“PESCI, PESCATORI, PESCIVENDOLI E CONSUMATORI” DI GIORGIO CORATI – Quale via da intraprendere. 2) – Dissertazione su desideri, mercato, benessere.

di GIORGIO CORATI

Questo articolo, che è il secondo di due, affronta alcuni quesiti che il consumatore può legittimamente porsi e discute del consumo associato a temi economici e sociali.

Dunque, quale via da intraprendere.

Una domanda che molti consumatori si pongono prima di agire di consumo è “Quanto mi costa”? È una domanda da ritenersi legittima.

Il consumatore è generalmente sensibile al prezzo di mercato di un bene di cui ha bisogno, tuttavia, nella quotidianità accade spesso di notare che alcuni consumatori sono sensibili anche al “costo” da sostenere. Quale costo!

Nelle sue decisioni, il consumatore sembra essere “vittima” di una sorta di senso di preoccupazione, più o meno spiccato o manifesto, per la sensazione di conflitto (inconsapevole!?) che vive nel momento in cui deve definire una scelta o deve decidere di agire. Può certamente valere anche in altre situazioni diverse dal consumo. Il conflitto è tra desistere o agire di consumo nella consapevolezza di dover cedere o meglio “perdere” qualcosa di già acquisito come ad esempio, il denaro, nel caso dello scambio contro bene da cui anche il tema economico del vincolo di bilancio del consumatore. Qui allora, interviene un’altra domanda che il consumatore spesso tende a porsi: “Vale la pena”?

Può trattarsi di una sorta di disagio, di sofferenza, causata dal dover rinunciare a parte di un’”utilità” già acquisita o di un proprio (ideale!?) vantaggio che comunque gli appartiene (o sente di appartenergli) a mo’, ad esempio, di “territorio conquistato”, magari anche “a caro prezzo”, con sudore! Il consumatore che agisce di consumo è di fronte a più condizioni. Deve prendere una decisione in cui il “costo” da sostenere deve valere l’”opportunità” che si presenta o in cui è preferibile la perdita minore, magari in caso di necessità urgente, o in cui è preferibile “il più al meno”, come nel “postulato di non sazietà” della teoria economica. Oppure il consumatore ha una disposizione soggettiva che lo porta a limitare lo scambio di un bene (denaro) di cui ha scarsa disponibilità. “Vale la pena” può riferirsi al dubbio che sorge rispetto all’utilità che si sta cercando di ottenere o al dubbio se il “piacere” (come soddisfazione) che si pensa di trarre vale il “dolore” (come sensazione psichica) che deve essere sopportato per una perdita (denaro). Il valore d’uso, nel senso di funzionalità o utilità del denaro come equivalente nello scambio con un bene di cui si ha bisogno, e il prezzo di mercato (valore di scambio) del bene da acquisire sono legati tra loro, nel senso descritto, come in un rapporto di “fissazione psicologica” dal quale per taluni consumatori sembra essere difficile uscire. Tra i consumatori in cui tale rapporto tende a esser forte o evidente, l’agire di consumo può tendere a palesare irrazionalità, che si può rivelare come una sorta di incapacità del bene acquistato di soddisfare il bisogno (nel senso di valore atteso) ovvero è possibile che la decisione di consumo non risulti idonea a appagare completamente o in modo corretto il bisogno; ciò può essere dovuto magari a una sorta di incompleta consapevolezza del proprio bisogno o a una decisione “affrettata” da un desiderio o da un capriccio oppure a una decisione non perfettamente congrua rispetto ai valori del consumatore. Inoltre, in questo contesto caratterizzato da incertezza, nell’ambito dell’azione esogena di sollecitazione al consumo, sono “rilevanti” gli attributi associati al bene, quali elementi per poter definire meglio non tanto il valore atteso quanto il valore percepito associato alla massima utilità attesa. Per comprendere meglio il significato di attributo basti considerarlo come caratteristica tangibile o intangibile (o entrambe) di un bene che ne determina l’attrattività. Tuttavia, generalizzando, può capitare che un consumatore non comprenda fino in fondo se il valore percepito di ciò che acquista eguaglia (almeno) effettivamente il valore ricercato oppure può capitare che non prenda in considerazione gli effetti esterni sull’ambiente e sulla biodiversità del proprio comportamento. Vi sono poi coloro che tendono a considerare gli effetti esterni e sono orientati alla sostenibilità. Altri consumatori ancora sono più restii a un “comportamento sollecitato”, anzi, le loro decisioni orientate alla sostenibilità generalmente riescono a soddisfare maggiormente un reale bisogno. Le loro decisioni sono comunque determinate dall’attenzione alle risorse utilizzate e alle modalità di produzione del bene, sebbene anch’essi possano essere soggetti a desideri e a capricci.

Il sociologo e studioso di marketing Giampaolo Fabris (2010)1 sostiene che sono ormai i desideri ad alimentare i bisogni, i quali, come determinanti dei consumi perché vocati a soddisfarli, sono riconosciuti come etici, ma, secondo Fabris, ciò è ingiustificato. Per il sociologo, “i desideri si caratterizzano” […] “per uno stato di appagamento costantemente in progress, per un continuo riproporsi anche in tempi brevi” (p.25). […]. Per questo motivo il desiderio è “un fenomeno molto più etereo ed effimero [del bisogno] sfuggente e volubile ed essenzialmente non-referenziale”. Si tratta dunque di un impulso che, “autogenerato e autoperpetuato”, non necessita “di alcuna scusante o giustificazione né in termini di fine né di causa” […] (p.26).

Il desiderio tende a svanire; è vittima di sé stesso. Per Fabris (2010),1 il suo declino è nel costante esaurimento della sua utilità, però in suo soccorso giunge il capriccio quale forma più stravagante. Inoltre, citando quanto scritto dal sociologo filosofo polacco Zigmunt Bauman, Fabris riporta che “alla base del capriccio non c’è assolutamente niente. L’acquisto è casuale, imprevisto, compiuto di getto” (p.27). Vale anche rispetto alla pratica che considera superfluo un bene, al quale dapprima gli è riconosciuta un’utilità e poi entro breve tempo viene rifiutato, soltanto perché, ad esempio, associato a un bisogno inesistente o effimero o perché non più aderente a una moda o perché legato a un desiderio “estinto” o a un mero capriccio oppure perché, semplicemente, prodotto con un’obsolescenza programmata.

È Bauman (2010)2 a ricordare che “la società dei consumatori” […] “svaluta la durevolezza” [perché] “ai suoi occhi “vecchio” significa “sorpassato”. Non più utilizzabile e destinato alla spazzatura”. E sulle pratiche di consumo aggiunge:

“Sono l’elevato tasso di scarto e l’abbreviarsi costante del tempo che trascorre tra il momento in cui il desiderio sorge e il momento in cui esso svanisce a mantenere vivo e credibile il feticismo della soggettività, nonostante l’infinita serie di delusioni che provoca”. […] (p.28).

Nella società postmoderna, che lo stesso autore (2000) 2 ha definito “liquida” per indicare tra l’altro che in essa tutto è momentaneo e precario e che tutto si trasforma in merce come pure l’essere umano, il contesto liquido-moderno (Bauman, 2010) 2 è caratterizzato da un comportamento umano indicato con il termine individualizzazione.

Allarma l’inerzia, o quasi, verso decisioni più consapevoli, comportamenti proattivi e prosociali, che caratterizza ancora molti consumatori; soprattutto quando e se il comportamento di consumo individuale assume una visione “miope” o “egoistica”, trascende da una qualsiasi forma di sensibilità ambientale e sociale, ma soprattutto se si astiene dal porre quale suo fine un allineamento al fine e all’interesse generale.

In un testo di economia dell’ambiente (Turner et at., 2003)3 è riportata la preoccupazione degli economisti Daly, H. & Cobb, J.B. [1990] e cioè che “il comportamento egoistico che sta alla base del sistema di mercato” [possa portare] “alla corrosione del sistema stesso” (p.49). Gli autori del testo, gli economisti contemporanei Turner, R.K., Pearce, D.W. & Bateman, I. (2003),3 parlando ancora […] “dell’individuo in quanto consumatore, investitore, cittadino e lavoratore” riportano, inoltre, che l’interesse personale, per Daly & Cobb, “corrompe il contesto essenzialmente morale della comunità che rappresenta il presupposto del mercato” (p.49). Il mercato, per Turner, Pearce & Bateman,

“dipende in effetti da una comunità che condivida valori quali onestà, libertà, iniziativa, risparmio, e altre virtù la cui rilevanza viene diminuita dalla filosofia del valore di un mercato libero e senza vincoli. Se tutto il valore deriva solo dalla soddisfazione dei desideri individuali, allora non resta nulla che freni il loro egoistico soddisfacimento” (p.49).

Quanto riportato sopra si può ricondurre al concetto di mercato espresso più di due secoli prima dal filosofo illuminista napoletano Antonio Genovesi nel suo lavoro settecentesco “Delle lezioni di commercio o sia di economia civile”. Per Genovesi (Dal Degan, 2019, [1765-1767])4 il mercato è caratterizzato dal principio di reciprocità, per cui un soggetto compie un’azione nei confronti di un altro mosso da un’aspettativa e da progressività, senza alcuna forma di obbligatorietà, né di scambio di equivalenti (non basato su profitto e utilità). Il mercato è un luogo in cui si instaurano relazioni tra persone e che associa bisogni e mutuo interesse. La prospettiva dell’economia civile è che una persona (il “tu”) è un valore per un’altra persona cioè “l’altro”, il quale starebbe peggio senza il “tu” e dunque una persona è solidale perché è autointeressata, ma non egoista.

Per Genovesi il mercato si fonda sulla fiducia (“fides” o fede pubblica), la fiducia pubblica che comprende l’interesse per il bene comune.

Riprendendo il discorso, riportando quanto scrivono Turner, Pearce & Bateman (2003),3

 

[…] “si potrebbe allora sostenere che il mercato dipende dalla capacità del sistema o della comunità in senso lato di rigenerare il proprio capitale morale, esattamente come il mercato stesso dipende dall’ecosistema del proprio capitale naturale” (p.49).

In quanto al benessere, Fabris (2010)1 descrive il cosiddetto “Paradosso di Easterlin” che è molto citato dalla letteratura:

“se poniamo su due assi cartesiani il livello di reddito/di consumi e valutazioni soggettive di benessere, si afferma vi sia un parallelismo quasi perfetto tra aumento delle risorse e livello di soddisfazione, ma solo sino a un certo punto. Superato il quale, la relazione non è più così evidente e mostra semmai un divaricarsi tra due linee. Raggiunti cioè certi livelli, il consumo non genera più incrementi del benessere percepito e quest’ultimo deve essere necessariamente ricercato e soddisfatto in altre dimensioni” (pp.21-22).

La percezione del benessere sembra dovuta essenzialmente alla disponibilità di mezzi per soddisfare i propri bisogni o meglio alla disponibilità economica. Si tratta del benessere economico tanto osannato per certi aspetti, ma che in realtà non conduce “naturalmente” o necessariamente alla felicità in senso lato o a una sensazione di benessere soggettivo in cui la dimensione economica assume indubbiamente un significato di rilievo. Il benessere soggettivo tende a traslare in apprezzamento delle condizioni di vita privata e ciò porta certamente ad apprezzare la vita sociale, nelle relazioni con gli altri, nonché a vivere in armonia con gli ambienti naturali circostanti e con il cosiddetto capitale costruito se esprime al meglio i canoni edonici e la cura negli interventi nel tempo. Il capitale costruito è costituito dalle opere realizzate, ma anche, ad esempio, il cibo.

L’esperto di economia Aldo Edoardo Carra (2010) 5 riporta un dato che emerge da alcune indagini e cioè che “non c’è una efficace correlazione tra benessere economico e felicità” (p.79). La felicità nel senso squisitamente di possesso di mezzi è da ritenersi una sensazione effimera. […] “Una felicità che”, per Fabris (2010),1 riprendendo quando osserva Lipovetsky “non genera gioia di vivere”. 

[Osserva Lipovetsky] “ecco il più grande paradosso: le soddisfazioni vissute sono sempre più numerose che mai, ma la gioia di vivere non avanza, anzi, diciamo che regredisce; la felicità sembra altrettanto inaccessibile proprio quando abbiamo più occasioni per coglierne i frutti” (p.23).

Il “Paradosso di Easterlin” non è scientificamente validato (Fabris, 2010).1 […] “Forse” continua Fabris, “a ben pensarci, non merita nemmeno di essere definito paradosso: semplicemente la sua supposta colpa è contraddire la diffusa religione dello sviluppo economico come sinonimo di benessere” […] (p. 24).

In merito alla felicità, Jeffrey D. Sachs, economista americano contemporaneo ed esperto di sviluppo economico e lotta alla povertà, sostiene (2015)6 che

[…] “in chi è decisamente orientato a valori materialistici (come un forte impulso a guadagnare più denaro o ad accumulare beni di consumo) non si rileva una felicità pari a quella di chi ha un orientamento meno materialistico”. […] ”Si rileva un maggiore grado di felicità negli individui per i quali la generosità – espressa mediante il volontariato, la filantropia o altre forme di altruismo – è molto importante” (p.68).

GIORGIO CORATI

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Bibliografia
[1] Fabris, G. (2010, pp.25-26).  La società post-crescita – Consumi e stili di vita. Cesano Boscone (MI). Egea.
2 Bauman, Z. (2010, p.68). Consumo, dunque sono. Bari. Economica Laterza.
  Bauman (2000). Liquid modernity. Polity Press.
3 Turner, R.K., Pearce, D.W. & Bateman, I. (2003, p.49). Economia Ambientale. Bologna. Il Mulino.
4 Genovesi, A. (2019, [1765-1767]). Lezioni di economia civile. A cura di Dal Degan, F.. Introduzione di Bruni, L. & Zamagni, S.. LegoDigit S.r.l., Lavis (TN). Vita e pensiero.
5 Carra, A.E. (2010). Oltre il PIL, Un’altra economia. Nuovi indicatori per una società del ben essere. Con il contributo di UNIPOL S.P.A.. Roma. Ediesse s.r.l..
6 Sachs, J.D. (2015, p.68). L’era dello sviluppo sostenibile. San Giuliano Milanese (MI). Università Bocconi Editore.