“PESCI, PESCATORI, PESCIVENDOLI E CONSUMATORI” di Giorgio Corati – L’Antica zuppa di pesce di Civitavecchia – Storia e supposizioni. 1.

di GIORGIO CORATI

La rubrica ha la pretesa di essere un contributo informativo dedicato alle risorse ittiche “locali” e al consumo sostenibile in gastronomia. Il punto di vista si pone sulla traiettoria della sostenibilità attuale e futura delle risorse stesse e sull’importanza che rivestono per il sistema economico-sociale-ambientale locale.

 

Nel corso dei secoli il mar Tirreno è stato luogo di incontro e di scontro tra flottiglie pescherecce di paesi costieri per l’accaparramento di pescato quale importante risorsa economica e alimentare. Le flottiglie di Genova e di Livorno, i pescatori campani “in trasferta” lungo il litorale pontificio e i pescatori di Civitavecchia, malgrado siano stati antagonisti e a volte protagonisti di litigi perfino cruenti, hanno condiviso la zona di pesca nel mare civitavecchiese che, intorno agli anni Trenta dell’Ottocento Henry Beyle, noto con lo pseudonimo letterario di Stendhal, definisce come “un mare che abbonda di tonni e sardine” (Serangeli, “Il console Stendhal”, p.43).

Lo sviluppo della pesca a Civitavecchia, in termini di attività economica che prende forma nel tempo, sostiene la crescita economica locale, il fabbisogno alimentare della popolazione e favorisce l’immigrazione. Pescatori di origine campana si trasferiscono nel corso di alcuni secoli non soltanto a Civitavecchia, bensì anche in località limitrofe come Santa Marinella, prima Palo poi Ladispoli e infine, negli anni Sessanta del Novecento, a Montalto di Castro. Non a caso, “nel vocabolario dei civitavecchiesi, i “veri” pescatori professionisti sono unicamente i “pozzolani [originari di Pozzuoli, detti pozzolani in dialetto civitavecchiese] e i “paranzellari”” (De Paolis, 2006, p.62) per lo più di origine campana. Il pozzolano pesca con una barca detta pozzolana, dotata di tramaglio (una rete da posta). Il paranzellaro opera con due particolari e distinte tecniche di pesca: la prima, che si afferma agli inizi del Seicento, è detta a tartana dal nome della rete a strascico utilizzata, dalla quale origina anche il nome dell’imbarcazione; la seconda, che viene introdotta dalla metà del Settecento, è detta pesca a coppia perché prevede l’utilizzo di due tartane di piccole dimensioni che pescano appaiate ovvero “a paro”. Da quest’ultima particolare modalità di battuta di pesca origina il nome di pesca a paranza (UILA Pesca, 2019). Naturalmente, presso le comunità costiere l’attività alieutica sostiene il consumo del pescato che assume un ruolo primario nell’alimentazione quotidiana e, senza dubbio, un indissolubile legame con le ricette gastronomiche. Tra le molte ricette tradizionali la zuppa di pesce è un piatto prelibato, dall’inconfondibile sapore di mare, preparato con varianti distintive. In alcune località è considerata come vera e propria istituzione, è preparata principalmente con piccoli pesci e assume nomi diversi come Cacciucco a Livorno e a Viareggio, Ciuppin lungo la Riviera del Levante ligure, Antica zuppa di pesce a Civitavecchia ove è considerata con orgoglio patrimonio culturale gastronomico dalla comunità locale. […] “Il prodotto migliore della cucina locale è, a mio avviso, la zuppa di pesce. Siamo al livello della Bouillabaisse, e anche qualcosa di più[…]. Si tratta di una affermazione che lo scrittore Massimo Barone fa pronunciare a Stendhal (UILA Pesca, 2019, p.105) nell’elogio alla ricetta civitavecchiese in cui predomina il pesce di paranza, la cui cattura è condotta ora da imbarcazioni della piccola pesca artigianale dotate di rete a tramaglio. È interessante inoltre notare che presso la vicina flottiglia peschereccia di Santa Marinella, in alcuni sporadici casi, viene utilizzata una rete incastellata. Si tratta di “un sistema di cattura da sempre tipico delle flottiglie pescherecce del Lazio e della Toscana (ndr.)” (UILA Pesca, 2019, p.30) che nella parte inferiore è costituito da un tramaglio e nella parte superiore da una rete a imbrocco (una sorta di vela).

Storie di flottiglie pescherecce e di vite quotidiane di pescatori s’intrecciano con eventi e vicissitudini che per alcuni secoli danno corso a scontri e a vere e proprie guerre per la supremazia sul mare. È il caso, ad esempio, dei molteplici episodi aggressivi e di conflitto tra galere pontificie e imbarcazioni ottomane. Eventi in cui molti dei protagonisti ingrossano, da entrambi i lati, le fila dei prigionieri che in tal modo diventano “schiavi”.

Documentazioni storiche in merito riportano che, sebbene prigionieri di guerra, ai musulmani “schiavi”, “turchi” per antonomasia,[1] sono concesse alcune libertà di azione e di movimento.

[1] In realtà musulmani di origini principalmente algerina, marocchina e tunisina, cirenaica e tripolitana durante l’impero ottomano.

Ad esempio, a Livorno, al tempo del Granducato di Toscana, ai “turchi” è concessa la possibilità di gestire piccole attività commerciali sia dentro il “Bagno penale” (utilizzato dagli inizi del 1600 al 1750) sia fuori in botteghini, nonché in baracche della darsena portuale (Chionetti, 2015). Tra le varie attività si può ipotizzare anche la conduzione di taverne con possibile somministrazione di prodotti della pesca. Nel caso del Cacciucco, sembrerebbe che il termine derivi dal turco küçük balik (“piccoli pesci”) ovvero dagli ingredienti principali (di poco prezzo, a quel tempo) della ricetta di una zuppa di pesce che un turco proponeva ai suoi avventori nella propria taverna (Chionetti, 2015). Così come Livorno, anche Civitavecchia, quale porto papalino, si conferma per secoli luogo di prigionia di schiavi “turchi”. Dal Seicento all’Ottocento, gli “schiavi musulmani” vengono arruolati da prigionieri sulle galere pontificie come rematori. Tuttavia, nel periodo in cui non sono incatenati al remo possono commerciare o comunque esercitare attività pubbliche e mestieri di vario genere sia in darsena sia fuori nelle vie cittadine dietro corresponsione di una tassa (Ciancarini, 2021). Per regolare e poter tassare le attività, dal 1740 al 1795 la Reverenda Camera apostolica concede agli “schiavi” (e ai galeotti) 12 baracche in locazione situate sotto il nuovo portico della darsena (Vitalini Sacconi, 1982). Potrebbe darsi che la permanenza dei “turchi” abbia determinato un qualche “lascito” in termini di preparazione e materie prime di ricette gastronomiche e chissà se anche a Civitavecchia un turco sia l’artefice della zuppa di pesce locale preparata con piccoli pesci. Si potrebbe avanzare un’ipotesi e cioè che l’Antica zuppa di pesce possa aver avuto i natali con l’introduzione, nel Seicento, della tecnica di pesca a tartana manovrata da paranzellari. Sembrerebbe che non esistano documentazioni certe e attendibili a sostenere un evento significativo che associ ad esso la “nascita” della ricetta. Sta di fatto però che storicamente il ceto civitavecchiese meno abbiente ha per lo più utilizzato pesci di piccola taglia rimasti invenduti, anche perché pescatori e pescivendoli hanno sempre avuto più interesse a vendere il pescato “migliore” sul mercato di Roma per ricavarne maggiori guadagni. Nel diario in cui annota eventi del suo soggiorno a Civitavecchia dal 1710 al 1716, il domenicano Labat riporta che i pescatori preferivano vendere il proprio pescato presso alcune osterie dove, tra l’altro, anche i mercanti pescivendoli lo compravano per rivenderlo a Roma. A Civitavecchia rimaneva il pesce “di scarto” come lo definisce lo stesso Labat (Correnti & Insolera), una tipologia di pescato un tempo detto “infimo” o “della povertà” e “pesce povero” così come ritenuto dai civitavecchiesi contemporanei (De Paolis, 2006). E naturalmente i più poveri hanno, inoltre, adattato la propria capacità di spesa non soltanto a ricette preparate con pesce di scarso valore, bensì, per così dire, anche a ricette “alternative”. In quest’ottica possono essere considerate la Zuppa di mazzumàja (preparata con il pesce di scarto), la Minestra di pesce finto (preparata con gli stessi ingredienti della zuppa di pesce, ma senza pesce) e la Minestra di pesce sfuggito (preparata, bollendo un sasso ricoperto d’alghe, al posto del pesce, al fine di mantenere il sapore del mare) (UILA Pesca, 2019).

È interessante notare che la maggior parte delle specie utilizzate per la preparazione della zuppa hanno il prezzo di 2 Baiocchi per libra, [2] il più basso tra quelli riportati in una lapide del 1771 che stabilisce i “Prezzi de pesci” e li disciplina più in dettaglio rispetto a un’altra resa pubblica già nel 1681. La lapide ancora oggi è visibile sulla facciata di un edificio nei pressi del Palazzo comunale di Civitavecchia.

[2] Si tratta della libbra romana che era pari a 340 grammi circa.

La zuppa di pesce, preparata con pesci di terza scelta veniva venduta dai pescatori (“pesciaroli”) girovaghi al prezzo di un soldo al piatto” (De Paolis, 2006, p.13) fino all’incirca agli anni della Seconda guerra mondiale. Successivamente, negli anni Cinquanta del Novecento, i visitatori romani la “scoprono” quale delizia gastronomica e ne fanno anche un obiettivo della loro gita domenicale fuori porta. È la ricetta più ricercata e apprezzata presso i “ristoranti di mare” fino a tutti gli anni Settanta del Novecento. Il suo “fascino”, a partire dagli anni Ottanta, subisce però un lento e inesorabile disinteresse. In questo arco temporale ristoratori civitavecchiesi, per rilanciarne il consumo, ne modificano parzialmente la composizione inserendo anche vari crostacei, molluschi e pesci considerati di pregio. Intorno ai primi anni del nuovo secolo, l’Antica zuppa di pesce torna a riscuotere un auspicato successo.

Il forte legame che la comunità locale condivide per il pescato e i suoi “protagonisti” induce alcuni civitavecchiesi a descriverne degli appassionati tratti in forma poetica. Verso la fine del secolo scorso, Igino Alunni, tra i più famosi poeti locali, declama in versi il ricordo di Zì Lucia, una “pesciarola girovaga“ cara ai civitavecchiesi di una volta (UILA Pesca, 2019):

 Zi’ Lucia (Igino Alunni)

Da ragazzino c’era ’na migragna

e girava ’na fame così nera

che spesso s’arrivava a tarda sera

dicenno: se fa notte e nun se magna.

E l’unica speranza che ce stava

adera zi’ Lucia la “Pesciarola”

che co’ ’na spasa fatta a bagnarola

venneva a un sordo er pesce e ce sfamava.

Un sordo ar piatto! Te ricordi Nina?

Tutto pescetto fresco de paranza,

’na zuppa, ’na minestra in abbondanza

e annamio a letto co’ la panza piena (p.108).

 GIORGIO CORATI                                                               

 continua…

Bibliografia
Chionetti, G. (2015). Viaggio di un piemontese alla scoperta del cacciucco. Pro Loco Livorno.
Sito web: http://www.prolocolivorno.it/viaggio-di-un-piemontese-alla-scoperta-del-cacciucco/. Consultato il 10 novembre 2021.
Ciancarini, E. (2021). Almanacco civitavecchiese. Le castagne di Piazza San Francesco. SpazioLiberoBlog.
Sito web: https://spazioliberoblog.com/2021/11/03/almanacco-civitavecchiese-le-castagne-di-piazza-san-francesco/. Consultato il 10 novembre 2021.
Correnti, F & Insolera, G. (1995). I viaggi di Padre Labat dalle Antille a Civitavecchia, 1693-1717, Roma. Ente Cassa di Risparmio di Civitavecchia – Officina Edizioni.
De Paolis, C. (2006). La pesca marittima a Civitavecchia in epoca moderna e contemporanea. Bollettino n. 3 della Società Storica Civitavecchiese. Civitavecchia. Etruria Arti Grafiche.
Serangeli, S. (s.d.). Il console Stendhal. Associazione “Angelo Mori”, Progetto finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia. Civitavecchia. Etruria Arti Grafiche.
UILA Pesca (2019). Una ricchezza dalla grande storia. La Pesca a Civitavecchia. A cura di Ciancarini, E.. Con il contributo del MIPAAFT – Direzione Generale Pesca e Acquacoltura.
Vitalini Sacconi, V. (1982, Vol. II, pp.130-131). Gente, personaggi e tradizioni a Civitavecchia. Dal Seicento all’Ottocento. Con il contributo della Cassa di Risparmio di Civitavecchia. Roma. Stabilimento editoriale tipo-litografico Vittorio Ferri.