Almanacco civitavecchiese di Enrico Ciancarini – Scudi e bastoni

di ENRICO CIANCARINI

 

Il 12 gennaio 1549, Paolo III (1534-1549), il papa della Famiglia Farnese nativo di Canino che aveva dato vita all’Inquisizione romana, emana il “Bando sopra al tenere de li schiavi et schiave in Roma” in cui notifica che “sia lecito tenere detti schiavi et schiave, senza essere impediti da persona alcuna”.

Parole tratte dal quarto volume della Storia della marina pontifica della nostra affezionata guida nella “società degli schiavi” civitavecchiesi, padre Alberto Guglielmotti, che ricorda come anche la sua famiglia ospitasse due schiavi. Nelle case dei ricchi mercanti civitavecchiesi, la presenza di uno schiavetto “turco” segnala l’aspirazione a salire di un altro gradino la scala sociale ed economica della città. I mercanti ed armatori civitavecchiesi assimilano avidi le mode che vanno per la maggiore a Roma dove le nobili famiglie hanno al loro servizio schiavi e schiave. A Civitavecchia non abbiamo traccia di schiave se non nella primavera del 1680 quando, scrive Salvatore Bono, fu inviata a Roma “una bambina nata da una schiava turca”.

Quaranta scudi, ecco quanto vale uno schiavo appena adolescente sul mercato di Civitavecchia. Il 18 dicembre 1724 l’assentista Giulio Pazzaglia invia alla Dominante, cioè a Roma la capitale dello stato più cristiano al mondo, una nota in cui comunica che “per allontanare nella miglior forma dal commercio delle galere li piccoli schiavi” è riuscito a trovare a Civitavecchia chi è disposto ad acquistare Ibraim d’Assan di Algeri, un fanciullo di circa dodici anni, il prezzo pattuito è quaranta scudi. Pazzaglia nella lettera che invia alla Reverenda Camera Apostolica (RCA), al cui patrimonio appartengono gli schiavi della Darsena di Civitavecchia, motiva tale vendita al ricco mercante Francesco Antonio Ciccoperi con i nobili fini “d’allevarlo, e procurare di tirarlo alla santa fede”. La Reverenda Camera approva la vendita dello schiavetto. Il 20 giugno 1725 è il negoziante Lorenzo Bianchi ad esprimere il desiderio di acquistare uno schiavetto di circa dieci anni, Amet di Mahmet e Fatima di Somtina. Anche qui il prezzo richiesto è di quaranta scudi.

I fondachi e i cantieri civitavecchiesi ospitano spesso gli schiavi della Darsena che forniscono, a fronte di una piccola ricompensa, le loro braccia per i lavori più pesanti. Uno dei primi storiografi di Civitavecchia, il comandante Antigono Frangipani, quando espone le sue idee sul possibile sviluppo della città, afferma che “si potrebbe ancora con poca spesa, cioè con li Schiavi, e Forzati, spianare alcune collinette, acciocché la tramontana avesse più forza, e dominasse meglio la Città…”.

Abbiamo notizia di schiavi impiegati nei forni, nella raccolta del grano (3 luglio 1724: secondo gli ordini del tesoriere generale, saranno pagati cinque baiocchi al giorno per ciascuno agli schiavi “che sono impiegati a trapalare il grano qui venuto da Montalto”), nella costruzione di edifici e in altre attività.

Gli schiavi bazzicano anche le case come testimonia la corrispondenza fra la RCA e l’assentista Pazzaglia. Una nota del 1 dicembre 1727 indica gli schiavi che pernottano a Civitavecchia, cioè fuori dalla Darsena. Gli schiavi che lavorano e vivono alla Rocca, otto schiavi sono addetti al forno delle galere (pagano la giornata all’aguzzino); cinque risiedono “in casa di particolari”: dal governatore, da Romolo Pucitta, da Sebastiano Pizzoli, da Gio. Antonio Pacifici e da Pellegrino Clerici, gli schiavi di questi ultimi due pagano la giornata all’aguzzino).

Un’altra testimonianza di frequentazioni casalinghe apre un nuovo e piccante scenario, un documento del 18 agosto 1721 in cui si parla di un tentativo di estorsione con ricatto, per la somma di otto scudi e sei giuli, ai danni dello schiavo della Rocca Ametto Cosciulla, sorpreso dal bargello in casa di una donna.

Appuntavamo in un precedente articolo che a Civitavecchia il parroco di Santa Maria censiva oltre novecento donne viventi all’interno e all’esterno delle mura della città; di queste quattro erano denunciate come mammane, quattordici invece come meretrici. Gli uomini, fra liberi, galeotti e schiavi erano circa tre volte tanto. Le quattordici prostitute e le quattro mammane testimoniano una realtà cittadina in cui la sessualità è certamente un problema alquanto sentito, che crea problemi morali e giudiziari. Il 2 giugno 1725 dall’ospizio dei padri cappuccini cappellani delle galere fugge lo schiavo Alì di Assan di Tunisi, consegnato ai padri perché intenzionato a convertirsi. Viene punito (“le fece correzione”) per essere stato visto “praticare con una meretrice”. Fra Silverio da Frosinone: commenta la fuga del predetto schiavo, che ritiene motivata da vergogna, così: “la perdita ch’ho fatto di uno schiavo di tutte buone qualità, e fidato, et adotrinato perfettamente”.

Scrive Roberto Benedetti nel suo saggio “Le fonti giuridiche e lo studio della presenza islamica nello Stato della Chiesa (XVI-XVIII secolo):

“Nell’ambito della regolamentazione della vita spirituale rientrava anche il ‘vizio’ della sodomia – endemico a bordo delle galere pontificie, per stessa ammissione del legislatore – che era considerato delitto contro natura e quindi contro la divinità e veniva pertanto duramente sanzionato. Nel 1709 il Commissario generale del Mare, Francesco Banchieri, emana un regolamento per la corretta vita spirituale all’interno delle galere in cui vengono elencate le istruzioni relative all’espletamento della conduzione della vita spirituale dei forzati e della ciurma da parte dei cappellani e dei padri spirituali e vengono ribadite pene severe per punire il delitto di bestemmia. In tutto il documento, manca il riferimento esplicito agli schiavi di religione islamica che curiosamente vengono invece citati unicamente nel passo relativo al delitto di sodomia”.

Tale pratica sessuale non coinvolgeva soltanto schiavi: l’8 gennaio 1727 l’assentista Pazzaglia punisce duramente lo schiavo Argep di Mambrucca di Tripoli per “aver tentato un chierico”; gli sono inferte cento bastonate ed è posto in catene.

Il concetto di schiavitù che oggi noi italiani nutriamo è debitore del film pluripremiato con otto Oscar “Via col vento” uscito negli USA nel 1939 e arrivato nell’Italia postbellica dieci anni dopo, accusato recentemente di razzismo, di aver diffuso stereotipi sugli afroamericani (linguaggio).

Purtroppo la realtà che vivevano gli schiavi “turchi” all’interno della Darsena civitavecchiese era molto lontana da quanto narrato dal film. La loro esistenza era suddivisa in due periodi: il primo quello trascorso in crociera, quando incatenati al remo, fornivano forza motrice alle galere della flotta del papa, il resto dell’anno, quando le navi erano in porto, gli schiavi potevano lavorare e dormire sulla terraferma se avevano da pagare ai loro aguzzini. Padre Guglielmotti e il suo Vocabolario marino e militare ci chiarisce chi è l’aguzzino:

“Colui che ha in custodia gli schiavi – cioè – quel basso ufficiale delle galere, che aveva il carico immediato di guardar la ciurma, e farle eseguire i lavori. Ogni galera aveva l’aguzzino e l’aiutante. Suo posto in corsia. Suoi arnesi: la mazzetta, l’incudine, il buttafuori, le zeppe, le branche, le catene, le maniglie, le chiavi, il tappo, il cerchio, il cordino. Sue armi: nerbo, squarcina, e pistola. Le usava in tre tempi, dopo il previo avviso: prima una nerbata, poi una sciabolata, e finalmente due palle in testa. Aveva a fare con gente disperata. Così li teneva in rispetto, così li punzecchiava e aguzzava lor voglie restia alla fatica. Per questo Aguzzamento fu ricevuta la voce araba, come esprimente l’istesso concetto anche nelle lingue moderne. Abolito tanto strazio dal vapore”.

Quanto è avvincente il vocabolario, in una prossima puntata dell’Almanacco gli sarà dedicata.

L’aguzzino è la figura di raccordo fra le autorità navali e militari che governano lo scalo, la Comunità di Civitavecchia e quella “società degli schiavi” che è incistata per oltre due secoli nello darsena.

Nel lavoro di Carla Lodolini Tupputi (Inventario delle fonti manoscritte relative alla storia dell’Africa del nord esistenti in Italia: l’Archivio di Stato di Roma – 1989) che abbiamo ampiamente saccheggiato per la stesura dei quattro articoli dedicati agli schiavi “turchi” della Darsena, la figura dell’aguzzino e le controversie quotidiane e feroci che ha con i suoi sottoposti trovano ampio spazio.

Riportiamo alcuni esempi tratti dalla documentazione che da Civitavecchia, soprattutto l’assentista Pazzaglia, inviava a Roma presso la Reverenda Camera Apostolica:

28 luglio 1721: ammonizione agli aguzzini di non infierire contro gli schiavi e di non esigere denaro più del lecito.

16 marzo 1722: ricorso degli schiavi contro l’aguzzino della galera capitana. Viene riferito esser vero che qualche schiavo ha pagato quindici baiocchi la settimana di giornata, che poi molti d’essi non si siano fatti dormire in darsena, ma ritirati in galera ma questo per ordine del cav. Ancajani per aver fatto a pugni fra loro di notte.

30 marzo 1722: è ammonito l’aguzzino Reale perché si astenga dall’esigere dagli schiavi “di più di quello che dalla magnificenza di V.S. Ill.ma viene benignamente concesso”.

Fra schiavi e aguzzini i rapporti erano basati o sugli scudi o sulle bastonate. Gli schiavi erano sottoposti al “pizzo” da pagare agli aguzzini per lavorare, dormire a terra o solo uscire dalla Darsena.

D’altra parte gli aguzzini rispondevano ai loro superiori personalmente per ogni fuga di schiavi: il 1 dicembre 1727 Pazzaglia libera dalle catene e reintegra al suo posto l’aguzzino Bartolomeo di Natale che ha pagato 44 scudi, dei cento dovuti alla RCA, per la fuga di Alì di Algeri detto Taucco.

Sulla realtà della “società degli schiavi” a Civitavecchia, esiste una sterminata documentazione che in parte è stata studiata e pubblicata dagli studiosi, che ho citato in questa serie di articoli.

Padre Alberto Guglielmotti, il nostro Virgilio nell’inferno quotidiano della Darsena civitavecchiese, pronuncia questa annotazione:

“Più volte nei miei libri mi è venuto detto di questa materia: ma un discorso speciale intorno agli schiavi turchi, ed al loro trattamento nello Stato romano, massime nel porto di Civitavecchia, dove sino alla fine del secolo passato duravano numerosi nei pubblici e nei privati servigi, devo rimettere a quel tempo, al quale si riferiscono i documenti che ho raccolto in buon dato”.

Si riferisce al nono volume dove tratta ampiamente questo aspetto del passato di Civitavecchia che oggi è in parte dimenticato. I miei articoli hanno voluto ridare voce a questi “ospiti” della nostra città che in qualche modo hanno contribuito con il loro lavoro alla crescita economica e sociale della Comunità.

Perché Civitavecchia io la fantastico come una gustosa e sapida zuppa mediterranea che a tutti piace tanto.

ENRICO CIANCARINI

4. Fine