Cosa dimentichiamo quando parliamo di foibe

di VALENTINA DI GENNARO

Nel solco della riflessione che si è inaugurata, anche su questo blog, riguardo la necessità di inserire elementi di complessità in un dibattito pubblico che si fa sempre più asfittico, una doverosa attenzione va alla comunicazione mediatica  sul “Giorno del ricordo.”.

Il 10 febbraio è stato da anni insignito della denominazione di “Giorno del ricordo” per ricordare le vittime delle foibe.

Questa data, in Italia soprattutto, è foriera di una serie di iniziative e commemorazioni che spesso hanno basi storiche ambigue e strumentalizzate da parte della propaganda neofascista.

Con il termine  “foibe” ci si riferisce essenzialmente a due eventi differenti, con dinamiche e modalità diverse: il primo è direttamente successivo  all’armistizio dell’8 settembre 1943 e riguarda sostanzialmente  l’Istria, il secondo è la conseguenza della presa di potere da parte dei partigiani e dell’Esercito Popolare Jugoslavo nel maggio del 1945.

Nella presa di controllo del territorio, occupato fino a quel momento dalle forze italiane, da parte della popolazione locale, ci furono indubitabilmente anche esecuzioni sommarie, ma va tenuto in considerazione come queste rappresentarono una risposta ai crimini italiani nella regione che proseguivano da un ventennio.

“Italiani, brava gente!”

Molti studiosi invece riconoscono che nel momento di sfaldamento dell’autorità seguente all’8 settembre 1943 si verificò una sorta di rivolta contadina, contro coloro che avevano detenuto il potere fino ad allora. L’insurrezione istriana del 1943 ha poco a che fare con l’italianità o meno delle vittime, visto che erano italiani anche molti degli insorti.

“La violenza insurrezionale si rivolse contro la locale classe dirigente considerata compromessa con il fascismo e contro i possidenti”

 (Piero Purini, Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria, Kappa Vu, Udine 2014, pp. 192-193).

Omettere nella narrazione storica  il racconto delle deportazioni fasciste nella regione, induce all’errata conclusione  che gli italiani vadano considerati come vittime e basta.

Le violenze nazifasciste non furono certamente inferiori a quelle degli jugoslavi, anzi. La popolazione civile di Trieste e della Venezia Giulia subì rappresaglie pesantissime per le azioni dei partigiani sul territorio.

L’entrata dei partigiani a Trieste nel maggio del 1945 significò soprattutto la liberazione degli internati della Risiera di San Sabba: l’unico campo di concentramento nazista ora in my territorio italiano dotato di forno crematorio.

Non si può, per onore storico, minimizzare la violenza del post-liberazione, alla base della quale vi erano la vendetta per le passate atrocità nazifascisti, anche sicuramente regolamenti di conti personali, oltre alla volontà di attuare includendo interrotti di Trieste nella Jugoslavia socialista.

Denunciare gli aspetti repressivi del regime jugoslavo ha ovviamente un senso, diverso e, invece, mettere sullo stesso piano la vendetta del movimento partigiano con la violenza

ben più gratuita e massiccia dei nazifascisti, responsabili del tentativo di bonifica etnica durante il regime di Mussolini e della violenza perpetrata sotto il governatorato della Zona Operazioni del Litorale Adriatico, alla base di quanto accadde successivamente.

Ogni 10 febbraio il dibattito asfittico, caricaturale, da tifoseria, si divide tra  chi non perde l’occasione per raccontare una storia parziale e distorta del confine orientale, spesso basandosi su dati falsi o manipolati dalla propaganda neofascista e quei pochi che vorrebbero un confronto non pesantemente condizionato da omissioni e cesure.

Come per la esperienza del colonialismo in Africa, e quello di cui si macchiarono numerosi nostri concittadini, è più che mai necessaria una serie riflessione sulle responsabilità dello stato italiano anche sul confine orientale a partire dal 1915.

VALENTINA DI GENNARO

Per chi volesse approfondire il dibattito sul revisionismo storiografico in rete, sulle false notizie a tema storico e sulla riabilitazione dei fascismi in tutte le sue varianti e manifestazioni, rimando al lavoro del gruppo  “Nicoletta Bourbaki”. 
Lo pseudonimo collettivo «Nicoletta Bourbaki» è un détournement transfemminista di «Nicolas Bourbaki», maschilissimo gruppo di matematici francesi attivo dagli anni Trenta agli anni Ottanta del XX secolo.