“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – IUS “SPORTIS”

di STEFANO CERVARELLI

Quando parlano lo fanno sempre più con l’accento dei nostri dialetti, vivono la vita scolastica dei loro coetanei, abitano accanto a noi, frequentano gli stessi luoghi di ritrovo, gli stessi impianti sportivi che frequentano gli altri ragazzi; capita sempre più spesso di vederli, e di sentirli, suonare la chitarra nelle nostre parrocchie, nelle nostre messe; in molti si rivolgono a Dio chiamandolo in  modo diverso, questo non impedisce  comunque di vivere gli stessi sogni, avere le stesse passioni dei loro coetanei. Però…

Però….. sono fantasmi.

Sono più di un milione fantasmi ad avere meno di 18 anni, vale a dire circa l’11% del totale della popolazione appartenente a quella fascia di età, costretta a vivere nel nostro Paese privi di cittadinanza, eppure tre su quattro sono nati in Italia; secondo l’ultimo report ISTAT il 73% è concentrato in sei regioni:Veneto, Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Toscana e Lazio.

Tecnicamente sono degli stranieri, nella sostanza sono degli “invisibili” che smettono di essere tali solo in una circostanza: grazie allo sport che si ricorda che esistono e questo sta avvenendo sempre più spesso.

Allora smettono di essere invisibili e corrono più veloci degli altri, sono più resistenti degli altri, schiacciano la palla più forte, andandola a prendere molto sopra la rete, e sul ring si fanno valere mettendo in mostra una capacità di  miscelare pugni e danza con insolita leggerezza e potenza.

Ecco allora alzarsi immediato il coro: “Bravi i nostri ragazzi!  Le nostre ragazze!  Hai visto quanto sono forti”. Una parentesi nella loro vita che li fa sentire quello che sono: italiani, e loro ne sono orgogliosi, sono felici.

Lo scopo di questo articolo non è parlare di Ius sanguinis o di Ius scholae o di Ius soli;

no, io qui voglio soltanto parlare di come nello sport si sia riusciti (seppure parzialmente) a permettere a questi “invisibili” di potersi accostare all’attività sportiva, abbattendo steccati… che non permettevano la loro completa formazione sociale

Lo sport, infatti, è quel settore della nostra società che offre diritti e possibilità  ai minori nati in Italia, riconoscendoli prima che abbiano preso il passaporto; qui la politica è stata messa davanti al fatto compiuto.

Nel gennaio 2016 il Parlamento venne spinto a riconoscere con una legge, quanto esisteva già, ossia: ”Le disposizioni per favorire l’integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia, mediante l’ammissione nelle società sportive”.

Uno  IUS SPORTIS che di fatto consentiva e consente di tesserare, dall’età di 10 anni, i minori stranieri con le stesse procedure previste per i ragazzi italiani.

Ho detto prima che si tratta di un provvedimento parziale, primo perché il limite dei dieci anni, secondo l’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), “determina l’esclusione di molti minori il cui diritto alla parità di trattamento con quelli italiani è garantito dalla Convezione ONU sui diritti del fanciullo”. Poiché il Testo Unico sull’immigrazione prevede che il minore non possa mai essere considerato giuridicamente irregolare, indipendentemente dalla posizione giuridica dei genitori, sempre secondo l’Asgi: “il concetto di “regolarmente residenti”deve essere interpretato guardando alla dimora abituale e quindi alla semplice presenza del minore sul territorio, indipendentemente dalla condizione di regolarità o meno del soggiorno dei genitori”.

Il secondo motivo perché il provvedimento è da considerare ancora parziale consiste nel fatto che  non permette di vestire la maglia azzurra; ma in questo caso si può far poco o  niente, nell’attuale situazione. Perché a negare questa possibilità sono i regolamenti internazionali.

Ma quando  finalmente arriva il passaporto insieme a questo arriva  l’attuazione del principio della mescolanza che getta una luce nuova sul nostro sport; basti dire che agli  ultimi europei di atletica un terzo della squadra era rappresentata da questa nuova generazione di italiani.

E qui però c’è da dire una cosa, che non torna a nostro onore.

Infatti è ancora viva nel nostro Paese la necessità di attribuire a questa società che cambia, mutando letteralmente il suo aspetto, un nome, una definizione che agisca da “ distinguo”.

Li chiamiamo italiani di seconda generazione eppure questi ragazzi non provengono dall’estero, non hanno attraversato il Mediterraneo: sono nati qui, appartengono a una nuova Italia che chiede di veder aboliti, cancellati, aggettivi e specificazioni.

Yeman Crippa, oro  sui 10.000 metri ai recenti campionati europei e detentore di record nelle distanze di mezzofondo, venne adottato  in un orfanotrofio etiope, insieme ai suoi cinque fratelli, da una famiglia milanese.

Nella durissima specialità dei 3.000 siepi sul podio, al secondo e terzo gradino sono saliti Ahmed Abedelwahed e Osama Zonghlami; il primo romano di famiglia egiziana, il secondo giunto in Sicilia, con il fratello gemello, all’età di due anni, insieme ai suoi.

La staffetta, vincitrice del bronzo, si poggiava su Zaynab Dosso e Dalia Kaddari,una nata in Costa d’Avorio e da lì proveniente per ricongiungimento familiare, l’altra sarda con papà di origini marocchine.

Quattro anni fa  la staffetta 4 x 400, che vinse l’oro ai giochi del Mediterraneo, era composta da:

Maria Benedicta Coigbolu, Ayomide Folorunso, Raphaela Lukudo e Libania Grenot, quel giorno mentre posavano con la bandiera tricolore, era in corso a Pontida il raduno leghista. Quando si dice le combinazioni della vita….

Il nostro velocista Filippo Totu, mentre le sue colleghe saltavano e si abbracciavano , disse: ”Sono tutte nere? Non ci avevo fatto caso”.

In effetti a farci caso è  soltanto chi le barriere le alza.

Antonio La Torre, direttore tecnico della nazionale di atletica leggera afferma: ”Oramai il colore della pelle e origini diverse non dovrebbero più fare notizia. Mi auguro che sarà così anche dopo le elezioni. L’atletica è lo sport che più accoglie; molti paesi si sono mossi con largo anticipo su di noi, ma ora anche l’Italia è squadra integrata”.

E nelle scuole? Cioè nei luoghi dove l’integrazione dovrebbe muovere i primi passi? Gli sport più presenti negli istituti scolastici sono propri quelli dove l’Italia della mescolanza è più evidente.

La Federazione hockey, attuando una serie di progetti negli istituti elementari e medie, ha offerto possibilità d’incontro per le figlie d’immigrati d’area asiatica con le figlie di italiani; e c’è da dire che la nazionale femminile ne sta traendo buoni risultati.

Purtroppo il tennis rimane nell’ombra perché fatica a liberarsi  della concezione, e della condizione, di sport d’elite. Sebbene questo sport stia attraversando un magnifico periodo fatto di risultati e popolarità, non riesce a liberarsi da quell’immagine di cui dicevo prima.

Quanto l’integrazione proceda più rapidamente, non potrebbe essere altrimenti, tra i ceti popolari lo dimostra il fatto che la prima federazione a capire dove questi “nuovi“ italiani potessero arrivare è stata la Federazione di Pugilato. Dice Alberto Brasca, ex presidente della Federazione: ”Pur non essendo più lo sport del sottoproletariato, restiamo sempre un polo d’inclusione nelle periferie e nelle zone di degrado. Quando ero assessore allo sport a Firenze,facevamo molta fatica a mandare i figli dei residenti nei campi rom a giocare in una squadra di calcio o in piscina: incontravamo molta  resistenza da parte dei genitori degli altri bambini. Le palestre erano gli unici luoghi dove venivano accettati. La Federazione allora decise di dare il via libera al tesseramento come italiani per gli stranieri sotto i 16 anni, con certificato di residenza”.

Il pugilato è stato dunque il primo sport ad avere per campioni d’Italia italiani senza passaporto.

La prima, grazie appunto ad un’apertura operata dalla federazione verso atleti non cittadini italiani nel 2014, fu una ragazza polacca Dorota Kusiak che vinse il  titolo nella categoria dei 57 Kg. Era giunta a Ferrara con i genitori venuti in Italia per cercare lavoro.

Oggi ha la cittadinanza e, sempre a proposito delle combinazioni della vita, è diventata assessora alla pubblica istruzione e alle politiche familiari in quota Lega.

Proprio in questi giorni ha iniziato il suo cammino verso i mondiali la nazionale femminile di pallavolo: la squadra azzurra più aperta alla contemporaneità.

In una ricerca dello scorso anno, a cura dell’Istat, risultava il ruolo centrale del Wolley tra ragazze figlie degli immigrati, uno sport che assurgeva al ruolo di strumento di espressione di sé e, ovviamente, di inclusione.

La centralità assunta dal Wolley come strumento di espressione di sé e, ovviamente di inclusione, tra le ragazze figlie degli immigrati.

Tra i maschi invece rimane più stretto il legame con gli sport delle proprie radici familiari: i ragazzi albanesi giocano al calcio, i filippini ed i cinesi prediligono il basket, mentre i giovani provenienti dall’Europa dell’Est scelgono sport di combattimento.

Concludo con le parole  di Bruno Barba, antropologo, riportate nel suo ultimo libro: ”Il corpo, il rito, il mito (Einaudi 2021): ”L’identità è spesso una finzione, una costruzione strumentale opportunistica (……..). Non si fa che parlare di sport come metafora della vita e specchio della società, sarebbe il momento di dimostrarlo. I successi dei nuovi italiani non fanno che indicare come la società vada verso una profonda ibridazione; qualunque tipo di pensiero opposto è destinato al fallimento. Parlo da antropologo, ma su questo dovrebbe riflettere la politica; il mondo è andato avanti grazie al contatto ed alla mescolanza.

Ci stupiamo di un cambiamento che è invece il timbro dell’umanità e dell’Italia stessa, mediterranea; le giovani generazioni sono più pronte delle precedenti a sintonizzarsi su certi principi, la scuola rende tali contesti fruibili ogni giorno”.

STEFANO CERVARELLI

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