Voto a perdere….

di CATERINA VALCHERA

Oggi avrei voluto parlare del nostro momento pre-elettorale, dell’indecoroso teatrino di cui siamo involontari spettatori – ma comunque complici-; poi ho deciso che posso farlo indirettamente e per contrarium, rendendo così anche omaggio a un grande scrittore appena scomparso, Javier Marías, di cui, come per altre “morti eccellenti “ avvenute di recente  nel mondo della letteratura, si è data notizia alla TV per semplice dovere di cronaca. Non è la prima volta che mi indigno di fronte al silenzio colpevole del medium televisivo nei confronti di chi ha operato – ad altissimo livello – in ambito letterario, poiché, come il filosofo Galimberti, anche io sono convinta – ma non per spirito di parte – che la letteratura sia una grande nutrice di sentimenti, di tutti i sentimenti (da quelli privati a quelli collettivi) e che se ne abbia un grande bisogno come antidoto alla desertificazione dell’anima oggi dilagante. Javier Marías ci ha lasciato molti romanzi di grande suggestione e una scrittura insieme realista e intimista, storico-politica e sentimentale, prospettive di narrazione spesso straniate, non tanto per colpire e sorprendere il lettore, quanto per meglio aderire alla persuasione che l’esistenza umana, a tutte le latitudini, a tutti i livelli sociali, oltre che in ogni ambito geo-politico, è di per sé sorprendente e enigmatica. In Berta Isla,  pubblicato nel 2017, ad esempio, il titolo stesso è fuorviante, poiché non è un romanzo concentrato sulla figura femminile omonima (una sorta di Penelope moderna, che per dodici anni aspetterà il marito dato per morto), quanto piuttosto su altri grandi tematiche: il contrasto tra visibilità e invisibilità (tema oggi attualissimo se letto in termini metaforici e allusivi), tra essere e apparire (un’ascendenza pirandelliana e shakespeariana), la gratuità e casualità degli eventi e la difficoltà a conoscere profondamente l’”altro”. In un intreccio apparentemente spionistico -collegato alla lotta all’IRA- la narrazione in realtà si focalizza sui comportamenti di Tomas, personaggio poliglotta, plurimo anche sotto altri profili, in evidente contrasto  con la monolitica volontarietà di Berta, che persevera nel considerarlo suo compagno, marito e vivo, fino a negarne a se stessa la morte. Come per Penelope, il nostos di Tomas le darà ragione, e avverrà dopo un lunghissimo periodo di assenza, allo stesso modo che nel mito. L’incomprensibile resilienza della presunta vedova diventa però in itinere una sorta di complicità, perché ella stessa ha collaborato all’assenza del marito, accettandone le spiegazioni fumose, non esercitando MAI la critica o esprimendo dubbi  sulla credibilità dei fatti, così come le venivano consegnati. Tutta la  vicenda esistenziale si iscrive infatti in un tema più ampio e più forte: quello del POTERE, soprattutto del potere occulto che depreda l’individuo della vita privata, che ne condiziona le relazioni più elementari e che è violento quanto può diventarlo la folla allorché si scatena. Con l’organizzazione del racconto si intreccia una tramatura letteraria fatta di citazioni di classici, in particolare di Shakespeare e Eliot, per riportarci alla riflessione sulla “signora” che davvero incombe su tutti noi, reietti dell’universo (un omaggio a Pascal..) e pedine di un disegno di potere che ci sfugge.

E ora passiamo dall’immaginario letterario di uno scrittore da premio Nobel alla sublime realtà del nostro oggi  e alla posizione assunta o da assumere nei confronti dello spettacolo pre-elettorale di questi ultimi giorni. Siamo spettatori inerti e depotenziati dal potere delle parole dei leader? Quali e quale potenza di fuoco nelle loro parole? Nessuna, nessuna passione davvero politica. Aspettiamo anche noi un nostos? Santo cielo, no! Siamo volontariamente immersi in questo spettacolo o spettatori passivi, pedine del disegno di un potere occulto? Direi proprio che manca anche quest’aspetto orwelliano alla nostra esistenza reale, rispetto a quella narrata.  Ma tra le due c’è una convergenza, oltre a quella del disinganno: il tempo del discorso reale – come quello del romanzo e di tutta la grande narrativa contemporanea – appare senza logica lineare, ricorsivo, inconcludente e convulsivo, frammentato e  iterativo. E non porta da nessuna parte, come il tram nel finale del romanzo Gli inconsolabili di Ishiguro.. Alla semplificazione e ripetitività del discorso politico si aggiunge la grande fantasia lessicale del meta-discorso dei media: voto utile, voto di scambio, voto di protesta, voto convergente, voto divergente, voto con otturazione di naso, voto illuminista, voto perso… Comunque sarà voto, anche a perdere!!

Per protesta leggerò un altro romanzo, grata al mondo cartaceo.

CATERINA VALCHERA

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