IL MALE DI VIVERE E LA GUARIGIONE COME COMPROMESSO – (Parte 2)

di ENRICO IENGO

Abbiamo terminato la prima parte con l’affermazione che i moderni farmaci antidepressivi (gli SSRI che bloccano il riassorbimento della Serotonina in alcune aree del cervello) sono farmaci preziosi nel curare la grave depressione (che definiamo “maggiore” o “psicotica”), ma sono anche i primi farmaci ad agire sulla mancanza di energia, sulla propria capacità di essere all’altezza, di agire efficacemente nel rispetto delle richieste personali e di terzi, ma, attenzione, in un contesto in cui si sacrifica il vecchio modello di malattia a favore di un allargamento del disagio psichico proiettato nella relazione individuo-società e caratterizzato da impotenza e senso di inadeguatezza.

Questi farmaci, secondo i messaggi del veicolo pubblicitario, ma anche secondo la pratica personale risvegliano “la forza interiore”, fanno riscoprire il “campo relazionale”, fanno “rivivere le emozioni”. La vecchia farmacologia si presentava con importanti effetti collaterali che minavano la capacità del soggetto di relazionarsi, ma soprattutto dovevano preparare il malato ad affrontare i suoi conflitti, rendendo più semplice il percorso psicoterapico. La psichiatria rispettava i parametri della natura psichica e della malattia.

Ora invece c’è la consapevolezza di poter agire su noi stessi quali che siano le condizioni e le sue motivazioni, in virtù di molecole che attenuano l’intensità dei sintomi, espressione di conflitti o di eventi traumatici. Ma in questa accezione generica e utilitarista del nostro vissuto dobbiamo mettere in conto che sacrifichiamo la nostra natura psichica nella sua unicità fondante l’identità, natura che diventa senza qualità. Legendre (1989) sosteneva: “la comparsa dei farmaci transnosografici, utilizzabili in più circostanze, implica effetti di desoggettivizzazione”. Cambia l’approccio al paziente di pari passo al cambiamento della società.

A tal proposito Kramer in un lavoro del 1997, in relazione all’impossibilità di circoscrivere con precisione la patologia si poneva provocatoriamente la domanda: “allargamento del concetto di malattia mentale o modificazione degli stati mentali normali?” Da vero Americano prevaleva in lui l’atteggiamento pragmatico e utilitaristico: egli tentava di giustificare la terapia in persona non malata, differenziando il concetto di molecola antidepressiva da quello di droga. “Il Prozac genera piacere rendendo il soggetto libero di dedicarsi ad attività produttive e sociali. A differenza delle droghe non è fonte di piacere in sé e per sé, né provoca alterazioni percettive” (Kramer 1997).   Kramer proponeva una scelta: utilizzare gli antidepressivi per curare la depressione e per aumentare il comfort psicologico dei soggetti normali; l’importante è che i farmaci non procurino tossicità o rischi di emarginazione sociale come avviene per le droghe e l’alcol.            

Del resto, a sostegno di queste affermazioni, si ribadiva che la medicina non si limita più soltanto alla cura delle malattie, basti pensare al grande sviluppo della medicina estetica, o al controllo della sintomatologia nella donna in menopausa, o alla terapia della disfunzione erettile.

La somministrazione di questi farmaci risponde all’esigenza sempre più sentita di comportamenti standard: la difficoltà di “tener testa” può costare cara per un individuo alla deriva, con i fallimenti professionali, familiari e affettivi e con una conseguente emarginazione, che una volta avvenuta risulta irreversibile. Kramer difendeva una medicina dei comportamenti a conferma di una diversa visione della moderna psichiatria.

La conseguenza di cui dobbiamo essere tutti consapevoli è il venir meno della diagnosi:  con l’aiuto di un farmaco psicotropo, si cerca di recuperare le energie finora in difetto o mal amministrate. Siamo in presenza di una droga-non droga perfetta? O molto più semplicemente stiamo aiutando le persone a convivere con le proprie insufficienze, dando loro la possibilità di mantenere le capacità relazionali e competere in una società fondata sulla concorrenzialità aggressiva?

Un’altra naturale conseguenza è l’atteggiamento verso quel conflitto che è alla base della sofferenza psichica: il suo tenerlo in sospeso da parte della molecola; il trattamento può migliorare le capacità di una persona, modificando la sua natura psichica che è alla base dell’insufficienza dell’azione, ma il farmaco non interagisce con il conflitto. E’ anche vero che il trattamento antidepressivo si può affiancare al lavoro necessario per conoscere noi stessi e risolvere i conflitti: ma l’individuo vede comunque nel farmaco una risorsa che consente di “resistere”, anche per tutta la vita. Insomma la molecola permette di gestire meglio la sofferenza in una depressione, il fatto di non sentirci all’altezza del nostro ideale dell’Io, ideale che ci stimola all’azione: non scompare il conflitto ma è reso meno visibile e soprattutto si dà una risposta rapida al sintomo e il tempo per recuperare deve essere breve: lo richiedono società, famiglia, lavoro.

La depressione e l’ansia sono il frutto di affetti, di emozioni inerenti all’umanità, che Freud designava come “sentimenti dell’Io”. Quali parti integranti della nostra costituzione esse possono dirsi patologiche solo a partire da una certa intensità, laddove l’isteria e la schizofrenia rappresentano invece patologie qualitativamente complesse e diverse. Ma basta l’intensità di un affetto a qualificare una patologia e quale limite diamo a questa intensità? Dove finisce il fisiologico e inizia il patologico quando l’oggetto della nostra valutazione è l’Io in difficoltà?  La distinzione fra normale e patologico non è semplice: la questione di sapere da che punto di intensità e di durata uno stato depressivo deve essere curato è legato anche alla soggettività del medico piuttosto che ad una precisa linea di demarcazione.

 In tal senso può l’antidepressivo assolvere il compito di prova farmacologica, nel momento in cui determina o meno un miglioramento dei sintomi?

Calmare l’angoscia senza sedare, stimolare senza euforizzare, correndo rischi ridotti di assuefazione: ecco la rivoluzione promossa dai nuovi farmaci antidepressivi che sta cambiando la psichiatria e la medicina in generale.

Si è consolidato il concetto che gli psicofarmaci sono sostanze relazionali, che consentono ai malati di confrontarsi con i loro conflitti, ma il rischio è anche quello di un ridimensionamento della figura del medico, da esploratore dell’animo umano a dispensatore di farmaci.

Può quindi cambiare la figura del medico, ma anche la nozione di persona che muta in modo strettamente connesso con le nozioni di benessere, consumo, mobilità sociale.

Il problema della recidività e della cronicità degli stati depressivi.

Gli innumerevoli lavori scientifici sulla depressione ci dicono che il 50 % degli episodi depressivi hanno una ricaduta nell’arco di due anni: fra questi circa l’80% ha un terzo episodio. Aggiungo che il 20% degli episodi cronicizzano e un altro 20% sono resistenti alla terapia. Il 75% dei pazienti non ritrovano l’equilibrio psicologico precedente.   

Non solo entra in crisi l’idea di conflitto, ma anche l’idea di guarigione, laddove il numero di coloro che si considerano o sono considerati malati, come abbiamo detto, è considerevolmente aumentato negli ultimi decenni.

Da tutto ciò si è fatta strada la consuetudine di allungare i tempi di somministrazione del farmaco, favoriti anche dalla maneggevolezza e dalla scarsità di effetti collaterali. Ma, alla luce di tutto ciò ci si interroga se considerare più realistico parlare di guarigione o di semplice remissione. E quindi una eventuale assunzione a vita della terapia farmacologica, in particolare degli antidepressivi, per tentare di mantenere un precario equilibrio psichico costituisce una soluzione pragmatica e razionale?  Il problema della durata del trattamento resta ad oggi affidato più all’intuizione clinica dello specialista che a veri e propri protocolli.

E’ proprio la tendenza alla cronicità a determinare un altro rivoluzionario cambiamento nell’orientamento della psichiatria, cambiamento che tende a sostituire la nozione di guarigione col tema della qualità della vita.  Non interessa applicare un giudizio di guarigione, ma vigilare sulla ricomparsa dei sintomi.

Gli antidepressivi diminuiscono l’insicurezza identitaria della persona tendente ad avvertire la propria insufficienza cronica e quindi stabilizzano i comportamenti, rendendoli il più possibile adatti ad una convivenza con il sé e con l’altro. Per dirla con un concetto ormai desueto, sono quindi anche farmaci antinevrotici: tengono a distanza i conflitti.

Tale indistinzione nell’ampliamento delle indicazioni degli antidepressivi e l’uso ormai consolidato e diffuso che ne fanno i medici di famiglia, pone un altro problema: esiste il rischio che gli antidepressivi finiscano per essere un aiuto domestico. Nel momento in cui tutti i medici e non solo gli psichiatri sono in grado di maneggiarli, perché semplici e sicuri da prescrivere,  c’è il rischio che si vada verso una banalizzazione del disagio psicologico e con esso di tutta la psichiatria? Oppure legittima a intervenire i medici di famiglia che sono in prima linea nel rapporto con il paziente e perciò in grado di cogliere precocemente i cambiamenti nel suo Habitus psicologico, di conoscerne le modalità reattive a fronte di ostacoli veri o presunti nella vita quotidiana?

In conclusione mi stava a cuore fissare alcuni spunti di riflessione che fanno parte della mia esperienza, ma credo possano interessare tutti:

  • gli SSRI sono la prima generazione di farmaci che agiscono sia sui sintomi classici della depressione sia sul deficit dell’azione che allarga il concetto di depressione.
  • Rimane il quesito e la scelta conseguente se gli antidepressivi devono limitarsi al trattamento delle malattie o estendersi alla modifica dei comportamenti, vista la capacità di agire anche su questi, ma soprattutto accettata la rilevanza che i comportamenti hanno nella società contemporanea.
  • Quest’ultima opzione potrebbe eludere il necessario confronto del paziente con i suoi eventuali conflitti, che rimangono sospesi, considerando anche che la stessa psicoterapia, in genere ad indirizzo cognitivo- comportamentale, sembra essere più ancella e potenziatrice della terapia farmacologica, quasi fosse limitata a garantire l’aderenza alla terapia.
  • Infine, se l’obiettivo terapeutico è il mantenimento della remissione dei sintomi di un processo sempre in atto, allora non si guarisce, si resiste. E visto che gli SSRI sono più adatti a contenere i comportamenti disfunzionali, le insufficienze dell’individuo, il loro uso sarà sempre più diffuso, ma la guarigione diventa un compromesso.

ENRICO IENGO

https://spazioliberoblog.com/