Almanacco civitavecchiese – Le castagne di Piazza San Francesco.

di ENRICO CIANCARINI ♦

A Civitavecchia c’è il Ghetto ma gli ebrei non ci hanno mai abitato. La presenza di israeliti nella nostra città è sempre stata sporadica e limitata a poche famiglie che hanno provato ad insediarsi commercialmente ma l’antisemitismo di comodo dei commercianti civitavecchiesi di religione cattolica ha prevalso, favorendo così le decisioni dei pontefici che nella prima metà dell’Ottocento decretano che gli ebrei, poveri o ricchi, debbono essere tutti rinchiusi nel Ghetto romano, compresa la famiglia Ascarelli che da decenni esercita un lucroso commercio in riva al mar Tirreno.

Anche se quella zona non è mai stata un ghetto in cui rinserrare gli ebrei, ancora oggi ne porta il nome, dando vita ad una leggera confusione in chi non è avvezzo allo studio della storia cittadina.

Molte volte l’odonomastica è l’ultima testimonianza di una memoria che dopo secoli tende a cancellarsi nella comunità che opera in quelle vie. È il caso del Prato del Turco che insiste nelle adiacenze della zona portuale. Qui “venivano sepolti i Turchi, ossia i prigionieri delle varie nazionalità soggette all’impero ottomano, catturati dalla flotta papale e utilizzati come rematori nelle galere” (da “Civitavecchia la mia città, 1992).

Prigionieri o meglio schiavi che a metà Seicento erano riusciti a comprare un terreno dove seppellire i propri morti. Da qui il toponimo che resiste da allora.  Negli anni i funzionari papalini  cercheranno varie volte di espropriarlo ma le proteste dei “legittimi” proprietari, che celermente giungono all’orecchio del pascià di Tunisi, provocano un’immediata reazione: si minaccia di rendere schiavi tutti i preti e religiosi che sono in quella città in missione e allora a Civitavecchia si scende a più miti propositi. Negli anni la diatriba prosegue ma i “turchi” hanno sempre la meglio. Perché quello che succede nella darsena civitavecchiese, in pochi giorni è noto a Tunisi o a Algeri e la minaccia di pari o più cruente rappresaglie ai danni degli schiavi cristiani riportano alla ragione i funzionari papalini. Papa Alessandro VII avuta notizia di possibili provvedimenti ai danni degli schiavi cristiani detenuti a Tripoli “subito senza veruno indugio scrisse ai suoi ministri et luogotenenti in Civitavecchia commandandoli espressamente che non molestassero in verun modo li schiavi suoi maomettani”. Siamo nel 1660.

Tutto qui quello che rimane della presenza plurisecolare degli schiavi mussulmani a Civitavecchia?

Nella storiografia civitavecchiese l’argomento schiavi è stato sfiorato da alcuni, molti dei nostri concittadini ignorano che Civitavecchia sia stata una delle località con la maggiore presenza di schiavi, dove sono rimasti fino ai primi anni dell’Ottocento. Gli archivi romani sono ricchissimi di documentazione sulla loro presenza, studiati in questi anni da molti ricercatori. Un patrimonio storico che la Città deve conoscere.

“Molti hanno descritto le sofferenze degli schiavi cristiani in Barberia, ma degli schiavi musulmani tra noi non trovo veruno cui ricorrere per notizie e confronti”. È padre Alberto Guglielmotti che si lamenta di questa amnesia degli storici cristiani che prosegue per oltre un secolo tanto che lo storico francese Jacquers Heers scrive nel 1981: “la persistenza di questa schiavitù moderna in Italia meriterebbe certamente uno studio più attento”.

Le due citazioni riportate sono contenute nelle prime righe del paragrafo “una storia taciuta” del volume “Schiavi musulmani nell’Italia moderna. Galeotti, vù cumprà, domestici” che il professore Salvatore Bono pubblica nel 1999. Gli ultimi decenni del secolo scorso vedono un fiorire di studi sull’argomento che finalmente vanno a rompere quel silenzio secolare di cui si lamentava il bravo padre Alberto. Oggi la ricerca storiografica ha ampiamente colmato questa lacuna e prosegue lo studio su un aspetto della storia italiana ai più sconosciuto.

È sempre il professore Bono a scrivere che “il maggior numero di musulmani si trovava nei porti dove erano di stazza le flotte delle galere: Napoli, Civitavecchia, Livorno, Genova”. Nella nostra città la media di schiavi presenti è intorno alle trecento unità, a seconda di quante galere sono presenti in porto.

Il priore dei frati domenicani di Santa Maria, padre Giuseppe Maria Fati, trasmette alla Reverenda Camera Apostolica lo stato delle anime di Civitavecchia nell’anno 1719: “famiglie 530, huomini in città e fuori 1615, donne in città e fuori 911, huomini dentro le galere da catena 1615, religiosi di diverse religioni 40, sacerdoti, preti 7, mammane 4, meretrici 14, turchi su le galere 210”.

Per il 1720 possediamo precisi dati sui 257 schiavi detenuti nella Darsena civitavecchiese: 62  provengono da Algeri, 33 da Tripoli, 18 da Tunisi, 14 da Biserta, 8 da Tittuan, e pochi da altre località barbaresche; ancora 4 dal Marocco, tre da Tremissan e 18 dall’Egitto.

Considerando l’età il più giovane ha 15 anni ed il più vecchio 80; la maggior parte, 78 schiavi, hanno un’età compresa tra i 21 e i 30 anni; 43 tra i 31 e i 40; 35 fra 41 e 50; 23 fino ai 60; 11 sino ai 70 e 4 tra i 71 e gli 80, solo 12 fra i 15 e i 20. Tra i più vecchi c’è il papasso Amet di Biserta; tredici sono i mori, uno solo è nero, un altro è definito olivastro. Otto schiavi si sono fatti battezzare, vi è un solo rinnegato.

Si capisce da questi numeri che la vita a Civitavecchia nei secoli XVII e XVIII non era certamente facile visto che il rapporto fra liberi e reclusi era quasi di uno a uno! Un porto trasformato in un immenso penitenziario a cielo aperto.

Agli schiavi, nel periodo in cui non sono incatenati ai remi delle galere nelle crociere estive, è permesso “mediante la corresponsione d’una tassa, di sottrarsi ai disagi e alle fatiche delle galere e di esercitare invece, per proprio conto, attività di vario genere. Potevano perciò avere locali per proprio uso nella darsena e persino andare in giro, con una certa libertà nelle vie cittadine. Gestivano botteghe per lo spaccio di caffè, di vino, di tabacco, per la vendita di generi alimentari (carne, formaggio), esercitavano vari mestieri artigianali (fra l’altro del barbiere), s’impiegavano a portar acqua, ed a fare il facchino”. Addirittura sono gli schiavi che a Piazza San Francesco d’autunno vendono le caldarroste. Nel 1721 il “piazzarolo della città” protesta contro questa usanza che ritiene danneggi la sua privativa ricevuta dalla Comunità per vendere in piazza. I funzionari papalini riferiscono  a Roma che “essersi sempre tollerato che li medemi possino andare vendendo per Civitavecchia le castagne”.

I commercianti civitavecchiesi mal sopportano la concorrenza dei “colleghi” schiavi e inviano di continuo proteste a Roma: nel 1728 Benedetto XIII ordina lo sgombro delle baracche e dei banchi gestiti dai prigionieri musulmani. Ma il tutto dura ben poco. In quell’anno è attestato che gli schiavi gestiscono dodici botteghe nel nuovo portico, altri cuociono frittelle e cose simili nella piazzetta della Darsena, altri vendono “simili robbe” nella piazza San Francesco e piazza d’arme.

Le carte d’archivio tramandano i nomi o meglio i soprannomi di questi schiavi “commercianti” che pagano dai 12 ai 33 scudi annui d’affitto per le loro botteghe: Amore detto il Livornese, Amet che serve il monsignore Governatore, Calilla, Asmao, Spagnolo, Alì mozzo di rocca, Ramadan, Mongibello, Giannutri, Alì tripparolo, Ametto d’Algeri, Sain di Bugeia, AMettino di Tituan, AMetto di Salè, Cocciulla, Papassetto, Osman tignoso, Mezzomorto, Sciaban d’Alessandria, rais AMet di Tituan.

La questione del commercio permesso agli schiavi è una costante della corrispondenza che intercorre fra la città portuale e Roma: proteste dei commercianti, appelli degli schiavi per difendere questa loro prerogativa che gli permette di condurre una vita più decorosa. Salvatore Bono scrive che la condizione effettiva degli schiavi musulmani nei porti italiani come Civitavecchia è “ben più sopportabile di quanto si potrebbe dedurre dalla astratta condizione giuridica dello schiavo, teoricamente privo d’ogni diritto”.

Gli schiavi a Civitavecchia s’ingegnano a trovare le più diverse fonti di guadagno, necessarie per soddisfare l’immensa avidità dei loro aguzzini che impongono continui esborsi per permettergli di vivere al di fuori delle galere, per entrare in città, per svolgere le attività commerciali. D’altra parte se uno schiavo riesce a fuggire, è l’aguzzino che rimborsa la Reverenda Camera Apostolica della sua perdita: il prezzo è 100 scudi. È possibile anche pagarsi la libertà con quei soldi.

ENRICO CIANCARINI

Continua…