“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – IL BELLO DELLA RIBELLIONE

di MICHELE CAPITANI

Piero Chiara, nel romanzo Il balordo, per rendere l’iperbolica capacità mangiatoria del Bordigoni, ci narra a un certo momento che questi «mangiò pacatamente per tre ore». Pensavo fosse un’esagerazione letteraria finché non vidi una persona mangiare continuativamente non già per tre ore, bensì… per un completo anno scolastico.

Giuro. D’altra parte, ci sono testimoni.

Parlo di una persona normale, che aveva di normale la corporatura, l’intelligenza, l’impiego, le generalità: era la bidella di noi del Serale, Mirella, claudicante e simpatica, sempre sorridente. Fin dai primi tempi che la conobbi la identificai in questo suo apparire, e appunto nell’altra sua prerogativa, l’incessante e pantagruelica attitudine a mangiare.

Mirella pacatamente mangiava sempre, letteralmente sempre. Nel gabbiotto dei bidelli in anodizzato e vetro, lei stava, e mentre stava (sempre disponibile, sorridente o pronta a sorridere) mangiava, lenta e inesorabile, instancabile come il tempo che scorre… Mangiava sempre, mangiava tutto: pizzette, pizze, pastarelle, merendine, tramezzini, stuzzichini… Mi destava meraviglia anche lo stesso affluire di cibo in quel gabbiotto, la varietà e l’imperscrutabilità delle provenienze: avanzi di compleanni (ma di chi? Segretarie? Colleghi, alunni?), di inaugurazioni o chiusure di corsi, segmenti di ciambelloni dalla casa di non si sa chi, o sfiziosità che qualcuno aveva lasciato lì, e pizza dalla durezza ormai metallica, crostate oramai prosciugate, pasticcini intristiti… Misteriose anche le provenienze esogene: vassoi unti e straunti captati all’inaugurazione di un negozio all’altro capo della città; tramezzini imbevuti di maionese che mani ignote prelevarono a chissà quale conferenza; dolci magrebini che una corsista di italiano per stranieri ha riportato dal suo Paese; agrumi dall’albero di un qualche giardino. Ebbene, Mirella tutto questo se lo assaporava calma e inarrestabile, come la tartaruga di Achille.

Come il tempo stesso.

Ci ridevamo, specialmente io e l’altro bidello, ma io iniziai presto a domandarmi quali voraci ansie o nevrosi alimentassero quell’impulso ad alimentarsi.

E la vidi senza cibo tra le mani solo quando scoprii le sue passioni: dopo poco che la conoscevo, infatti, notai che mi capitava di incontrarla a convegni, incontri culturali sul Risorgimento e a concerti di polifonia rinascimentale. Inoltre lei stessa mi raccontò, un giorno, che stavano allestendo con la sua compagnia dilettantistica una drammatizzazione sull’amore fra la Arendt e Heidegger.

Mirella era colei che, quando vedeva iscriversi a un corso una persona gli anni, la fissava con uno sguardo partecipe e intenso, e pronunciava un adagio: «La vecchia non voleva morire per non smettere di imparare», citando forse una nonna.

Siccome al giornalino scolastico di quell’anno noi del Serale avremmo contribuito con storie e testimonianze di nostri alunni adulti, cioè storie che riguardavano l’abbandono della scuola e poi il ritorno anni o decenni dopo, e l’importanza di imparare e di non lasciare gli studi, e come superare difficoltà in questo senso, ecco che Mirella, sua sponte, mi disse: «Miche’, io qualcosa da raccontare ce l’avrei…».

E notai che non le veniva da sorridere.

Fu così che appresi la sua storia:

«La mia storia la faccio iniziare un primo ottobre di tanti anni fa. Le mie amiche di scuola mi salutavano andando a scuola mentre io, dietro la finestra, piangevo, con il viso schiacciato contro il vetro.

I miei genitori non volevano che io continuassi gli studi; mi fecero fermare al 3° anno dell’istituto “Benedetto Croce”.

Il mio professore di italiano, Poretti, era anche venuto a parlare a mio padre, per chiedergli se potevo continuare gli studi, ma sua proposta non ebbe successo.

Fu così che la decisione dei miei genitori rimase irremovibile: dovetti abbandonare la mia passione preferita.

La mia carriera scolastica era iniziata con un premio di disegno in IV e in V elementare. Sempre in V vinsi anche un piccolo premio di l. 1500, su un libretto della Cassa di Risparmio. Poi in 1^ media un evento straordinario mi colpì: vinsi il premio del Ministero della Pubblica Istruzione  per il miglior tema della mia scuola media! Mi diedero un assegno di L. 60.000 all’anno, per i tre anni di scuola, perché ogni anno avevo la media dell’8.

In 3^ media vendetti anche un quadro alla mostra di pittura della scuola.

Il I anno del superiore vinsi il concorso di religione e mi fu data, come premio, la Sacra Bibbia rilegata in oro.

Non pagai mai le tasse scolastiche perché i miei voti ogni anno superavano la media del 7. Fui anche scelta per il concorso di stenografia a Montecatini, e anche lì mi comportai egregiamente: arrivai 167^ su 20.000 partecipanti da tutta Italia, e la scuola mi offrì un soggiorno di tre giorni.

Poi, appunto, tutto finì.

Quindi, vi potete ben immaginare la mia disperazione quando i miei genitori non mi mandarono più a scuola. Provai un dolore terribile e per ben tre mesi non parlai a mio padre, per la prima volta nella mia vita»

***

L’anno successivo si iscrisse la signora Annamaria, che scivendo dei suoi trascorsi scolastici, così narrerà:

«Io ho lasciato la scuola perché ai miei tempi, 55 anni fa, la mentalità della mia regione era ottusa, cioè bastava saper leggere e scrivere. Così è stato per me quando è finita la 5^ elementare. I miei genitori avevano deciso che così era sufficiente, perché per loro era più una spesa che non si potevano permettere. Un altro motivo era che io servivo in casa per aiutare la mamma. Per me la decisione presa dai miei genitori è stata molto dolorosa perché a me piaceva studiare e non volevo fermarmi alla fine della 5^ elementare; il mio sogno precedente infatti era prendere almeno la terza media e poi il diploma delle superiori di cinque anni. Pensavo già di andare all’università ma tutto quello che sognavo io non si è avverato, così io, con tanto dispiacere, ho dovuto obbidire. Quando i miei compagni, quelli che hanno continuato, andavano a scuola io di nascosto li spiavo all’uscita. Studiare per me era il mio “tutto” ma i genitori giù al paese sono padroni dei figli quando sono piccoli, e bisogna ubbidire. Così ho fatto io. Ho obbidito rimpiangiando sempre la scuola, ma non si poteva fare diversamente 55 anni fa»

E a me resta impresso quel numero di anni, smisurato, quel 55, che ritorna preciso e tagliente, come il ricordo di quel giorno che precipitò sulla sua vita come un’oliata ghgliottina, a mozzare i suoi desideri di ragazza.

Se lo ricorda bene, e non dice genericamente “da bambina”: dice esattamente 55 anni fa.

Perché le ferite stanno e rimangono nel luogo dove sono state inferte.

Chi può spostare una ferita?

Allorché si parla di violenza sulle donne si pensa subito ai femminicidi, alle persecuzioni, ai matrimoni forzati, ma non è altrettanto atroce, premeditata e duratura la violenza psicologica, che castra la vita di una persona? Nefandezze come la disapprovazione, lo svilimento costante di idee e inclinazioni, lo squalificare con sarcasmo progetti e desideri, lo scoraggiare o impedire gli studi, non sono violenza?

Però anche Annamaria, come Mirella, se lo ricorda quello che era, si ricorda di essere stata bella, e cerca una sua via per ribellarsi… ri-bellarsi, ovvero: tornare al bello.

Donna tardivamente ribelle, stavo per scrivere, ma a quei tempi come avrebbe potuto opporsi, realisticamente? Ora però torna a sapersi bella della sua curiosità e applicazione nell’imparare, e vuole tornare a esserlo; Annamaria ai nostri occhi già lo ridiventa, riuscendo a parlare delle ferite e dei desideri, e ponendosi un nuovo obiettivo.

E cosa importa, ormai, che abbia già sessantacinque anni?

Non importa a lei né a noi insegnanti, perché c’è sempre vita a disposizione quando si vuole davvero crescere e sapere nuove cose.

MICHELE CAPITANI

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