La sterzata a destra di un Paese stanco
di NICOLA R. PORRO ♦
Scrivo queste note a botta calda. Mancano ancora dati che precisino le dimensioni del successo delle destre e i nuovi rapporti di forza parlamentari. Quello che si può affermare sin d’ora è che siamo a un passaggio d’epoca. Si profila un governo che, per la prima volta nel dopoguerra, non ha radici nelle forze che condussero la resistenza antifascista. È anche la prima volta di una donna alla guida: un elemento di obiettiva innovazione prodotto, per ironia della storia, dalle forze più conservatrici. L’elevatissimo astensionismo segnala però il malessere di una democrazia stanca e di una comunità nazionale invecchiata sotto il profilo culturale (stavo per scrivere antropologico…) ancor prima che anagrafico.
Il risultato fa dell’Italia un “sorvegliato speciale” nell’area Ue, come dimostra indirettamente l’attenzione rispettosa, ma inconsueta e preoccupata, che l’informazione internazionale ha dedicato a queste consultazioni.
Il male di vivere della nostra democrazia si traduce nitidamente nel comportamento elettorale di massa. Sommati insieme, non voto e voto “a orientamento populista” costituiscono una netta maggioranza. Il fenomeno è cresciuto vistosamente nell’arco di venti anni in relazione a due dinamiche diverse. La prima è il progressivo declino dei partiti di massa che organizzavano il consenso, ispiravano lealtà, generavano forme durature di fidelizzazione. Nessun altro Paese europeo, infatti, ha conosciuto un periodo di stabilità elettorale – pur in presenza di una frequente alternanza dei governi – come l’Italia della Prima Repubblica. La democrazia era presidiata, nel bene o nel male, dai maggiori partiti popolari: Dc, Pci, in parte lo stesso Psi e il Msi, partito di raccolta dei nostalgici. Lo spostamento di minime percentuali di consenso da un’elezione all’altra era sufficiente ad alimentare trionfalismo o depressione. Nessun altro Paese dell’Occidente europeo, allo stesso tempo, ha conosciuto come il nostro (soprattutto nelle regioni più povere) il fenomeno del voto di scambio che drenava il consenso mobilitando gli elettori in favore del ras del posto e del partito che controllava le finanze locali.
La terza dimensione del comportamento elettorale, quella del voto di opinione, aveva costituito per decenni una componente relativamente minoritaria rispetto al consenso per appartenenza e a quello clientelare. Esso è però andato crescendo a ogni appuntamento elettorale già dai primi anni Novanta, soprattutto in relazione alle consultazioni parlamentari. Il voto libero dalle appartenenze, dalle antiche fedeltà e dalle pressioni clientelari si è sviluppato soprattutto fra l’elettorato più acculturato, nei maggiori centri urbani e fra le classi di età intermedie. Fasce di elettorato non più nostalgiche del Partito-Chiesa ma ancora fidelizzate all’etica del diritto-dovere della partecipazione. Quando disporremo delle informazioni fornite dalla cosiddetta analisi secondaria sarà interessante approfondire la condotta dell’elettorato giovanile. A una visione impressionistica, che mi auguro sia smentita dai dati, esso sembra precocemente disaffezionato alla politica tout court. Per riflessioni meno approssimative occorrerà indagare in dettaglio i dati, differenziandoli per aree regionali, fra città maggiori e centri minori e in base a fasce d’età, di genere, di reddito e di livello di istruzione. Potrebbero riservare qualche sorpresa interessante.
Mi sono tuttavia già rafforzato nella convinzione che le fortune elettorali delle destre siano maturate assai più in relazione alla ricerca di qualcosa di nuovo pur che fosse, con tutte le ambiguità e i rischi del nuovismo politico, piuttosto che per una scelta di campo motivata sul piano valoriale e del giudizio politico. Sotto questo profilo, la Meloni ha saputo lucrare abilmente sulla rendita di posizione derivante dal rappresentare l’unico partito all’opposizione del governo Draghi. Il solo, per giunta, a proporre nel campo largo della destra una leadership “diversa” rispetto ai vecchi cliché. E certamente percepita come alternativa alla concorrenza interna: uno sbruffone smanioso di cannoneggiare in mare i poveri cristi e un vegliardo narcisista e un po’ annebbiato perso nell’ illusione di un’eterna gioventù. A orientare il comportamento di voto concorre sempre più la capacità di produrre un immaginario ispirato alla figura del leader anziché alla fidelizzazione di partito. Nella sostanza, un processo di americanizzazione del consenso elettorale, fisiologico nei Paesi a regime bipartitico ma inedito per una tradizionale “democrazia dei partiti” come quella italiana. Certamente la narrazione delle leadership e la capacità comunicativa saranno sempre più rilevanti nell’arena politica. Anzi, ne tracceranno i profili e i confini. Ne scandiranno i mutamenti e le transizioni di modello. Ne segneranno le mutevoli fortune elettorali.
Occorrerà perciò aggiornare con urgenza anche gli strumenti di analisi della ricerca politologica nazionale, che rimane tuttavia fra le più prestigiose al mondo.
Al declino parallelo del voto di appartenenza e di quello di scambio, con la contemporanea massiccia crescita tanto del non voto quanto del voto alle liste outsider, hanno concorso anche dinamiche socioculturali a più vasto raggio che non sono esclusive del nostro Paese. Il fenomeno descritto dalla sociologia con la formula, suggestiva quanto generica, di contestuale mediatizzazione della società e digitalizzazione della politica ha eroso le basi sociali del partito di massa mentre la progressiva contrazione dei trasferimenti diretti della finanza pubblica agli enti locali – a partire dalla fine degli anni Novanta – ha fortemente ristretto le risorse materiali a disposizione delle clientele tradizionali. L’astensionismo crescente riflette puntualmente gli effetti politici di questi fenomeni e consuma voto di appartenenza e voto di scambio. Allineando l’Italia, sul piano strettamente statistico, ai valori medi delle altre democrazie europee, ormai da tempo familiarizzate con un astensionismo che supera la metà degli aventi diritto. Per fare un esempio recente, in Francia Macron è stato confermato presidente nell’aprile 2022 con una netta maggioranza dei votanti, che rappresentavano però appena il 42% degli aventi diritto al voto.
Ci stiamo insomma inoltrando in un percorso denso di incognite che può condurre a quella democrazia senza partiti cui ho fatto cenno in un articolo di qualche giorno fa.
Ci piaccia o non ci piaccia, il voto outsider – volatile, facilmente reversibile, spesso umorale, concesso senza entusiasmo e ritirato alla prima disillusione senza sensi di colpa – è divenuto la sintassi della politica italiana come di altre grandi democrazie. Quello che il 25 settembre ha consegnato il Paese a una destra eterogenea e rissosa, priva di idee e persino – c’è ragione di temerlo – di adeguate capacità di governo, costituisce però una sfida che le forze progressiste devono raccogliere. Serve un bagno di umiltà e di realismo per una sinistra che si era illusa bastasse mettere in campo figure (quasi sempre) autorevoli e competenti per contrastare umori populisti circolanti da tempo nel corpaccione amorfo di una politica incapace di passione e a corto di idee.
Il pessimismo della ragione, dunque, era purtroppo ben fondato, ma adesso più che mai serve far ricorso all’ottimismo della volontà. E serve il coraggio di un’autocritica rigorosa, non isterica ma orientata alla comprensione di processi sociali di lungo periodo e di dinamiche di consenso a più corto raggio. Perché quello della leadership e quello della comunicazione sono i terreni su cui si giocherà una possibile rivincita.
NICOLA R. PORRO
Un’analisi politica dei tuoi tempi migliori, lucida e pacata, leale ed accessibile a tutti, senza trionfalismi sul ruolo della democrazia vincente e la negazione di un popolo onesto, definendolo populismo. Rimane fermo il sostrato gramsciano, ma la spinta all’ottimismo deve indirizzarsi verso quel popolo che siamo noi, che chiede ordinari servizi, quali scuole, sanità, controllo dei prezzi dei generi alimentari, bollette da pagare, attività sportive per i bambini e per gli adulti, la città non contaminata dall’energia fossile.
Oltre a Gramsci, pietra miliare della nostra ” ideologia”, mi sovviene il memento di Pasolini sulla mutazione antropologica del popolo ed anche Asor Rosa, che già inveivano sul Palazzo e su di una pessima classe dirigente della Sinistra. Il crollo , non dico del socialismo, ma della democrazia va imputato non alla base, ma ai dirigenti, agli intellettuali, si fa per dire.. che ci hanno fatto sorbire venti anni di Berlusconi ed ancora ancora fino a Meloni.
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Oltre ai dirigenti della cosiddetta sinistra , se ancora l’attuale Pd può ritenersi tale, che non hanno capito la mutazione antropologica degli italiani ,come affermava già Pasolini alla fine degli anni 60 , bisognerebbe approfondire i motivi perché proprio nella sinistra stessa non si sono affermate le donne in qualità di segretario di partito. Molte parole sull’uguaglianza di genere ma pochi fatti , soprattutto in un partito come il PCI maschilista e dipendente almeno fino alla svolta di Berlinguer all’URSS. Il paradosso è che oggi ci ritroviamo con una quasi premier donna che ha alle spalle una storia non certo di lotte per l’ emancipazione femminile ma di rivendicazione dei ruoli stereotipati quali madre , patria e famiglia a cui gli italiani e le italiane rispondono entusiasti. Le analisi sociologiche sicuramente servono ma credo serva soprattutto un bagno di folla e di umiltà per tutti noi , per saperne di più di questa nostra benedetta Italia.
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Grazie Nicola ❤️ la tua diagnosi post res perditas restituisce alla percentuale sbigottita e avvilita dell’elettorato la corretta “narrazione” delle stesse. Dall’entrata di Berlusconi sulla scena politica italiana la leaderizzazione dei partiti(tutti!) e il linguaggio tot almente piegato al personalismo del discorso politico, lo ha infantilizzato oltre che impoverito. Grazie soprattutyo di continuare a proporre la speranza ricostruttiva come orizzonte politico di una ritrovata, autentica Sinistra.
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Caro Nicola, come al solito il tuo intervento è lucido, pieno di spunti di riflessione utili e necessari a comprendere le dinamiche politiche sottese agli esiti delle ultime campagne elettorali. A questo proposito ti sottopongo una mia personale riflessione: tu sostieni che una lunga stabilità politica si consumò nella prima Repubblica, stabilità sostenuta soprattutto dai grandi partiti di massa, mentre oggi assistiamo ad un declino del voto di appartenenza e di scambio. Io però constato che da 30 anni, con l’eccezione (che conferma la regola) dei 24000 voti in più di Prodi nel 2006, la destra è stata sempre maggioranza e il suo bacino elettorale è arrivato quasi sempre a rappresentare il 44-47% dei votanti. Quindi in realtà l’appartenenza politica a quello schieramento è stata fedele negli anni, cementata da una pseudo ideologia della libertà individuale, del “prima io, poi, se ce n’è, anche per gli altri”. E In questo senso ci vedo un “mix” di appartenenza politica, ma anche di voto di scambio: fai questo per me e ti dò il voto.
Le varianti di questi anni sono state: la leadership e sono d’accordo con te, ha risposto ad esigenze americanizzanti di “nuovismo”: da Berlusconi a Salvini, passando da Renzi ( che considero un politico organico al centro destra) e da Di Maio, per arrivare alla Meloni e, d’altro canto, il crescente, preoccupante astensionismo, sul quale ci darai spero presto il tuo illuminato parere .
Enrico
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Grazie, condivido l’esigenza di qualche precisazione che mi propongo di sviluppare in una riflessione ad hoc. Mi limito a segnalare che non tutte le “appartenenze” presentano una morfologia simile. La stabilità e le dimensioni del consenso alle destre di ogni tipo e colore derivano forse (e non solo da noi) anche da una relazione meno “esigente” con la politica. La logica tribale (noi-loro, amico-nemico) sopravvive più facilmente da quelle parti alla crisi dei partiti di massa. Dove sembra inoltre attecchire spesso una maggiore propensione a sostenere leadership più o meno durature (da Lauro a Berlusconi, dal Salvini pre-papeete alla Meloni ora in prova) ma puntualmente capaci di proporsi come “carismatiche”. E’ quello che intendevo facendo riferimento a una latente dimensione antropologica del consenso politico. Cosa differente ma complementare rispetto alla “fidelizzazione” conservatrice cui fai giustamente cenno. Ma è un’analisi, lo riconosco, tutta da precisare e sviluppare.
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Il tuo intervento mi ha fatto riflettere sul fatto che l’Italia è , praticamente, ormai quasi sprovvista di un partito che faccia riferimento al PPE , fatta eccezione per FI che però è ormai parte integrante e minoritaria di una coalizione di segno conservatore e populista.
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C’è anche da considerare il dato rilevante che il 30% della classe operaia avrebbe votato per Fdi che evidentemente fonda il suo consenso non più nella piccola borghesia e non solo nei nostalgici. Grave colpa della sinistra non avere intercettato i bisogni diversi di una classe che più che in fabbrica trova motivi di malcontento nei quartier in cui vive.
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Non solo sono d’accordo, ma temo che quel 30% sia calcolato per difetto.
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Le allusive e sintetiche definizioni di Salvini e Berlusconi sono indimenticabili!
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