“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI – LE CICLISTE AFGANE
di STEFANO CERVARELLI ♦
…E alla fine sono fuggite. Sono riuscite ad uscire da quello che per loro stava diventando un vero inferno, a fuggire dall’angoscia che oramai si era impadronita di loro, fuggendo anche dal rischio concreto per la loro incolumità perché continuare ad andare in bicicletta avrebbe messo a repentaglio la stessa vita.
Cinque cicliste afgane, vittime come donne e come sportive, del vilipendio, dell’odio e della repressione talebana, da qualche tempo sono al sicuro in Italia.
Sono riuscite, è il caso di dirlo, ad evadere dalla quella “gabbia” le cui sbarre, se pur non di ferro, avevano oramai imprigionato i loro sogni, la loro libertà raggiungendo lo scopo prefisso dai talebani: annientarle come donne e ancor più come atlete, impedire loro qualsiasi tipo di attività che non fosse confacente alla dottrina talebana, meno che mai lo sport.
Ma come è stato possibile? Grazie a chi ?Andiamo con ordine e, premettendo che i nomi usati sono inventati, sentiamo cosa dice Nasrin, vent’anni nativa di una località lontana da Kabul: ”Le ultime pedalate in libertà le ho compiute a luglio dell’anno scorso, in un clima che si era fatto più tranquillo, nessun uomo mi insultava o bloccava più, come spesso avveniva prima; ad un certo punto sono arrivata a pensare che si erano resi conto che il problema maggiore non erano le donne che andavano in bici; il futuro che si prospettava aveva fatto passare in secondo piano persino la voglia di prendersela con noi cicliste; sì, c’era sempre qualcuno che non mancava di manifestare le sue rimostranze contro una donna che andava in bicicletta, ma finiva lì, anche perché devo dire che tanti, sotto l’abbigliamento sportivo, fuseaux, capelli raccolti sotto il casco, occhiali scuri, faticavano a riconoscere una donna!”.
“Anche per noi-continua Nasrin-sopratutto per noi, come donne e ancor più come cicliste, quello che oramai era dato per certo, ossia l’imminente arrivo dei talebani, rappresentava motivo d’ansia e preoccupazione”.
E come poteva non esserlo? Per i talebani la donna che fa sport rappresenta un simbolo di una libertà inconcepibile che non si può assolutamente tollerare, perché può nascondere il germe di una
contagiosità alla quale avrebbero dovuto sempre più opporsi con la violenza, rivelando la loro vera natura e questo certo non avrebbe giovato alla “buona impressione” che vogliono suscitare nell’opinione pubblica mondiale.
Nasrin e le altre cicliste afgane, dopo l’arrivo dei talebani, continuarono per un po’ a fare le loro uscite, ma la situazione stava scivolando pericolosamente; riportare le donne nell’alveo del loro ruolo sembrava costituire per i capi talebani uno degli obiettivi di maggior premura, da raggiungere, con ogni mezzo.
Dice Nasrin: ”Oramai eravamo diventate dei bersagli mobili, vittime delle loro ingiurie, dei loro schiaffi, di lancio di sassi. Io in particolare, avendo vinte delle corse importanti, apparivo sui giornali e sui social, ero divenuta un personaggio pubblico e quindi come tale potevo rappresentavo ai loro occhi un esempio un modello da distruggere, eliminare anche fisicamente”.
Un timore quello della giovane afgana non certo esagerato che trovava fondamento nel fatto che una loro collega, giocatrice pallavolo, Majabin Hakimi, molto brava e quindi molto popolare anche lei, con seguito sostanzioso su twitter, era stata decapitata nella strada!
Ad un certo punto quando oramai la disperazione stava prendendo il sopravvento, per Nasrin e alcune sue compagne, Fardina, Fatema, Shamila e Sabreya, la vita improvvisamente cambia.
Il 24 agosto, quindici giorni dopo l’ingresso dei talebani nella capitale, Nasrin riceve un messaggio sul cellulare: ”Vieni subito a Kabul, forse c’è un volo per l’Italia”.
Il 28 agosto le cicliste e undici familiari atterrano a Fiumicino, al termine di un pellegrinaggio durato alcuni giorni, dopo che a Kabul per solo due ore erano riuscite a scampare all’attentato all’Abey Gate”: ”Dall’interno dell’aeroporto, dove eravamo rifugiate-dicono-sentivamo esplosioni, mitragliate, sembrava un film, stavamo nel terrore”.
Ma come è stato possibile lasciare l’Afghanistan?
Grazie a una catena di solidarietà nata dalla determinata volontà e tenacia di una ex ciclista italiana, Alessandra Cappellotto, delle cui iniziative a favore delle cicliste alle prese con varie difficoltà, avevo fatto riferimento nell’articolo “Le cicliste”.
La Cappellotto, che ora ha 54 anni, è stata la prima italiana a vincere il titolo mondiale su strada, era il 1977 a San Sebastian.
Da anni è sindacalista del movimento femminile internazionale e ha fondato, con la collega Anita Zanatta, un’associazione, la ONG ROAD TO EQUALITY, che ha lo scopo di aiutare ragazze che fanno ciclismo nei paesi emergenti o là dove le ragazze incontrano difficoltà nell’esercitare l’attività sportiva.
Della sua iniziativa a favore delle cicliste afgane dice: ”L’allarme è scattato il 14 agosto. In piena vacanza estiva con la gente pigramente abbandonata sulle spiagge o impegnata con rilassanti passeggiate in montagna; noi trascorrevamo le giornate stando ore ed ore al telefono, a chiedere, a cercare aiuto per tirare fuori da quell’inferno più ragazze possibile.
Risolutivo è stata la risposta alla nostra chiamata, con il conseguente decisivo impegno, del Presidente della Federazione Ciclistica Renato di Rocco; ha immediatamente attivato i suoi contatti politici ed istituzionali, chiamando anche i prefetti che conosceva, il suo scopo per il quale si è molto prodigato, era quello di riuscire a trovare posto sui voli militari”.
Però…però la vicenda ha anche un risvolto umanitario triste, ce lo dice Alessandra Cappellotto.
“Purtroppo proprio con questo, con i posti, abbiamo dovuto fare i conti, bisognava necessariamente operare una selezione, si è trattata di un’operazione molto dolorosa: si son fatte salire le ragazze più giovani con i loro parenti più fragili e anche un neonato”.
Una volta giunti a Fiumicino il gruppo è stato trasferito al campo predisposto dalla Croce Rossa, ad Avezzano, che funge da luogo di prima accoglienza, dopodiché il trasferimento alle case dove vivono”.
Terminata questa prima fase, come posso dire? Di messa in sicurezza delle ragazze e dei loro parenti, iniziava la seconda fase, quella più prettamente sportiva; vero che uscire dall’inferno talebano per le ragazze, era la realizzazione del loro desiderio maggiore, ma ora, una volta poste nella possibilità di svolgere la loro attività sportiva in tutta tranquillità, bisognava pensare a questa: le ragazze desideravano riprendere a pedalare, immergersi prima possibile nella atmosfera delle corse, provare l’emozione, perché per loro questa era, di uscire in bicicletta a viso scoperto, senza nessun timore e andare felici insieme alle loro coetanee.
La Cappellotto e la Zanatta hanno preso contatto con Valentino Villa, industriale e patron della Valcar, la squadra gioiello femminile, dove milita Elisa Balsamo, attuale campionessa mondiale su strada.
Villa ha dato immediatamente la sua disponibilità: ”Per esperienza so quanto una ragazza in difficoltà può trovare aiuto nella bicicletta, nel ciclismo. Non potevo essere certo sordo a questa richiesta”.
La sua disponibilità smaterializza mettendo a disposizione, biciclette, ricambi, allenatori e scorta durante gli allenamenti.
Arrivano aiuti anche dallo Stato che mette a disposizione le case, un piccolo sussidio mensile, scuola e assistenza sanitaria; un ex ciclista Simone Fraccaro, oggi industriale, cuce per le ragazze divise su misura. Nasrin e compagne sono al settimo cielo: costrette com’erano a pedalare con indumenti il cui principale scopo era quello di nascondere il loro genere.
Per loro l’incubo è finito. Nel loro futuro ora non vi è soltanto la bicicletta Hanno dei desideri che sperano di poter realizzare in Italia: Fardina vuole fare la veterinaria, Fatema l’architetta, Shamila l’avvocatessa. Nasrin, ispirata dalle gesta dei suoi due campioni preferiti: Lionel Messi e Peter Sagan (fenomeno slovacco del ciclismo tre volte campione del mondo) vorrebbe dedicarsi completamente allo sport.
Ma tutte hanno un sogno in comune: essere raggiunte dai genitori, dai fratelli, dalle sorelle, che oramai sono costretti a convivere con il perenne pericolo di rappresaglie.
Per ora le ragazze stanno riacquistando il senso della libertà, compiendo tutte quelle azioni quotidiane che per noi sono la normalità. Un senso di conquista della propria vita che le pone in un stato di profonda emozione, specialmente quando hanno ricevuto una video chiamata proprio da Peter Sagan, con la quale dava loro il benvenuto in Italia, definendola la sua “seconda patria” per poi dire: ”Non sapete quanto sono felice che siate in salvo, vi verrò a trovare e potremo pedalare insieme”.
Non è possibile! Non credono alle loro orecchie: esiste un mondo dove uomini e donne possono pedalare insieme!?
STEFANO CERVARELLI
Grazie, Stefano, per averci raccontato questa storia di sport e di umana solidarietà.
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