RUBRICA “BENI COMUNI” – 17. COM’ERA E DOV’ERA. TESI/ANTITESI.
a cura di FRANCESCO CORRENTI ♦
È un fatto abbastanza noto, anche negli ambienti cittadini meno avvertiti, che Civitavecchia, nel corso degli ultimi cinque secoli, sia stata oggetto di innumerevoli disegni, incisioni, dipinti, rilievi, studi e progetti, sia da parte di viaggiatori, illustratori, cartografi e artisti vari, sia da parte di agrimensori, geometri e altri tecnici e, specialmente, di architetti e di ingegneri, civili e militari, tra i maggiori che, negli stessi anni, erano chiamati dai pontefici succedutisi ad operare in Vaticano, a Roma e nello Stato della Chiesa, provenendo dalle diverse regioni dell’Europa del tempo.
Gran parte di questo materiale ha avuto una buona diffusione, prima per l’opera degli storici municipali coronata e conclusa dalla Storia di Carlo Calisse, poi per merito dei vari cultori dell’Associazione “Centumcellae”, fino al grande lavoro di riordino e collazione operato dalle due tesi di architettura all’origine della mostra-convegno Civitavecchia da salvare, che ha dato il via all’esemplare azione sistematica di ricerca, studio, catalogazione e tutela condotta dal Comune tramite la direzione degli appositi uffici istituiti, operanti quali catalizzatori di buone pratiche anche a scala sovraccomunale ed interregionale, in sinergia con le Soprintendenze e i Ministeri, poi grazie al lavoro di molti studiosi ed alle attività divulgative di associazioni e istituti con finalità sociali. Ultimamente poi, i vari social ed in particolare Facebook, hanno visto gruppi o singoli appassionati, impegnati in un’opera quotidiana di pubblicazione di immagini, riproduzioni, fotografie di carattere storico, che, per Civitavecchia, hanno la costante di voler rievocare il passato scomparso, la città com’era prima delle distruzioni e, quindi, la memoria storica, nel perenne rimpianto di quanto si è perduto ma che resta continuo oggetto di amor patrio. Anche se poi, accanto a queste espressioni filiali o campanilistiche (con le loro specificità) di attaccamento ai ricordi, l’impegno concreto sul campo, ossia sul territorio, è molto più limitato per un insieme di fattori. Con fulgidi esempi, però, di vero e faticoso impegno fisico, che riesce ad esplicarsi soprattutto – per la situazione generale dell’educazione civica e per la contenuta presenza dell’ente pubblico nel campo della manutenzione e della pulizia urbana – in campagne di ripulitura di monumenti o di risanamento igienico-ambientale di spazi pubblici, con preziosi episodi di maggiore impegno culturale, purtroppo sporadici e non collegati tra loro.
Per quanto riguarda gli svariati “profili” che “postano” immagini d’epoca, per restare in questa categoria di utenti che è la più diffusa tra quanti si occupano in qualche modo di Civitavecchia e dintorni (come accade per quelli rivolti ad altre “piccole patrie” e “luoghi del cuore”), va detto che le più seguite sono ottimi esempi di contenitori culturali, gestiti con dedizione e quotidianamente riforniti di informazioni e immagini spesso rare od inedite. Tuttavia, in qualche caso, quelle immagini sono “prese in prestito” e, di norma, il prestatore non è consenziente e/o inconsapevole. Tra i più saccheggiati possiamo tranquillamente citare Arnaldo Massarelli, tra gli autori (ho ripetutamente scritto di questa pessima abitudine che si è manifestata anche nell’uso a fini pubblicitari o di arredamento), ma anche altri ed anche nel campo dei detentori di diritti, ossia di quello che è un oggetto specifico di tutela, il “copyright”, la proprietà letteraria ed artistica e così via. Gli album di fotografie del dopoguerra di Armando Blasi, di proprietà comunale – come naturalmente il volume Obiettivo Civitavecchia tratto da quelli – sono un’altra fonte attinta ma non citata. A volte, si sono dovuti registrare casi giunti anche al vero e proprio plagio (di titoli, di brani, di immagini, pure di segni d’interpunzione), ma l’ignoranza delle fonti, l’oblio e la dimenticanza dei corretti riferimenti di attribuzioni o l’omissione della paternità o maternità reali delle idee (e di interi capitoli della storia quotidiana, per esaltare alcuni fatti e ignorarne altri più incisivi) sono le scorrettezze di maggiore e più abituale frequenza.
Effettivamente, gli aspetti negativi di alcune di tali “pubblicazioni” sono, in primo luogo, la mancanza di dati identificativi (diretta conseguenza dei problemi precedenti), quindi di indicazioni sulla fonte, l’oggetto, l’autore, l’editore eventuale, la data. Poi c’è la mancanza di controlli scientifici sulle informazioni fornite e questo comporta spessissimo errori di attribuzione, di identificazione dei luoghi o dell’epoca. Come si è dovuto constatare infinite volte, la pubblicistica sulla storia di Civitavecchia, tra miti e metafore, mitomani e mitili (moltissime le rampatelle), è un frequentatissimo campo da gioco di avventurosi (ma impavidi ed anzi spericolati) inventori. Nefasti per la vera cultura e per le conseguenze negative sulle giovani generazioni, sulla scuola, sul turismo e sull’informazione.
A questo punto, voglio parlare di un argomento di cui mi sono occupato da molto tempo e sul quale ho già scritto altre volte (si veda, in particolare, Ricerche sulla storia urbana di Civitavecchia: un metodo di anastilosi grafica dei centri storici scomparsi, relazione al convegno di studi “Il Rilievo tra Storia e Scienza”, Perugia, Palazzo dei Priori, Sala dei Notari, 16-18 marzo 1989, pubblicata in “XY, Dimensioni del disegno”, a. V, n. 11-12, 1991, pp. 72-93, Roma, Officina edizioni, 1991), rinviando però la ripetizione di argomenti ampiamenti illustrati a trattazioni più complete che potranno approfondire i metodi dell’interpretazione delle antiche testimonianze grafiche per la conoscenza del contesto ambientale di Civitavecchia nei secoli passati, per tentare invece di dare una risposta chiara e convincente sul tema dei monumenti scomparsi e su una questione molto sentita di recente e variamente dibattuta, quella di una loro ricostruzione.
Posso dire che in questo campo l’esperienza acquisita è vastissima e di fatto quasi unica, dato che possiamo partire da fondamenta straordinarie, la documentazione raccolta ed elaborata da Paola Moretti nel ’65-66, dalle successive integrazioni ed approfondimenti, che ho trasferito nella documentazione informatica del CDU (un archivio davvero imponente, che ha avuto anche la singolare evoluzione visuale della “Macchina del Tempo”), con le aggiunte degli studi d’ufficio, di quelli di Arnaldo Massarelli e delle numerosissime tesi di laurea coordinate, oltre alle ottime immagini proposte da Francesco Etna e naturalmente ai tanti nuovi apporti di studiosi e di associazioni.
Vengo alla questione, che ho sintetizzato nel titolo: «Com’era e dov’era». Titolo che è l’espressione del sentimento di molti. Non sarò breve. Scusatemi.
La questione delle ricostruzioni e, purtroppo, delle demolizioni, è una questione che ha pesato in modo drammatico sull’aspetto e il significato della città di oggi e che effettivamente dovrebbe far riflettere sia i Civitavecchiesi “de ’na vorta” sia quelli “de domani”. Prendo spunto da dichiarazioni e argomentazioni “postate” tempo addietro su Facebook, anche ripetutamente. Un argomento molto sentito (anche in sedi istituzionali, un tempo) riguardava la Rocca e, soprattutto, la Torre della Rocca. Un altro argomento, forte oggetto di nostalgia, è la “Scaletta”. Pietro Rinaldi auspica una ricostruzione che lui stesso definisce «il più possibile TAL QUALE, stante la semplicità costruttiva che appare evidente nelle fotografie d’epoca [e che] non presenta difficoltà insuperabili o analisi di un gran numero di soluzioni possibili». Su queste “evidenze” credo sia necessario focalizzare la nostra attenzione.
In primo luogo, io credo molto sull’utilità di conoscere le varie idee già espresse su un argomento, non le soluzioni che saranno possibili, ma quelle che avrebbero potuto esserlo. È una questione di metodo, non di presunzione né di esibizionismo. Per questo ho inserito nel secondo volume di Chome lo papa uole… (edizione 2005, pagg. 174-175) le varie proposte fatte dal 1995 al 2002 alla Soprintendenza e all’Autorità Portuale, tra cui vi erano idee progettuali di architetti di grandissima sensibilità, esperienza e prestigio come Renato Amaturo. Per questo, ho ritenuto molto utile nei convegni “Punti di fuga” dell’Ufficio Interregionale della Tuscia presentare tesi di laurea più o meno recenti e recentissime (soprattutto di giovani e brillanti civitavecchiesi) su argomenti cruciali per la città (eppure ignorati dall’opinione pubblica, come quelle tesi) o organizzare workshop con studenti di varie facoltà italiane ed estere, come intelligentemente è stato fatto – ad esempio – a Roma per un tratto del Tevere dal Circolo Canottieri Tirrenia Todaro (con le Facoltà di architettura di Roma, Camerino, Parigi Est Marne-la-Vallée e Belgrado) e proposto anche altrove.
La questione, naturalmente, vale tanto per la Scaletta quanto – a maggior ragione – per la Rocca e per la sua Torre e per qualunque altro monumento. Da architetto comunale, da ispettore onorario del Ministero per i Beni e le Attività Cultuali e da docente di master alla facoltà di architettura della Sapienza, in tempi diversi, ha sentito spesso diverse persone porre la questione di ricostruire qualcosa dov’era e com’era. Ho anche conosciuto altre persone che, invece, le cose che erano, già da anni e anni, dov’erano e com’erano, avrebbero voluto demolirle e sostituirle con manufatti nuovi. Il mondo è vario e, nel sentimento comune, è bello proprio per questo.
Tornando alla Scaletta dell’anteguerra, di cui non ci sono rilievi, ne ho ricostruito il disegno di massima e ne ho dato la pianta sulla copertina di una relazione – una delle tante – del 1998, in scala 1:100. A volerne fare un progetto esecutivo, è chiaro che c’è tutto da inventare. Come ho detto, la Scaletta che vediamo nelle fotografie degli anni Quaranta fu realizzata in sostituzione del collegamento originario, il Caracollo, che a sua volta sostituiva la porta con rampa che saliva alla piazza San Francesco, demolita per costruire l’Arsenale. Tanto varrebbe, allora ricostruire quella, eliminando le barriere architettoniche. La Scaletta fu fatta insieme a quella sciagurata “resezione” del prospetto dell’Arsenale per far passare i binari, che snaturò del tutto la più importante opera civile del Bernini e dei suoi collaboratori. Gente come Giulio Cerruti, Felice Della Greca, Carlo Fontana e, poi, Mattia De Rossi. Personaggi che, nell’operare nel porto e nella città di Civitavecchia, come i vari Bramante, Sangallo, Laparelli che li avevano preceduti, ci hanno insegnato che il criterio da seguire non era quello del “com’era e dov’era”, ma di lasciare testimonianze (certo, quelle, altissime, inarrivabili) del loro tempo e della loro architettura.
E allora, la ricostruzione della Scaletta “com’era e dov’era” negli anni Trenta del secolo scorso non sarebbe neppure soltanto un falso, ma una arbitraria, ipotetica e fasulla interpretazione di quel poco che si vede da qualche foto, una imitazione puramente apparente del secondo millennio di una brutta cosa degli anni del fascismo, in un contesto totalmente cambiato e con la conoscenza precisa di quello che c’è oggi lì sotto (ho fatto io personalmente lo scavo) ossia le fondazioni dell’Arsenale Chigiano e non solo. Diverso è stato il caso di Porta Livorno e della gradonata di Clemente XIII, demolita nel ’44 e di cui si aveva la documentazione completa. La Porta aspetta ancora di essere completata con il coronamento superiore, di cui sono state anche recuperate varie parti, ma pochi se ne lamentano. Per la Scaletta, comunque, c’è un altro problema: i materiali. Si dirà: la facciamo com’era. Sì, ma com’era? La base sotto, di cosa la si fa? Di scaglia? Di mattoni, se possibile prodotti al “Bricchetto”? o ci si contenta d’un riempimento di calcinacci? Macerie non ce ne sono più… Forse è più pratico fare una struttura portante in cemento armato e sotto alla scala si ricava un locale, un magazzinetto, che è sempre utile? Resta un altro problema, i gradini, intendo le pedate, di cosa si faranno? di peperino, di travertino, di marmo, di pietra basaltina? Prima com’erano? Chi se ne ricorda? E poi l’andamento, l’altezza dei gradini, i pianerottoli, si faranno esattamente com’erano, e non lo sappiamo, o si faranno a norma? Voglio dire, secondo le norme attuali, altrimenti gli “uffici” non la passano? Allora era piuttosto pericolosa, con gradini “a fazzoletto” (cioè triangolari) e con altre caratteristiche (alzata e pedata, larghezza, corrimano) non esattamente conformi alle disposizioni in materia.
E qui mi fermo. Ho esposto “tesi” e “antitesi”. Ma rifare un manufatto antico scomparso, secondo me, non significa rifarlo com’era ma come crediamo che fosse e questo comporta problemi insormontabili. Il dibattito è aperto. Spero che intervengano in molti, con opinioni diverse o anche uguali. Ma provando ad avviare un dialogo utile su argomenti di interesse comune.
Aggiungo qui sotto la trascrizione di una parte delle idee espresse sull’argomento, se non sbaglio, a marzo del 2016, per quanto sono riuscito a recuperare, scusandomi per omissioni e imprecisioni, che potranno essere facilmente corrette in seguito, se gentilmente segnalate.
Francesco Correnti: Caro Pietro, ho sempre apprezzato negli anni il tuo lavoro e il tuo impegno su tanti temi sociali e ambientali, seguendo la tua attività finché ho svolto la mia al Comune di Civitavecchia e avendo quindi occasione di avere tue notizie frequenti o incontrarti proprio per i rispettivi ruoli. Quindi, scusami, ma non posso davvero condividere la tua idea sulla Scaletta. A presto.
Pietro Rinaldi: Ciao Francesco. Caro Architetto di chiara fama, conoscitore e studioso della storia di Civitavecchia. Sono contento del Tuo commento. In verità non ho usato nel mio post il vocabolo “scala storica”. Riconoscerai però che per i giovani d’oggi e per quelli che non l’hanno mai vista “storica è” e comunque antica e affascinante rispetto a quell’esemplare che vedi nel post che ho inserito stamattina presto sul mio diario. Quello che affermi mi fa capire che la “sovrintendenza” non dovrebbe introdurre veti. Sarebbe ovviamente qualificante il tuo contributo tecnico-professionale (ovviamente volontario) alla stesura del disegno che la potrebbe riproporre in sito.
Francesco Correnti: Caro Pietro, trovo che un mezzo di dialogo quale è certamente Facebook con tutti i suoi limiti, sia importante quando non vi sia altro modo di confronto come avviene attualmente dalle tue parti. Però io sono dell’idea che non si possano affrontare questioni importanti così. Allora è necessario ricreare luoghi e modi di confronto dove mancano. Da una foto (post?) di Gigi Veleno è scaturito un incontro nella biblioteca comunale che potrà portare al recupero del famoso campanile di San Giulio/Sant’Egidio (ne darò notizie presto). Dalla tua foto di oggi potrebbe venire un incontro interessante su temi che andrebbero effettivamente approfonditi. E chi può impedirci di farlo? Io ci sto e la questione del volontariato ca va sans dire, ho fatto per quarant’anni l’urbanista condotto! Troviamo un luogo e avrò piacere di partecipare. Porterò anche una ventina di soluzioni studiate da me e da altri (alcuni molto bravi) prima di adottare quella realizzata. Infatti, quella realizzata, con porta levatoia (perché si doveva chiudere la sera) e materiali non invasivi, come sai è un mio progetto. Spesso, in casi del genere va accettato il male minore, purché si realizzi qualcosa e non si continui con bracci di ferro inutili e improduttivi. Devo aggiungere che era anche previsto un ascensore, non voluto dall’Autorità. Del resto quello del Ghetto docet! Aspetto tue nuove. Ciao.
Francesco Etna: Secondo me hanno buone ragioni sia Pietro Rinaldi che l’architetto Correnti. In effetti non è detto che ciò che è antico sia per forza di cose bello. Visto che c’è tanta volontarietà sia nella progettazione che nell’esecuzione. Io (ma è un desiderio personale) darei la precedenza alla ricostruzione della torre del Lazzaretto e a quella della torre della Rocca. Mi chiedo se in Germania ci fosse stata l’estremamente burocratizzata Soprintendenza italiana avrebbero mai ricostruito Dresda com’era. Un remoto buon esempio devo dire è stata la ricostruzione della Fortezza dove, in accordo con le idee dall’Architetto, non fu invece ricostruito l’edificio interno al cortile sia perché successivo che perché ingombrante.
Pietro Rinaldi: Se l’idea andrà avanti e, come leggete, l’impegno ce lo sto mettendo, è certo che qualche incontro con le persone interessate sarà importante. All’Arch. Correnti devo dire che non sapevo fosse stato lui a progettare l’attuale scala (o forse me lo ero dimenticato). Prima di fare una riunione (quando sarà, dopo aver cercato di capire quale è il necessario percorso amministrativo) faremo tutti un bel sopralluogo e costateremo lo stato di fatto attuale, che non sto ora a descrivere. Credo, caro Francesco, che una eventuale ricostruzione “il più possibile TAL QUALE” stante la semplicità costruttiva che appare evidente nelle fotografie d’epoca, non presenti difficoltà insuperabili o analisi di un gran numero di soluzioni possibili. A Francesco Etna, che pure ringrazio per il commento, mi piace ricordare di una iniziativa “resa pubblica” fine anni 90, volta a sensibilizzare la città sulla questione Rocca e annessa possibilità di ricostruire la torre dell’orologio (ci dovrei avere da qualche parte la documentazione allora prodotta … che cercherò).
N.B.: L’immagine che segue richiama il mio proposito di stimolare attraverso la rubrica una discussione corale su vari argomenti. Nel vivissimo ricordo e nell’affettuoso rimpianto di Roberto.
FRANCESCO CORRENTI
Che bello questo dossier, pieno di tutto!
Grazie!
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Spero che molti dei lettori ed amici del blog vogliano esprimere il loro pensiero su questo argomento o sugli altri trattati in precedenza dalla rubrica, perché è appunto quello che riterrei utile, in modo da non limitare la rubrica e gli articoli ad una voce più o meno autoreferenziale che parla solo a se stessa.
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