Requiem

di ANNA LUISA CONTU

Solo due settimane prima il paese lo aveva visto alla  guida della sua vecchia panda, la cara vecchia panda che lo portava all’orto, laggiù nella piana di Muraiolu, il fiume che cantilenava sui ciottoli e sui massi del suo letto;  scorreva in forma di ruscello ma  diventava impetuoso e distruttivo con le piogge abbondanti, come era successo nelle alluvioni del  duemila e tredici e del duemila e diciannove. Quest’ultima si era mangiato l’orto di sotto che sua madre aveva coltivato a patate sessant’anni prima. Erano rimasti l’orto di mezzo ormai invaso dalle erbacce e dal rovo e l’orto grande che lui coltivava più per la necessità dell’anima che del corpo. Era la sua settima creatura che si era aggiunta agli altri sei, ragazzi e ragazze ormai adulti e qualcuno di loro già nonno. 

Come l’avevano dimesso dall’ospedale era corso lì, all’orto, perché lui sapeva le necessità della patata, della cipolla e quanta acqua volesse la lattuga e di quanto sole avesse bisogno il pomodoro. Aveva zappato e  rimboccato il solco alle patate ma era una lotta impari contro le erbe infestanti,  debole com’ era. E tornato a casa era venuto meno e lo avevano di nuovo portato all’ospedale. 

Lui non era mai stato contadino anche se la sua era una famiglia di pastori e contadini. Era stato ritirato da scuola e portato ancora bambino negli stazzi solitari ad aiutare il padre con il gregge. Non aveva mai amato quella vita e infatti , appena finito il militare lassù al nord, aveva parlato al padre del suo progetto di comprare un camion, e il padre, capendo che quel figlio non avrebbe potuto torcerlo più alla sua idea, assentì. 

Il suo primo camion era un leoncino Fiat rosso di seconda mano. L’aveva chiamato “Cucuricottu” “testa cotta”, perché il tetto della cabina era sbiadito e scrostato. Fu il primo di una serie di camion che per decenni lo avevano portato in giro per le strade tortuose della Sardegna a rifornire i pastori di mangimi per il gregge, i muratori di laterizi ed accompagnare i compaesani sulle spiagge della Baronia. Il suo secondo camion, nuovo, l’aveva chiamato “Garibaldi “ forse per l’audacia e la spavalderia con le quali affrontava tornanti, curve strettissime, strade dissestate in mezzo a boschi di sughereti antichi quanto i millenari abitati di progenitori ormai scomparsi. E così per cinquanta anni e più. 

Quando andò in pensione ritornò al mestiere del padre, si mise a coltivare l’orto di Muraiolu e lo trattò come aveva trattato i camion della sua vita, un amico col quale conversare in silenzio, raccontare quello che era nascosto nelle profondità dell’anima , il  dolore per essere l’unico della sua famiglia  rimasto in paese quando tutti erano emigrati. L’ultima volta ne rimproverava le sorelle, ritornate per la cura della casa e della tomba del padre e della madre. Piangeva mentre le rimproverava di averlo lasciato solo, unico della sua stirpe.

Eppure la sua vita era stata bella, l’amata moglie, i figli e le figlie di cui andare orgoglioso, il lavoro mai sentito come peso e l’assoluta aderenza alla cultura del paese, delle persone che lo abitano; la sua ironia, le battute che uscivano spontanee e che svelavano profonde verità, rivolte ad adulti e giovani. 

Quando morì, il paese intero lo accompagnò al suo riposo, tributando un grande onore alla sua lunga vita.

ANNA LUISA CONTU

https://spazioliberoblog.com/