RUBRICA – “BENI COMUNI” – 9. TI CONOSCO, MASCHERINA… Dal “folleggiar della carne” alla follia della guerra, usi e costumi verso la Quaresima… Capitolo 3

Catalogo Documenti Utili: Stralci commentati dalla rivista «VU», IIIe année, n° 152, Numero special La prochaine guerre, 11 février 1931 (traduzione e commenti di Francesco Correnti, 2022) e notizie sulla rivista tratte da De Berti, Raffaele, Il nuovo periodico. Rotocalchi tra fotogiornalismo, cronaca e costume, Milano 2009.

a cura di FRANCESCO CORRENTI

Nell’immagine di copertina di questo terzo capitolo della rubrica dal titolo Ti conosco, Mascherina…, lo vedete, ho voluto dare agli amici del Blog una sintesi visiva sommaria di alcune accezioni del termine: da sinistra, il bel sorriso e lo sguardo seducente, coperto da una veletta trasparente, d’una ipotetica “Odalisca”, che ha invertito l’acconciatura tradizionale islamica (si tratta di una delle due erme in marmo – e colgo l’occasione per salutare tutto lo staff de L’ERMA di Bretchsneider – che insieme ad altre innumerevoli cose affollavano la casa dei miei), poi la mascherina della réclame d’un profumo degli anni Trenta; sopra, il mio disegno d’uno schermidore con la sua maschera, della serie su tutti gli sport realizzata per le F.D.C. delle emissioni filateliche della Repubblica Italiana per la XVII Olimpiade di Roma 1960; a seguire, il Mascherone di bronzo superstite dei dieci fusi da Jacopo dell’Opera o delle Corniole (penso su disegno di Antonio da Sangallo il Giovane) in onore di Leone X de’ Medici e posti nel 1519 nella Darsena di Civitavecchia, ripreso dal pannello della grande mostra del 2001 allestita in Giappone, a Ishinomaki; e infine, la ricca armatura giapponese da samurai di tipo tatami gusoku con maschera di tipo resseimen in lacca rossa (shuurushi). Per quanto riguarda il Mascherone – la bitta d’ormeggio a protome leonina, per intenderci –, preziosissimo ed al momento unico esemplare che appartiene al Comune (l’ho recuperato io stesso dai magazzini della Soprintendenza in cui giaceva dal tempo del suo ritrovamento tra le macerie, firmandone la ricevuta per custodirlo con gli altri beni artistici mobili comunali, dopo accurato restauro, ed esponendolo in diverse manifestazioni internazionali), vedo che attualmente è abbandonato (Che ci faccio qui?) nell’atrio della sala conferenze “Francesco Nerli” dell’Autorità di Sistema Portuale al Molo Vespucci (Prato del Turco, secondo la topografia d’antan), in condizioni di sicurezza del tutto inadeguate. È assolutamente necessario ed urgente che l’opera d’arte venga con immediatezza restituita al Comune e custodita, con la cura e gli accorgimenti prescritti, nei locali dell’Infermeria Presidiaria, come previsto dal progetto UCITuscia del 2018, dove potrà essere reso fruibile dal pubblico, insieme ad altri importanti beni oggi non valorizzati.

Proseguendo, adesso, in questa rievocazione dei ricordi di fatti e di immagini che risalgono ad anni precedenti lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, l’ultima che ha riguardato il nostro Paese (e non voglio aggiungere altro), devo dire che quella occhiaie vitree e quel boccaglio della “Pirelli 35” – pur assomigliando anche alle maschere ed agli occhiali da sub e, quindi, associabili a momenti sereni di svago e di vacanza – nella mia mente evocavano con insistenza un’altra immagine, ben radicata nel mio archivio psicologico.

Una immagine inquietante, che ho memorizzato nel suo contesto da bambino, a cinque o sei anni, per cui mi rivedo con mio padre a casa nostra, la seconda dei miei genitori a Roma, nel suo studio-biblioteca, ad ascoltare le sue spiegazioni, guardando la rivista di grande formato poggiata sulla scrivania, uno dei tanti ricordi degli anni vissuti da loro in Francia. Una immagine che nel mio catalogo mnemonico è classificata come «Arc de Triomphe» ma con la particolarità di tutte quelle facce drammaticamente coperte dalle maschere, con le occhiaie scure ed un terzo cerchio, il “boccaglio”, simile proprio ad una bocca spalancata e urlante. Una bocca – allora di certo non lo sapevo – come la O (ma quella è più allungata) della bocca dell’individuo “disperato”, dipinto da Edvard Munch, tra il 1893 ed il 1910, nelle varie versioni di quel quadro, noto da noi come L’urlo, che ricorda una maschera anche nella forma arrotondata del cranio.

È proprio di queste ore il dubbio o i timori sul possibile uso di aggressivi chimici e di gas asfissiante nella guerra in corso in Ucraina. Per l’Italia, questo non è un tema nuovo, che se non ci ha visto precursori e pionieri, ha trovato frequenti sperimentazioni nelle guerre d’Africa in violazione dei trattati internazionali (il fosgene e l’iprite di Graziani e di Badoglio), in cui l’avvelenamento dell’aria attraverso l’immissione di gas o di sostanze urticanti o di altro tipo (gelide, bollenti, colorate e così via, a seconda delle circostanze e della tossicità, con gli antenati dell’olio bollente e di altre difese “piombanti” dalle caditoie dei castelli) trova nella maschera una protezione “respiratoria” che, naturalmente, viene indossata, per primi, da coloro che spargono il veleno, così come dovrebbero fare gli agricoltori quando avvelenano gli animaletti parassiti sulle piante da frutto. Ora, la maschera introdotta appunto a protezione delle truppe soprattutto durante la prima guerra mondiale, aveva anche un aspetto “orripilante”, che poteva incutere terrore in atmosfere annebbiate ed in momenti di grande tensione, in maniera del tutto simile ai criteri ispiratori di certi elmi antichi e medievali e delle maschere dei samurai. A parte questi metodi di offensiva bellica, ad avvelenare l’aria per finalità diverse, legate sempre in vario modo a profitti illeciti, provvede da tempo il cosiddetto progresso e questo è uno degli aspetti più assurdi del nostro mondo, perché rendiamo irrespirabile proprio quell’aria che ci dà vita, che è l’ambiente di vita ed è la nostra stessa vita. La maschera da sub, la tuta da sommozzatore, lo scafandro e l’elmo indossati dal palombaro per il suo lavoro sono attrezzature che risalgono all’inventiva di Leonardo da Vinci, che ha così anticipato pure quello che poi è stato il casco con respiratore del pilota supersonico e la tuta spaziale degli astronauti. Ma questi accorgimenti per respirare in ambienti ove le condizioni non sono favorevoli alla vita umana e degli esseri viventi in genere, avrebbero dovuto farci capire da molto tempo gli errori commessi verso il nostro ambiente di vita. Sapere della presenza nell’aria di virus respiratori micidiali e spesso mortali, mi ha fatto sentire come un pesciolino rosso fuori dal suo acquario o come altri esseri acquatici spiaggiati e soffocati fuori dal liquido adatto alle loro branchie.

Certo è che riflettendo sul tema dell’atmosfera e del nostro ambiente di esseri respiranti, l’aver avvelenato questa atmosfera, averla resa irrespirabile in modo palpabile, addirittura visivamente palese – ho visitato alcuni centri inquinati da industrie insalubri e sono sbarcato di sera all’aeroporto internazionale “Indira Gandhi” di Nuova Delhi – è prova della furbizia imbecille dell’uomo, che si è candidato a prossimo dinosauro, oramai pronto non per l’estensione del proprio habitat ma per l’estinzione della propria specie. Fatte salve altre modalità di sterminio che possiamo considerare non del tutto improbabili.

Fondo di documentazione archivistica e bibliografica sul tema “Beni Comuni” – CDU / Catalogo Documenti Utili: Stralci commentati dalla rivista «VU», IIIe année, n° 152, Numero special La prochaine guerre, 11 février 1931 (traduzione e commenti di Francesco Correnti, 2022) e notizie tratte da De Berti, Raffaele, Il nuovo periodico. Rotocalchi tra fotogiornalismo, cronaca e costume, in De Berti, Raffaele – Piazzoni, Irene (a cura di), Forme e modelli del rotocalco italiano tra fascismo e guerra, Milano, 2-3 ottobre 2008 (Università degli Studi di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, Quaderni di Acme, 115), Cisalpino – Istituto Editoriale Universitario – Monduzzi Editore, Milano 2009.

Il numero speciale della rivista di cui ho sempre ricordato le immagini davvero inconsuete e che ho ritrovato nel mio studio, messa da me, anni fa, in qualche modo in evidenza (cioè non insieme alle altre del genere, nel loro armadio), nella grande cassettiera dei disegni e delle stampe – l’ultimo cassetto in basso, il decimo, con i poster e i manifesti –, è del febbraio del 1931. Sono anni instabili da ogni punto di vista: i problemi del dopoguerra sono di natura politica, economica, sociale, anche psicologica per gli individui e per le masse. Conflitti tra gli Stati, lotte interne per il potere, disoccupazione, rivolgimenti sociali agitano la scena internazionale, mentre regimi dittatoriali si sono instaurati in varie nazioni, segno della grave crisi della democrazia di fronte ai nuovi problemi generali. Anche in Francia, dove le rivolte arabe in Marocco e in Libano hanno avuto ripercussioni sulla stabilità del governo, con il susseguirsi di gabinetti di breve vita. La rivista «Vu» (Visto), settimanale d’avanguardia di recente fondazione (è al terzo anno di vita) che esce il mercoledì, si interroga sulla situazione e tenta di dare delle risposte in modo molto innovativo. Fin dal titolo, La prochaine guerre, “la prossima guerra”, è evidente il taglio anticonformista con cui viene affrontato un argomento così spinoso. Un taglio anche molto concreto, che organizza la trattazione e concepisce le illustrazioni con grande senso della realtà, anzi con la crudezza senza finzioni (potremmo dire qui, senza la maschera dell’ipocrisia) imposta dalla esperienza tragica dei quattro anni del conflitto mondiale più sanguinoso della storia e dalle asprezze degli avvenimenti successivi o anche contemporanei, come la “Rivoluzione di Ottobre” del ’17 in Russia. Mi allarma, non poco, il parallelismo di certi eventi tra la situazione di allora e quella nostra attuale, la terribile somiglianza di alcune immagini…

Gli articoli introduttivi della rivista sono eloquenti. L’editoriale di aperura, Que serai une guerre? – Cosa [e come] sarà una guerra? – di Paul Painlevé ipotizza nuove armi “elettriche” e forze internazionali di dissuasione. È Bertrand de Jouvenel (Parigi 1903-1987), filosofo, politico ed economista, “fondatore della futurologia moderna”, a tracciare la prefazione allo svolgimento del tema:

«L’Europa ha cambiato faccia. Ecco la carta del 1913, poi la carta del 1930. Otto giovani Stati sono nati: tinte nuove in mezzo alle macchie di colore, allargate, ristrette, deformate che raffigurano le differenti potenze. I tre imperatori sono scomparsi: il Russo, il Tedesco, l’Austriaco. Lo storico si china sulla nuova carta e, abituato a vedere, attraverso i secoli, queste zone rosa, rosse, bistro, gialle raccorciarsi od estendersi, secondo il buono o il cattivo esito delle guerre e dei trattati, si chiede: “Quanto tempo reggerà tutto questo?” Già, dopo il 1919, abbiamo avuto l’annessione di Fiume da parte dell’Italia, l’attribuzione d’una parte dell’Alta Slesia alla Polonia, la riannessione da parte della Turchia di certi territori che gli erano stati tolti. Piccoli ritocchi di pennello sulla carta. Vedremo dei grandi rivolgimenti? È molto probabile.

«Si è detto dei negoziatori di Versailles che si erano accontentati di far passare l’ingiustizia da un piatto della bilancia all’altro. Così, nel 1914, 2 milioni e 900 mila Rumeni vivevano sotto il giogo ungherese. Nel 1930, 2 milioni di Ungheresi vivono sotto il gioco rumeno. Prima della guerra, i Polacchi si lamentavano della dominazione russa.

«Adesso, gli Ucraini e Russi Bianchi [Bielorussi] si lamentano della dominazione polacca. La Francia non riusciva a dimenticare la perdita dell’Alsazia-Lorena. Come farà la Germania a dimenticare la perdita del “colore polacco”, quando i suoi cittadini, per andare da una città tedesca ad un’altra città tedesca, sono obbligati a passare in territorio straniero? Alle ferite antiche, spesso chiuse a metà, i trattati hanno posto rimedio, facendo delle ferite fresche».

Seguono poi le “previsioni” sugli aspetti catastrofici delle distruzioni belliche delle principali capitali europee, descritti a parole e illustrati con vedute agghiaccianti. Queste per Roma:

«Bombardamento di Roma. Risparmiata dapprima per uno scrupolo d’arte, Roma come le altre capitali perisce. Le squadre jugoslave non hanno potuto resistere alla tentazione della rappresaglia e le rovine della civiltà romana spariscono per sempre, distrutte dalla mitraglia, dai gas e dagli incendi. (Il montaggio e i trucchi fotografici di questo numero sono di A. Noël).»

Dal saggio di Raffaele De Berti sopra citato, trascrivo alcune notizie sulla rivista francese che ne illustrano bene le caratteristiche, eccezionali, anzi sorprendenti per l’epoca:

«Anche in Francia la tecnica del fotomontaggio è molto utilizzata, per esempio da “Vu” per copertine a colori di grande impatto visivo, anche a fini di critica politica [All’interno di questa straordinaria rivista, stampata con la tecnica del rotocalco, si usa molto il viraggio delle fotografie nelle tonalità seppia e bluette.

Per approfondimenti su “Vu” si rimanda a Michel Frizot – Cédric De Veigy (a c. di), Vu. Le magazine photographique 1928-1940, Paris, Èditions de La Martinière, 2009]. La rivista è fondata e diretta da Lucien Vogel dal primo numero del 21 marzo 1928 fino al 1936 quando, a causa della decisa presa di posizione a favore dei repubblicani spagnoli nella Guerra Civile, Vogel viene costretto dai propri finanziatori conservatori a ritirarsi. Il settimanale, che in precedenza si era, comunque caratterizzato per le posizioni progressiste (in particolare a partire dal 1931), continua a uscire fino al 5 giugno 1940 quando cessa la pubblicazione. Il titolo stesso della rivista, “Vu”, che arriva a tirature fra le 300.000 e le 450.000 copie, fa intuire la volontà di dare grande rilevanza alla fotografia tanto da ridurre il testo, in molti casi, a semplice commento a quanto raccontano le immagini. Nell’editoriale del primo numero Vogel scrive che “Vu” nasce con lo scopo di dar vita un innovativo settimanale francese illustrato che trasmetta al lettore il ritmo frenetico della vita contemporanea, interessandosi a tutti gli argomenti di attualità: dai fatti politici alla cronaca, dalle scoperte scientifiche allo sport, dalla moda allo spettacolo [Cfr. Whelan, Robert Capa, pp. 38-42]. All’uso dei fotomontaggi si associa una impaginazione molto dinamica – che risente della grafica sovietica e d’avanguardia – spesso giocata sull’uso della doppia pagina, che si accentua in particolare a partire dal 1932, quando a occuparsene è chiamato come direttore artistico Alexandre Liberman, che aveva lavorato con Adolphe Cassandre (autore del logo di “Vu”). Alla rivista collaborano importanti fotografi, oltre allo stesso Vogel e alla figlia Marie-Claude, come Brassaï (Gyula Halász), André Kertész, Henri Cartier-Bresson, Germaine Krull, Eli Lotar, Man Ray e Robert Capa, che su “Vu” pubblica per la prima volta il 23 settembre 1936 la celeberrima e tanto discussa fotografia del miliziano spagnolo repubblicano colpito a morte. Dai nomi dei fotografi citati, cui spesso vengono commissionate vere e proprie storie fotografiche, si può facilmente intuire come il settimanale unisca uno stile modernista d’avanguardia a una forte propensione per il reportage. Straordinari documenti storici rimangono alcuni numeri monografici, realizzati a più mani da fotoreporter e giornalisti, dedicati ora a inchieste sull’Unione Sovietica (nel 1931 con il titolo Au pays des Soviets), ora alla complessa situazione politica tedesca nel 1932 (il titolo in copertina è L’Enigme allemande) e all’Italia fascista (1933). Proprio su quest’ultimo numero possiamo leggere un’intera pagina dedicata al bilancio delle grandi inchieste sui problemi del mondo condotte da “Vu” con una redazione mobile […].

Ma per chiudere il capitolo, anticipo che nel prossimo daremo un’occhiata divertita agli elmi tardo medievali, in cui la funzione difensiva e quella di spaventa- non passeri ma nemici era ottenuta in maniera del tutto simile alle maschere dei samurai e con richiami a quelle degli attori, quasi a voler ribadire che la guerra e il teatro hanno molte affinità e in effetti il teatro della guerra e un pessimo palcoscenico della imbecillità umana: l’homo hominis lupus, come è implicito nella stessa frase, è la dimostrazione più lampante che l’uomo non è assolutamente l’essere razionale e “diverso” che vorrebbe far credere, pessimo anche come conoscitore delle altre specie.

FRANCESCO CORRENTI