IL VOTO DI CHI NON VOTA. UNA LIBERTA’ RISCHIOSA

di NICOLA R. PORRO

C’è qualcosa che mi sorprende e mi preoccupa in questa vigilia elettorale.

È la frequenza con cui sento rimbalzare la domanda “ma tu voti?”. Non “per chi voti”: se voti…

Quasi sempre il tono delle risposte è fra il rassegnato e lo scanzonato. Come se si trattasse di una faccenda privata, di uno scambio di battute fra amici a proposito di argomenti del tutto marginali.

I sondaggisti, del resto, annunciano un’astensione record nel Paese che è stato per decenni il più ligio in Europa alla responsabilità civica del voto. Certo: tanta acqua è passata sotto i ponti. Siamo un Paese di anziani, e quindi con una più elevata percentuale di popolazione che può avere maggiori difficoltà e minori motivazioni a esercitare il proprio diritto. Le identità politiche del Novecento, coltivate per generazioni da tradizioni familiari e sentimenti di appartenenza, sono quasi del tutto spente. I partiti stessi, o quel che ne rimane, non sono ormai che ectoplasmi organizzativi. A surrogarne la funzione un’accresciuta personalizzazione mediatica della leadership, qualche mobilitazione occasionale, soprassalti di umori privi di passione e l’immarcescibile richiamo del voto di scambio. Sintomatico il caso del Movimento cinquestelle. Quello che, predicando una palingenesi della politica, risultò solo quattro anni fa il partito più votato, è ridotto a mendicare la sopravvivenza elettorale in una sola porzione del Paese: quel Sud beneficiato da un provvedimento meritorio, come il reddito di cittadinanza, che avrebbe però dovuto rappresentare un tassello di più ambiziose politiche sociali invece che il salvagente elettorale di un movimento allo sbando.

Nemmeno altre forze, peraltro, si sottraggono alle logiche dell’accattonaggio del consenso: un brutto segno dei tempi, favorito da una ancor più brutta legge elettorale. Il rosatellum incentiva la disaffezione perché rimette tutte le decisioni reali (candidature, alleanze) ai segretari di partiti evanescenti e a leader senza carisma. Un bravo politologo come Vittorio Mete ne ha analizzato rischi e potenziali effetti dando tempestivamente alle stampe, per i tipi del Mulino, il suo Antipolitica. Protagonisti e forme di un’ostilità diffusa. È un lavoro a più vasto raggio che offre però spunti interessanti per aggiornare il profilo sociologico del non voto.

L’area dell’astensionismo, infatti, ha cambiato volto. Non sono più prevalenti gli ambienti a bassa scolarizzazione, i nostalgici delle appartenenze, gli sconfitti della modernizzazione. Sempre più spesso quella di astenersi è invece una scelta del tutto “razionale”. Diffidente verso le antiche identità e refrattaria a elargire un consenso per abitudine, non sempre e non necessariamente si identifica con l’indifferenza. Sondaggi recentissimi mostrano anzi dati sorprendenti: l’orientamento al non voto si associa sempre più spesso a settori di elettorato istruiti, mediamente informati e politicamente esigenti. Un’area culturalmente secolarizzata, poco permeabile alle banalizzazioni propagandistiche e al terrorismo degli slogan (per capirci: se votassero difficilmente si rivolgerebbe a Salvini…). Ciò che rifiutano i nuovi astensionisti, insomma, non è l’invadenza dei partiti, bensì l’incapacità della politica di intercettare domande sociali inedite o di fornire loro risposte adeguate. I diritti, l’ambientalismo, l’accoglienza, le problematiche di genere sono percepiti come temi che vivono di vita propria. E che, in ogni caso, i partiti non intercettano o fanno oggetto di un’attenzione debole e a corrente alternata. Per questi non-elettori, non di rado attivi nei cosiddetti movimenti a tema (single issue), il non voto è paradossalmente concepito come il modo più diretto per chiedere di più alla politica.

La si chiami antipolitica o postpolitica, si tratta di una rappresentazione disincantata, asettica e “strumentale” della politica. Capace di interrogarci ma non di accennare a risposte. Le ideologie sono morte? Riposino in pace. Le passioni si sono estinte? Non le rimpiangeremo: ne troveremo di diverse (forse).

L’astensionista informato, non indifferente alla politica ma sempre più esigente – e conseguentemente sempre più deluso –, incarna piuttosto il primato di quel particulare che, già sei secoli fa, Francesco Guicciardini identificava come oggetto privilegiato dell’azione politica. Ne rappresenta anzi la perfetta icona nel tempo digitale. Un idealtipo sociologico che stenta a percepirsi come membro di una comunità (astratta ma non per questo virtuale) e rifiuta di esercitarne diritti e doveri, responsabilità e comportamenti. Il neo-astensionista non demonizza la politica: la osserva inforcando le lenti del fruitore di servizi. Ne valuta costi e benefici ed è tanto più esigente quanto più è informato. La sua (vera o presunta) competenza giustifica l’astensione come una bocciatura senza appello dell’intera offerta politica. In questo si differenzia dalle tradizionali logiche di premio/punizione, soddisfazione/delusione: quello che si produce è un circolo vizioso di disaffezione senza esiti nitidi e comunque privo di orizzonti costruttivi. Si inscrive nella categoria dei comportamenti egoistici più che in quella della protesta estremistica. Anche il sonno dell’astensione, però può generare mostri. Nel vuoto di una politica democratica non sufficientemente nutrita di consenso e di passione, ridotta spesso all’arido inventario del dare e dell’avere, possono farsi largo poteri non elettivi. Se il mercato tracima dalla sfera economica, se il controllo della forza è sottratto a qualsiasi vigilanza, se l’esercizio dei diritti – come il voto – è vissuto come un optional prima che come un dovere civico, l’orizzonte può farsi oscuro: per tutti.

Il diritto di voto, non dimentichiamolo, è ciò che distingue le democrazie e insieme rappresenta il dovere che identifica la cittadinanza. Il voto di chi non vota è un segnale da non sottovalutare e da non demonizzare. Ma la democrazia non può ridursi a una pratica di customer satisfaction

NICOLA R. PORRO

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