perché era la generazione nata dopo la guerra e aveva insita in sé l’idea di futuro, l’aspirazione a realizzare quel desiderio che i genitori avevano trasmesso, quale ideale staffetta, ai figli: creare un società più giusta, dopo averla liberata dal fascismo. Poi venne il ‘77 e venne un’altra generazione, quella che scriveva sui muri dell’Università: “il 68 non è il 77, non abbiamo né passato né futuro, la Storia ci uccide”.

Ecco il solco che divise le due generazioni: il meccanismo si inceppò e subentrò la patologia, il delirio, la perversione che creò i mostri.

Quella violenza, che sfociò nell’assassinio di Aldo Moro, rompeva il patto sociale, anche quello fondato su basi di progressismo egualitario, nella espressione più avanzata socialmente e ideologicamente.

L’atto politico, come gesto esemplare e “ultimo”, non esito di un discorso razionale, aveva come conseguenza fatale la “estetizzazione” della politica e quindi la sua fine. 

Intanto nel film i brigatisti esprimevano le loro divisioni, la loro delirante  visione della lotta armata, il loro tragico, romantico epilogo.  Ad un certo punto la verve creativa di Bellocchio immaginò una Via Crucis di struggente forza espressiva, dove a portare la croce era Moro e dietro c’era tutta la Democrazia Cristiana in processione. Quell’immagine era metafora del destino di un uomo e del partito che rappresentava, ma anche il Calvario di un Paese che stava perdendo i suoi sogni.

Era impossibile per il nostro spettatore non rievocare emozioni, sentimenti sedimentati negli anni in qualche angolo della coscienza. Erano i suoi sentimenti, ma non solo i suoi: il delitto Moro rappresentò una cesura fra un prima e un dopo, contribuendo a cambiare tutto e tutti. Per lui rappresentò la fine dei sogni, la fine della speranza di cambiare il mondo attraverso una spinta che  veniva dal basso: le lotte operaie, studentesche, femministe dovevano creare le condizioni di pressione per la trasformazione dall’interno del sistema.

Ad ogni tornata elettorale il PCI avanzava, fino a raggiungere nel 1976 quasi il 35% dei suffragi. Anche chi non si sentiva rappresentato da quel grande partito di massa aveva la sensazione che qualcosa stesse avvenendo, che si era vicini alla svolta. Anche lui, come tanti altri aveva fatto un investimento personale di idee, sentimenti, rinunce in quella scelta di campo, in quella spinta al cambiamento, in quel contributo che rappresentava prima di tutto un comandamento morale.

Lo sguardo si posò su una coppia giovane che, più avanti, assisteva  con  sincero interesse alle vicende del film: e cercò di immedesimarsi nello stato d’animo vissuto da quella coppia, la cosiddetta generazione 2000. I due sembravano attenti a guardare con spirito criticamente oggettivo un pezzo di storia del nostro paese, senza farsi coinvolgere in sentimenti che storicamente non appartenevano al loro vissuto.

Perché non appartenevano a quella coppia le vicende e le storie umane della generazione che la precedette, i conti che rimanevano sospesi, irrisolti e dai quali derivava tanta parte dell’Italia di oggi.

L’assassinio di Moro rappresentò l’apogeo della follia di un movimento “romanticamente” fuori della Storia, che ebbe la colpa di uccidere non solo un grande statista, ma tutto ciò che di innocente viveva nel movimento della sinistra italiana e non solo. Moriva con lui l’entusiasmo spontaneo, fresco, per una politica non imbalsamata, ma fatta di partecipazione e coraggio.

Il nostro spettatore continuava a riflettere: negli anni seguenti, quelli dell’edonismo reaganiano, del berlusconismo rampante, del liberismo sfrenato, diradò i rapporti con il quotidiano politico: fu una sorta di ritiro deluso che condivideva con gli amici e compagni di una volta. Un sentimento di “reducismo”, ma senza benemerenze e quindi senza riconoscimenti pubblici. Venne la professione in aiuto a dare un senso alla vita e a sublimarne le aspirazioni più profonde. Ovviamente ci furono le scelte politiche, la testimonianza più o meno partecipata a fianco dei più deboli, ma con un senso di mancanza che non lo abbandonò più.

Il film era terminato, Moro era stato ucciso e la Storia aveva cambiato il suo corso. I pochi spettatori defluivano in facile ordine; l’ultimo sguardo fu per quella coppia. Sembravano assorti, ancora immersi nelle tragiche vicende di quel tragico epilogo.

Appena fuori dal cinema il sole ancora alto illuminò i loro volti: si guardarono sorridendo e si avviarono per la loro strada. La giornata era ancora lunga.

ENRICO IENGO

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  • Immagine di copertina: Fabrizio Gifuni in “Esterno Notte” (foto: Anna Camerlingo).

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