IL MALE DI VIVERE E LA GUARIGIONE COME COMPROMESSO – (Parte 1)
di ENRICO IENGO ♦
Alessandro aveva 32 anni, si era presentato per una valutazione psichiatrica perché al lavoro “arrancava” sempre di più. Quando non era riuscito a portare a termine un progetto molto semplice il suo capo aveva espresso una certa preoccupazione. Alessandro si era giustificato sostenendo che era distratto da problemi familiari, ma il suo dirigente aveva risposto che a lui la situazione sembrava seria e ciò portò Alessandro a consultare il proprio medico e, su consiglio di questi, uno psichiatra. Durante la seduta Alessandro chiarì che seppure era vero che le difficoltà sul lavoro erano iniziate dopo la separazione con la moglie, questa separazione era stata vissuta con sollievo, perché il rapporto con la moglie era stato sempre difficile ed inoltre recentemente si era sentito molto attratto da una collega. Sollecitato da domande più specifiche, Alessandro aveva riferito altri sintomi, tra i quali apatia e mancanza di energia; per esempio era stato sempre un assiduo sportivo con l’hobby del tennis, ma negli ultimi mesi frequentava raramente i campi. Inoltre il suo capo spesso lo riprendeva perché andava al “rallentatore”. Alessandro sosteneva di non sentirsi triste, né di avere cambiamenti del sonno o dell’appetito o sentimenti di autosvalutazione o di colpa e pensieri di morte. Nonostante l’assenza di importanti sintomi che caratterizzano la depressione, lo psichiatra concluse che il quadro descritto da Alessandro era abbastanza vicino a quello di una depressione, tanto da meritare un trattamento con antidepressivo associato con una psicoterapia breve. Nel giro di poche settimane Alessandro risolse i suoi problemi e tornò al livello di funzionamento abituale. Durante la psicoterapia non emersero elementi indicanti la presenza di altri sintomi depressivi, ma lo psichiatra continuò ad essere convinto che le difficoltà di concentrazione del paziente fossero un segno e sintomo di una condizione molto simile alla depressione maggiore.
Il termine depressione è usato frequentemente per riferirsi ad una modifica del tono dell’umore; la sua patogenesi è multifattoriale, cosa che rende difficile la classificazione diagnostica con conseguente molteplicità dei sistemi nosografici di riferimento. L’eterogeneità si estende alle cause e alle interpretazioni psicodinamiche. E’ negli ultimi decenni del ventesimo secolo che la depressione assurge a disturbo mentale più diffuso nel mondo, fino a diventare responsabile della maggior parte delle difficoltà che incontriamo nella vita quotidiana: stanchezza, difficoltà a “fare”, anedonia, insonnia, ansia. Il suo “successo”, l’ampio uso di questo termine in chiave diagnostica, trasformano la depressione in un disturbo tollerato dal punto di vista sociale e suggeriscono che negli ultimi anni è cambiata l’individualità, mutamento legato strettamente alla società contemporanea, con Il ruolo della stampa e dei social teso a determinare una crescente domanda di cura: si assegna così un posto sociale alla vita interiore.
Parallelamente a questi mutamenti nosografici e sociali si assiste ad una progressiva trasformazione della psichiatria soprattutto nella sua storica funzione ermeneutica (fenomenologica e psicanalitica).
Il prodigioso progresso delle neuroscienze (della biologia molecolare) in quest’ultimo mezzo secolo trascina con sé l’affermarsi di una farmacopsichiatria che inevitabilmente mette in crisi la psichiatria dell’ascolto e del dialogo, in altre parole dell’interpretazione “maieutica”; l’importante è cancellare con i farmaci antidepressivi, come vedremo in seguito ben tollerati e quindi sicuri, ogni sorta di condizione depressiva o ansiosa. Se, come si sostiene, un’aspirina fa più male di un antidepressivo, perché non prescrivere questo con la stessa frequenza e “leggerezza” con le quali si prescrive l’aspirina?
Ma ansia e tristezza possono essere dotate di un senso che va cercato e non “soffocato” con la farmaco terapia. E’ così che la psichiatria “biologica” (molecolare), nel contrapporsi alla storica svolta Jaspersiana (fenomenologica), rischia di dissolvere quella idea di psichiatria intesa come osservazione delle immagini interiori della sofferenza, come ricerca di un orizzonte di senso da parte dell’individuo, con la prospettiva di una gestione del disagio mentale sempre più omologato e indifferenziato.
I farmaci sono un indispensabile strumento di cura al fine di smorzare, tamponare, lenire e spesso risolvere condizioni di disagio che sfociano nella sofferenza: quindi nessun anatema, ma rischiano di essere l’unico strumento di cura in mano a specialisti, che in mezzo agli affanni della salute pubblica, deresponsabilizzano il loro ruolo e offrono una soluzione mirata alla rapida scomparsa dei sintomi, ma con il rischio della cancellazione del vissuto emozionale.
Un’altra riflessione dagli spiccati risvolti sociali è che oggi, come dimostrato nel caso clinico presentato, non è la tristezza l’elemento necessario a fare diagnosi di depressione, ma sempre più spesso la triade astenia, insonnia, ansia, che sono una risposta comportamentale e affettiva alla incessante trasformazione che impronta la quotidianità della società postmoderna Questi sintomi rappresentano quadri clinici interpretati come depressione. Il depresso che consulta il medico talora si mostra triste, affranto, ma altre volte semplicemente si trascina a fatica e chiede di essere aiutato a ritrovare la sua energia psico-fisica.
Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, noto anche con la sigla DSM è uno dei sistemi nosografici per i disturbi mentali o psicopatologici più utilizzati da psichiatri, psicologi e medici di tutto il mondo, sia nella pratica clinica sia nell’ambito della ricerca. La primitiva suddivisione della depressione in tre aree tematiche, ancorate ad una diversa patogenesi: la depressione reattiva, la depressione nevrotica e la depressione endogena o psicotica (la prima è legata a esperienze vissute psicotraumatiche e a condizioni ambientali che insorgano acutamente; la seconda è legata alla presenza di situazioni conflittuali, per lo più delineate nell’infanzia e solidificate nell’adolescenza; la terza è considerata di natura somatica, “biologica”) viene stravolta dalle ultime edizioni del DSM, che nel tentativo di semplificare il lavoro di diagnosi ed evitare soggettivismi clinici da parte degli psichiatri, suddivide la depressione in due grandi aree: la depressione maggiore e la distimia, distinte fra loro dalla intensità dei sintomi e dalla durata del disturbo depressivo.
Già qui possiamo soffermarci su una importante conseguenza di quanto detto: si passa da una diagnosi interpretativa ad una quantitativa, ove si dà maggiore importanza al sintomo piuttosto che alla causa. Rispetto ad una psichiatria precedente, si sacrificano la descrizione e l’analisi dei vissuti dei pazienti, della loro soggettività e della loro interiorità e conseguentemente la relazione, il dialogo interpersonale, volti a superare le barriere difensive di una solitudine autistica.
Sul moderno cambiamento del concetto di depressione spiegava Ehrenberg alla fine del XX secolo: “La trasformazione del concetto di depressione, avvenuto negli ultimi 50 anni si accompagna alla progressiva liberazione dell’individuo da norme sociali che inquadrano comportamenti individuali e il diritto di scegliere entra prepotentemente nel rapporto individuo- società e nel costume sociale. Al vecchio senso di colpa borghese e alla lotta per liberarsene (l’Edipo) viene sostituito l’idea che tutto è possibile, ma anche il timore di non essere all’altezza, con l’angoscia che ne risulta (Narciso). La società contemporanea, a giudizio di molti psicanalisti, è responsabile della svalutazione collettiva dell’Edipo, cioè del padre nella sua funzione simbolica di garante del distacco fra il bambino e la madre e si entra così nell’età moderna della depressione: il soggetto malato dei propri conflitti cede il passo all’individuo bloccato dalla propria impotenza” (A.Ehrenberg: “la fatica di essere se stessi”).
In questo quadro il soggetto diventa disfunzionale, insufficiente; in una cultura della performance e dell’azione (guai a non essere in ogni momento all’altezza), l’inibizione è il nuovo male da curare. L’individuo è istituzionalmente chiamato ad agire ad ogni costo, in base alla spinta a fare ciò che è possibile fare e non ciò che è permesso: l’insufficienza costituisce l’aspetto fondamentale del senso di impotenza e di incapacità dell’Io su cui si basa l’interpretazione psicodinamica della depressione. La disfunzione dell’azione come alternativa al vuoto interiore.
A confermare in parte quanto detto, è interessante notare che la depressione si presenta come un frutto dell’abbondanza e non della miseria: essa cresce paradossalmente nei periodi di crescente benessere e di ottimismo generalizzato, in una società dinamica, ove conta soprattutto la capacità di essere produttivi.
E’ in questo contesto che si sviluppa in modo vertiginoso l’offerta farmacologica, che acquista sempre più il ruolo di risposta ad una supposta insufficienza dell’individuo, ma anche alle sollecitazioni di una società che non può aspettare e che lascia indietro chi non è competitivo.
Dalla fine degli anni 80 si è verificata una rivoluzione in campo farmacologico: sempre nuove molecole sono state utilizzate per la cura della depressione e delle psicosi, con la caratteristica di essere farmaci ben tollerati, con scarsi e poco rilevanti effetti collaterali e adatti ad essere utilizzati per tempi lunghi, considerando anche l’assenza di fenomeni di tolleranza e dipendenza. Proprio il fatto di non provocare dipendenza non li rende assimilabili a droghe di abuso.
Fra questi sicuramente i farmaci antidepressivi che aumentano la disponibilità di serotonina a livello delle sinapsi (SSRI) sono quelli più usati.
Vedremo nella seconda parte le implicazioni etiche, sociali e scientifiche insite nello sviluppo della moderna farmaco-psichiatria.
ENRICO IENGO
l’uomo è l’unico essere che rifiuta di essere ciò che è. Non si chiede di vivere ma si chiede le ragioni di vivere. Così Camus.
Il suicidio è un atto di superiorità: io posso farlo, Dio no!! Così Cioran.
Noi viviamo nell’era del vuoto. La società produce depressione e le cure per i sintomi: un successo produttivo.Mi debbo fermare e continuo dopo…..
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Un contributo chiaro e suggestivo che, per un verso, aiuta a liberarci dall’uso improprio (e spesso indebitamente estensivo) della nozione di depressione, mentre dall’altro sollecita una riflessione a vasto raggio che coinvolge modelli sociali e paradigmi culturali non riducibili all’ambito clinico.
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Riprendo con la calma che è alfine subentrata.(sono in campagna elettorale).
Un tempo la melanconia era riservata al genio. La bile nera, la melancholia, ha fatto la ricchezza degli artisti e, come derivazione, il successo dell’iconologia.
Poi avvenne l’era romantica dello spleen: il furore di vivere in lotta con il pensiero maledetto di Baudelaire e Poe.
Tutto così drammaticamente meraviglioso fino a che la noia,del nichilismo non subentrò.
Ma ancora qualcosa di culturalmente degno aleggiava.
Dovevamo toccare il fondo con il vuoto del momento ove la depressione regna sovrana: imbecilli felici, intellettuali depressi !!
Come ho già detto tutto si tiene: la depressione indotta dal consumismo ottiene il suo farmaco dall’apparato produttivo che stimola il consumismo.E’ la grande “democratizzazione” del mal di vivere. Finalmente tolto al genio e diffuso al popolo consumista.
Eppure il mal di vivere pur se trasformato in un bene vendibile riesce ancora a rappresentare per alcuni (sempre più in numero ridotto) la vera consistenza del vivere. Che sarebbe la vita senza questa possibilità., L’upmo è tale perchè dubita. Dubita del senso della vita. Non riesce, nonostante tutto ad essere imbecille ad assumere un sorriso ebetale di fronte all’esistenza.
del mal di vivere
In questo senso il mal di vivere non potrà mai essere una patologia ma è la reazione al non senso del vivere.
Caro Enrico, come tu ben capirai da queste poche e confuse righe io traggo tutto da Binswanger.e di Assagioli per l’Italia.
L’alienazione del Dasein è la causa essenziale ed ogni possibilità di cura non potrà mai prescindere dall’autenticità del vivere.
Ti ringrazio per avermi stimolato. Vorrei scrivere qualcosa ma già l’articoletto di oggi verte su questo, in un certo senso.
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caro Carlo, come al solito apri orizzonti vasti e riflessioni profonde intorno al senso della vita, al significato del vivere che non sono solo a commento di quanto ho scritto, ma integrano e completano il mio pensiero.
Aggiungo solo che nel mio contributo, in relazione al cambiamento dell’individualità e della società, ho voluto focalizzare anche la moderna ragion d’essere e la natura della psichiatria. Il rischio è che se questa viene circoscritta e diventa ancella delle neuroscienze, perde senso e significato la vita psichica e le funzioni psichiche. Con una conseguenza fondamentale: l’impossibilità di avvicinarsi alla vita lacerata dall’angoscia e dalla sofferenza senza un dialogo che trasformi contemporaneamente sia chi parla sia chi ascolta in un contesto ermeneutico e fenomenologico. Nel nostro mondo opulento, consumistico e iperproduttivo c’ è ancora posto e tempo per sondare attraverso le emozioni le profondità dell’anima ferita?
Enrico
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