RITORNO AL FUTURO …
di CATERINA VALCHERA ♦
Mai, come in questo biennio segnato dalla pandemia, si è scritto – e soprattutto parlato- di nuove forme moderne di solidarietà, della responsabilità che ognuno di noi ha nei confronti degli altri, identificati ora come collettività, ora come comunità, ora come cittadinanza. In tutte queste definizioni il richiamo alla societas come dimensione comunitaria necessaria per affrontare una minaccia che non risparmia nessuno, porta sempre con sé la svalutazione dell’istanza individualistica, del sentimento egoistico, del calcolo solo personale. Sospinti dai marosi della pandemia globale ci siamo improvvisamente ricordati che nessuna società può sopravvivere senza la mutua collaborazione dei suoi membri, e, con memoria più biblica, che alla domanda rivolta da Caino a Dio dopo l’assassinio di Abele: ”Sono forse io il custode di mio fratello?”, la risposta unica e irrinunciabile è “Sì”. Bisogna andare indietro di decenni, superare a ritroso gli anni del riflusso e del rampantismo per ritrovare un momento storico in cui la retorica ( nel senso neutro del termine) della responsabilità e dell’obbligo sociale sia stata così praticata e utilizzata nel vivere e nel “conversare” quotidiano. Lezioni più o meno improvvisate di dovere sociale ci vengono oggi impartite da un coro polifonico di varie voci ( medici, giuristi, sociologi, psicologi etc..)attraverso i media, ma anche dalle pagine degli innumerevoli libri che hanno approfittato (absit iniuria verbis) del rischio sanitario per rispolverare e discettare sulle antiche virtù civili. Siamo ogni giorno tormentati da notizie di atroci violenze e da immagini di sofferenza che riguardano profughi, senzatetto, emarginati, precari, sfrattati, umiliati, asserviti, schiavizzati, ma le lezioni di solidarietà e di empatia proseguono imperterrite. Di quale empatia si parla? A detta di Noam Chomsky questo sentimento, almeno nella società americana del nostro secolo/millennio, si è talmente ridotto da aver eclissato il mitico american dream, per il quale individuo e collettività progrediscono beneficiando del reciproco aiuto. Quali virtù- se prescindiamo dalla situazione di rischio attuale- sono in verità più agite nel nostro vivere quotidiano? Quelle dei supereroi che, con le loro strategie di cui sono depositari esclusivi, mirano al raggiungimento del loro personale obiettivo; oppure le virtù dell’altruismo, della generosità servizievole, della cooperazione e della compassione? Queste ultime, sono riconducibili- nella loro forma primitiva- alle caratteristiche empatiche della nostra specie e le hanno permesso da tempi remoti di sopravvivere, grazie alla condivisione di minacce e pericoli. Di queste due c’è sempre un gran bisogno. Anche oggi. Soprattutto oggi. Gli uomini operosi sembrano invece godere delle disgrazie altrui o denigrare senza pietà le altrui difficoltà e inerzie. Il nostro grado di compassione e cooperazione risente di variabili quali la prossimità, la gravità del disastro, lo status sociale della vittima, il rapporto tra beneficiato e beneficiario. D’altro canto la morale naturale non sembra sufficiente a farci superare l’egoismo e il tornaconto personale. La natura, infatti, non ci impone la benevolenza sistematica, ma la cultura può costruirla, anzi ri-costruirla e la ragione stessa dimostrare che a lungo termine l’egoismo non paga e che il nostro bene-essere dipende anche dagli altri. Al mito del buon selvaggio, tanto fantasioso quanto quello del cattivo selvaggio, dobbiamo sostituire quello del buon cittadino globale. Ma dal secolo dei lumi e dai suoi miti umani e sociali dobbiamo attingere proprio il senso delle virtù civiche, riappropriarci della gentilezza che “è un effetto della libertà. Ci si ingentilisce gli uni con gli altri, smussando gli angoli e levigando i lati ruvidi con una specie di amichevole strofinio” e del ridicolo, ossia di “quel criterio di prova grazie al quale individuiamo in ciascun argomento ciò che si deve sottoporre a una giusta ironia” (Shaftesbury, Saggi Morali). Dobbiamo riscoprire la vera affabilità che non è adulazione o desiderio di compiacere l’altro ( sarebbe pari e contraria alla litigiosità che contraddistingue il nostro tempo!). Mettiamoci alla prova. Nel suo Piccolo trattato delle grandi virtù André Comte Sponville, senza distinguere tra pubblico e privato, fa la rassegna in successione di 18 virtù. Eccole:
rispetto, fedeltà, prudenza, temperanza, coraggio, giustizia, generosità, compassione, misericordia, gratitudine, umiltà, semplicità, tolleranza, purezza, mitezza, buonafede, umorismo, amore.
Lancio una sfida a voi tutti del blog. Quante di queste virtù fanno sinceramente parte del vostro patrimonio personale? Io mi accontenterei di almeno la metà. Cordialmente e amichevolmente vostra.
CATERINA VALCHERA
Ho accettato, a volte delle sfide, quando a lanciarle era qualcuno che mi appariva in quel momento un prepotente e un presuntuoso. Per il resto, mi piacciono quelle con me stesso e credo di averne vinte molte. Nella disfida di Barletta parteggio per “i nostri”, purché il combattimento sia leale. La sfida che lancia oggi Caterina a noi tutti del blog è, già da sola, un invito a non rispondere, per non dimostrare d’essere, appunto, presuntuosi o, in alternativa, falsamente umili e modesti. Mi piacerebbe, come ho scritto altre volte, avere – tra le virtù da lei elencate – quella dell’umorismo (ma soprattutto dell’autoironia) e, spero di poter dire, quella della buona fede. Per il resto, vorrei sempre attenermi alla raccomandazione di mio padre, che mi diceva: nel giudicare, mettiti sempre al posto dell’accusato (e posso dire di averlo fatto), nel dare al primo posto, nel chiedere in nessuno…
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Visto che è tra le tue doti, allora avrai compreso la valenza ironica della sfida e della mia ottimistica risposta!! Le ridicule, il witz, fu la vera forza motrice della cultura dei lumi, apprezzato da Leopardi per la sua potenza demistificatrice e grande assente nella nostra percezione del reale cui al massimo dedichiamo le forme della satira, che è tutt’altra cosa..Un caro ssluto
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La morale utilitaristica settecentesca si perde in elenchi e algebre. Il fatto è che le virtù qui enumerate hanno un’ambiguità semantica tale da rendere fumose e vaghe le risposte. A ogni modo credo che almeno la metà potrei vantarne (e usando questo verbo già ne ho persa una..)
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Dunque.
Tenterò l’impossibile: essere breve in un argomento che pretende lunghezza espositiva.
Partendo da Aristotele e passando poi per Epicuro,Agostino,Bonaventura, Tommaso, Spinoza, Leibniz, Kant……..
Pietà!! Basta così, per carità.
Troppo “palloso”, fine del problema.
Tuttavia una cosetta , vista la tua provocazione crudele, la dico.
Il progetto illuministico di fondare la morale sulla ragione universale è fallito: la catastrofe della modernità!! (fulmini e saette piombano su di me,accuse infamanti di atei pervicaci, neo-liberali incalliti, sostenitori del collettivismo statale etc…) Non mi scuotono le molestie e proseguo audace!
Il progetto di liberare Homo Sapiens da ogni autorità religiosa, politica, tradizionale e di fondare la morale sulla coscienza individuale è stato smascherato da tempo (riferimento dotto:gaia scienza aforisma 335).
Un tempo, prima dell’illuminismo e dell’utilitarismo esisteva il principio ternario : L’uomo come è- l’uomo come dovrebbe essere- le regole per adeguare il primo punto all’altro.
Oggi il ternario è divenuto duplice: l’uomo come è- le regole.
E’ venuto meno il telos, lo scopo il perchè, le virtù….
Al posto del fine e delle virtù la norma asettica , fine a se stessa.
La vita senza scopo, il regno del pieno individualismo asettico. La storia che si riduce alla lotta tra chi vuole anarchia piena(neo-liberismo) e chi vuole limitare l’anarchia sostituendola alla cortina burocratica statale (collettivismo cinese, sovietico). Tutti e due gli atteggiamenti condividono l’assenza di scopo, il telos.
In altri termini la domanda etica non consiste in questa “CHE COSA DEVO FARE?”.
La domanda giusta è “COME DOVREI VIVERE?”!!!
Accuse di oscurantismo, di ritorno al passato prossimo, anzi remoto…….Povero me!
Eppure a che serve la libertà se essa non è sorretta da valori che siano non astratti ed impersonali ma valori condivisi socialmente. Quando la società è considerata solo come luogo geometrico ove si attua l’incontro tra egoismi individuali dotati ognuno delle proprie schede di preferenze, come luogo ove si svolge l’agone per il migliore raggiungimento degli scopi personali l’esito è uno solo : la catastrofe delle virtù!
L’etica della felicità non quella del dovere. La felicità intesa come eudaimonia non come pensa la pubblicità televisiva.
Mi fermo perchè Nicomaco mi chiama, devo andare. Grazie per gli stimoli cara amica.
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Moltissima carne al fuoco in quest’articolo ricco di spunti di riflessione. Da individualista vorrei dare sostegno all’idea di un bilanciamento (possibile) tra le esigenze del singolo e quelle della comunità (polis, ecc.), peraltro già oggetto di ampio dibattito filosofico, da Platone a Popper. C’è sicuramente il margine per contemplare insieme le prerogative degli individui e il benessere della collettività. Certo un margine sottile, delicato e di non semplice gestione, ma auspicabile. Quanto alla sfida lanciata “in cauda”, ritengo di essere a 11 delle 18 virtù elencate… ma oltre che un individualista sono un relativista: siamo sicuri, quindi, che ciascuno di noi sia in grado di fare quest’autoesame? O non sarebbe forse meglio parlare di percezione (ancora soggettiva) di possedere determinate virtù?
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Ma allora una sfida scherzosa ha toccato punti nevralgici!!! Certo che ognuna di quelle virtù potrebbe mascherare forme di narcisismo e che nessun casellario morale rende conto della grande complessità umana.. Credo che Carlo abbia però aderito alla mia riflessione nel senso che volevo darle. Scovata la virtù che abbiamo in comune: empatia! E forse non si limita a noi due. Brindo con tutti voi al nuovo anno! 🍾🎉🥂❤️❤️
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