Morte della Storia. L’assassino? Un “tenero nonno”.

di ENRICO CIANCARINI ♦

L’estate scorsa ho avuto il piacere di leggere il libro di Adriano Prosperi “Un tempo senza storia. La distruzione del passato”, edizioni Einaudi (2021).

La copertina esplicita subito gli argomenti che l’illustre storico vuole affrontare nel volume:

“Si moltiplicano i segnali d’allarme sulla perdita di memoria collettiva e di ignoranza della nostra storia. Nella realtà italiana di oggi c’è un passato che sembra dimenticato. E il peso dell’oblio è qui forse più forte che altrove. Ma che cosa significa liberarsi dal peso del passato?”

Due episodi recenti mi hanno riportato a rileggere quelle pagine.

Oblio, ignoranza della storia e distruzione della memoria sono i concetti che Prosperi mette in luce e che oggi dominano la scena pubblica italiana dove uno dei maggiori giornalisti televisivi italiani sforna ogni anno un libro in cui esalta le “buone cose” che ha fatto Mussolini paragonandole con le vicende che viviamo noi contemporanei, il tutto grazie ad un sproporzionato battage pubblicitario.

Personali riflessioni che nascono quando leggo che nella sede civitavecchiese di “Fratelli d’Italia” e nella Biblioteca comunale di Ladispoli viene presentato il libro “Rodolfo Graziani: il soldato e l’uomo” di cui sono autori Anna Maria Funari e Gianfranco Santoro.

A Ladispoli il criminale di guerra Rodolfo Graziani viene presentato così: “un uomo, ancor prima che un soldato, capace di nobili sentimenti, un marito premuroso, un padre amorevole e un tenero nonno: lati umani, sempre oscurati dal ruolo di capo militare ligio, combattivo e intransigente”.

Parole che cercano di nascondere quanto scritto in questi decenni sul maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani e che sono tratte dal comunicato stampa dell’assessore alla cultura del Comune di Ladispoli, Marco Milani, che annuncia la presentazione del libro nella biblioteca comunale con il patrocinio dell’amministrazione comunale.

A Milani ho espresso la personale convinzione che definire Rodolfo Graziani un “tenero nonno” risulta alquanto riduttivo nei confronti di colui che è ricordato in Libia e soprattutto in Etiopia per le stragi ordinate senza pietà per alcuno come quella di Debre Libanos nel 1937 che lo storico Paolo Borruso, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore, definisce già nel titolo del suo recente ed omonimo volume “il più grave crimine di guerra dell’Italia” (Laterza 2020).

L’assessore ha replicato alle mie parole di condanna rilevando che “anche il criminale più sanguinario potrebbe essere un “tenero nonno”, una cosa non esclude l’altra”.

Dal 21 maggio al 29 maggio 1937 a Debre Libanos, luogo sacro per i cristiani coopti etiopi, furono trucidati, secondo le fonti ufficiali, 297 monaci cristiani, 129 giovani diaconi e 23 laici, mentre studi più recenti alzano tale bilancio di sangue a 1000 o a 1600 vittime della furia omicida delle truppe italiane affiancate da reparti libici, al comando del viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani assettato di vendetta per aver subito pochi giorni prima un attentato eseguito da alcuni ribelli etiopici.

Scrive lo stesso Graziani, colui che viene definito un tenero nonno: “Non è millanteria la mia quella di rivendicare la completa responsabilità della tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia con la chiusura del convento di Debra Libanòs, che da tutti era ritenuto invulnerabile, e le misure di giustizia sommaria applicate sulla totalità dei monaci, a seguito delle risultanze emerse a loro carico”. Citazione che traggo dalla voce curata sul Dizionario Biografico degli Italiani, volume 58, Treccani, 2002 da Angelo Del Boca.

Il maggiore storico del colonialismo italiano ha scritto molto sulle “eroiche” gesta del maresciallo d’Italia che difende e rivendica il suo operato nel volume autobiografico “Ho difeso la patria” edito per essere utilizzato come memoriale difensivo negli anni in cui Graziani era sottoposto a giudizio e in seguito condannato dal tribunale militare speciale di Roma, il 2 maggio 1950, a 19 anni di carcere per “collaborazionismo militare col tedesco”; ma, grazie ai vari condoni, quattro mesi dopo il verdetto poteva tornare in libertà.

Da alcuni anni nella nostra città e nei comuni vicini è germogliato un movimento “politico e culturale” che nutre particolare simpatia per il fascismo e per le “cose buone” che esso ha realizzato nei venti anni di dittatura di Benito Mussolini.

Abbiamo così la presenza di una “Colonna Lamarmora” che è un esplicito riferimento a quelle squadre fasciste toscane che da Santa Marinella e Civitavecchia marciarono dopo il 28 ottobre 1922 alla volta di Roma per sostenere la presa di potere di Benito Mussolini nominato da re Vittorio Emanuele III presidente del consiglio il 30 ottobre.

Recentemente su un balcone è stato scorto il ritratto e la bandiera del duce mentre sulla facciata di un palazzo in una via centrale della città è apparsa la scritta “Molo Littorio”, ricordo di una toponomastica portuale del ventennio, utilizzato per intitolare la ormai scomparsa sede di Casapound a Civitavecchia. Movimento neofascista che si presenta alle elezioni comunali civitavecchiesi del 2019 raccogliendo 191 voti (0,6%) per il candidato sindaco Dario Mele e 127 voti (0,4%) per la lista. Dati che dimostrano la modestia del loro seguito elettorale ma che devono far riflettere in una città che ha vissuto le tre fasi dell’antifascismo: quella degli arditi del popolo e della prima resistenza alla violenza fascista; il periodo buio del carcere politico di Porta Tarquinia; la resistenza dopo l’8 settembre con le bande partigiane di Maroncelli e di Barbaranelli.

Il locale movimento neofascista ha una particolare attenzione ai nostri Arditi del popolo che denigrano e osteggiano in tutti i modi, cercando di ridurre la loro importanza di primo fattore di resistenza allo squadrismo dilagante negli del Biennio nero (1921-1922).

Piccoli episodi che dimostrano che la retorica del fascismo è ben presente anche nei nostri territori.

Il tentativo è di rendere la storia recente del nostro Paese un’unica e indigesta melassa in cui tutto si sovrappone e si confonde, cercando di sminuire le ingiustificabili colpe di quella parte politica che vanta enormi responsabilità verso il popolo italiano e gli altri popoli offesi dal colonialismo e dalla politica di aggressione portata avanti dal 1940 con l’entrata in guerra a fianco del nazismo.

Alla fine chi era nel giusto, chi combatté per i principi di democrazia e libertà viene parificato a chi ha provocato con la sua politica di aggressione le immani distruzioni della guerra.

Un altro aspetto di questo oblio diffuso della storia, della cancellazione del proprio passato che viviamo a Civitavecchia è legata alla Statua del Bacio, scultura pop americana che per molti anni ha adornato la nostra marina.

Nel momento in cui l’amministrazione comunale ha annunciato il ritorno della statua, molti hanno esternato la loro contrarietà tirando fuori dal cilindro le loro zoppicanti conoscenze artistiche e storiche. Non entro nelle polemiche estetiche, la statua a me piace, tanto da utilizzarla per la copertina della guida turistica di Civitavecchia che realizzammo con Mario Camilletti anni fa.

Mi ha colpito l’argomentazione storica di coloro che si oppongono al suo ritorno, fra cui esponenti della locale realtà neofascista, che già la criticavano anni fa: gli americani hanno ingiustamente bombardato Civitavecchia e non bisogna festeggiarli. La statua è aliena ed oltraggiosa verso la memoria e il passato della nostra città.

Per loro Civitavecchia non doveva essere bombardata come avvenne ad altre località italiane in quel terribile anno 1943 che vede capitolare l’Italia di fronte alla superiorità militare degli Usa e dei suoi alleati. Se chiedi loro le ragioni che avrebbero dovuto impedire il bombardamento di una città dall’alto valore logistico per la presenza del porto, della stazione ferroviaria e per la vicinanza a Roma, i detrattori, fra cui alcuni storici estemporanei, rispondono che “Civitavecchia era una bella città d’incanto, che a tutti piaceva tanto” e perciò non meritava di essere distrutta dalle bombe angloamericane.

L’autore del libro “L’Italia sotto le bombe” (Laterza 2007), Marco Patricelli, cita cinque volte Civitavecchia. A pagina 178 scrive: “il 14 maggio le sagome delle Fortezze volanti divengono familiari anche per gli abitanti di Civitavecchia. Gli ordigni scaricati dai B-17 della Northwest African Air Force martoriano la zona portuale e quello che vi sorge attorno, lasciando quasi trecento persone senza vita. È un colpo sanguinoso, che si svolge in simultanea alle sortite in Sardegna di cacciabombardieri P-38…”. Sassari, Abbasanta, Alghero e Porto Torres sono bombardati. La stessa notte tocca a Palermo. A pagina 276 registra che il 7 settembre, alla vigilia dell’armistizio, “più di centotrenta B-17 vengono mandati su Civitavecchia (apportando quelle che il Corriere della Sera definirà con enfasi “distruzioni immense”) e Viterbo. Tutta l’Italia compresa Roma, la città eterna e sede del pontefice, è vittima dei bombardamenti alleati che vogliono frantumare la resistenza e il morale degli italiani ancora belligeranti ed alleati dei tedeschi. Perché Civitavecchia doveva essere esentata dalla violenza di una delle guerre più feroci che l’umanità immemore ha conosciuto?

Certamente nessuna città italiana, compresa Roma, meritava di essere oltraggiata dalle bombe americane ed inglesi come non meritavano lo stesso trattamento le città inglesi martoriate dalle aviazioni tedesca ed italiana nei primi anni della belligeranza. La violenza della guerra moderna non prevede pietà per le popolazioni inermi delle nazioni coinvolte nei conflitti come dimostra ogni guerra contemporanea in cui nessuno si può sentire al sicuro nella propria casa.

Dipingere gli americani “brutti e cattivi” per la distruzione al 90% di Civitavecchia e rifiutare quella Statua del Bacio che simboleggia la fine della guerra e finalmente la pace nel mondo, è un altro esempio della volontà di dimenticare e cancellare quella che è stata la storia del XX secolo.

Adriano Prosperi così inizia “Un tempo senza storia. La distruzione del passato”:

“La storia intellettuale dell’umanità – ha scritto Jurij M. Lotman – si può considerare una lotta per la memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi”.

ENRICO CIANCARINI

* Immagine di copertina tratta da Wikipedia raffigurante Cascì (preti copti) prigionieri fotografati dal tenente di complemento Virgilio Cozzani (45° battaglione coloniale musulmano) il 20 maggio 1937, il giorno prima del massacri di Debra Libanos