Inferno

di LUCIA SCAGGIANTE

Rendere omaggio a Dante nel settimo centenario della sua morte è solo una ragione di più, non è solo il suo Inferno quello in cui ci aggiriamo percorrendo i saloni delle Scuderie del Quirinale, dove Jean Clair ha allestito una mostra audace, avvincente e catartica come una pagina di grande teatro, che resterà aperta fino al 9 gennaio. Del resto, è dal 2006 che il celebre storico dell’arte francese agita nella mente questo tema complesso e tenebroso, e anzi, l’aveva presentato a diversi musei di Parigi e al Prado di Madrid senza trovare ospitalità. Quindici anni non sono né tanti né pochi – ma certo era un altro mondo. Poi l’invito gli è giunto dalle Scuderie del Quirinale in coincidenza con le celebrazioni dantesche, e venirlo a sapere desta un moto non piccolo di orgoglio.

La visione di Jean Clair è quella di un poeta dei linguaggi artistici più disparati e di un intellettuale laico votato a indagini sul nichilismo, sul male e sulla possibilità di riscatto, convinto che l’arte rappresenti forse la voce più acuta e tesa per esprimere un’epoca, ma che stabilisca una polifonia affascinante con le discipline della scienza; in questo, è illuminato dalle preziose conoscenze della moglie, Laura Bossi, che ha contribuito alla mostra come vera e propria coautrice. Insomma, quello che ci aspetta non è un esercizio illustrativo erudito e didascalico, ma un’esperienza forte di suggestioni e fulminanti concetti e libertà.

Sfuggenti come le ombre che evocano, scorrono i fotogrammi di L’inferno, film del 1911 per la regia di Bertolini, De Liguoro e Padovan, quasi incisioni del Doré tradotte in movimento: gli orridi dei dirupi delle Alpi e la plasticità drammatica dei corpi nudi si mescolano ai primi effetti speciali della nuova arte, di commovente candore. Ma il cinema è già adulto.

Il Dies irae, il suo giudizio di tremenda maestà. È quello che per secoli ha atterrito gli uomini al pensiero della morte, un giudizio da cui non hanno avuto scampo per primi gli angeli ribelli, precipitati dall’alto dei cieli e raffigurati nella brulicante piramide settecentesca di Francesco Bertos, elegantissima nell’insieme, spaventosa nei dettagli crudeli, da cui non avrà scampo nessuno, come in cristallina armonia dichiara il Beato Angelico, per il quale la felicità eterna meritata dai giusti si bilancia nella dannazione inflitta ai malvagi, infinita sapienza di Dio. Ma la porta, la porta incute invincibile sgomento. L’ultimo limes. Limen liminum.

                                       Per me si va nella città dolente,

                                       per me si va nell’etterno dolore,

                                       per me si va tra la perduta gente.

Sulla Porta dell’Inferno di Rodin, tre figure maschili si sostengono l’un l’altra, curve sotto il fardello di una pena smisurata, e si direbbero la medesima figura ripetuta per tre volte, l’incarnazione dei tre versi che rintoccano a martello la fine di ogni speranza. È una porta d’accesso, ma in quanto porta d’uscita i suoi battenti sono chiusi per sempre, e invano i dannati vi si aggrappano per scuoterla, con tutto il loro peso.

SCAGGIA dopo il loro peso

Ecco, ora siamo di là. Vengono avanti tutte le immaginazioni che hanno assalito gli uomini, la reificazione delle loro ataviche angosce: essere divorati da una bocca immensa, il Leviatano miniato sui manoscritti, quello che le leggende nordiche trasformano in mostro di Loch Ness – un incubo con cui si può giungere persino a flirtare, come per capriccio malinconico succede a Bomarzo, come nella Belle Époque facevano gli eccentrici avventori del Cabaret de l’Enfer, situato nello stesso edificio dove al quarto piano Breton aveva il suo studio e teneva le prime sessioni di scrittura automatica.

SCAGGIA dopo scrittura automatica

O, anche, l’angoscia di essere preda e zimbello di torturatori efferati in un osceno carnevale e non morire mai; e qui le immagini più sbrigliate arrivano dal mondo iberico e da quello olandese, esito di scontri ferocissimi o forse addirittura, sostengono alcuni, degli effetti allucinogeni di una muffa che alligna talvolta nella segale cornuta, principale alimento dei Paesi Bassi. Esito, comunque si voglia, del genio di Bosch, qui rappresentato da un’opera della sua bottega, La visione di Tundalo.

Eppure, anche nell’abbandonarsi a proiezioni di ignoti terrori, magari per esorcizzarli, l’Inferno è stato descritto in termini spaziali, nelle innumerevoli storie che narrano di vivi avventuratisi fin là: Orfeo, Psiche, Ulisse, Enea, San Brandano e tanti altri. Fra tutti, Dante è quello che lo descrive nella maniera più ingegnosa, minuziosa e realistica. E se trovare esposta la famosa mappa vaticana di Botticelli premia una speranza, nel visitatore comune suscita divertita sorpresa scoprire che alla fine del Cinquecento gli Accademici  delle Scienze dibattevano sui diversi modelli topografici dell’Inferno, chi immaginando i cerchi come porzioni di un cilindro e chi come sezioni  coniche, e che a dirimere la questione fu chiamato il ventiquattrenne Galileo, richiesto di calcolare fra l’altro le dimensioni di Lucifero. Anzi, secondo la spericolata ipotesi di uno studioso, sempre per il tramite di Galileo il Teatro Anatomico di Padova sarebbe stato progettato ispirandosi alla voragine dantesca; e sebbene le prove appaiano scientificamente labili, chi ci è salito riferisce la sensazione di essersi affacciato sull’abisso.

Ma Dante è soprattutto umanità di passioni tempestose e profonde, nella vita come nei drammi che poeticamente mette in scena. Eccolo, corrucciato o mesto, bello di fama e di sventura come vuole la manierata iconografia risorgimentale; oppure in compagnia di Virgilio al cospetto dei dannati, nelle tavole di Federico Zuccari in dialogo con quelle di Stradano, nelle visioni di   Blake, nelle raffinate fantasie contemporanee di Barceló – memorabile fra tutte, la gigantesca tela di Gustave Doré che lo staglia fra le fosche e gelide nebbie dell’ultimo girone, trafitte da occhi sbarrati e ingombre di viluppi maledetti.

SCAGGIA dopo viluppi maledetti

In questa folla di anime perdute spicca il grande nudo eroico di Satana che schiera le sue legioni di Sir Thomas Lawrence. Mai il diavolo era apparso così bello, biondo e furente: a conferirgli questo tratto indomito era stato Milton, che nel Paradise Lost  aveva fatto di lui il simbolo della Rivoluzione inglese. Verranno altri angeli caduti.

Ormai il mito di Faust e le inquietudini di Baudelaire stendono il loro riverbero lontano, conferendo un volto moderno al male e alla tentazione. L’Inferno è sempre meno un luogo concreto di castigo oltre la morte, ma vive dentro di noi. Lucifero siede muto, gli occhi fosforici di solitudine e  sgomento.  Sant’Antonio  serra le mani in croce a difendersi dal desiderio, ma da sotto le stuoie della sua grotta di penitente – dalle linfe segrete del suo essere – tintinnano i gioielli, frusciano le sete, cantano i profumi di carni e di chiome.

La mostra assume il suo aspetto più impressionante e la sua testimonianza civile più alta nella narrazione dell’Inferno su questa terra, in un’apocalisse dove imperversano non quattro, ma ben cinque cavalieri: la prigione, la fabbrica e l’alienazione urbana, la follia, la guerra, lo sterminio. Colpisce constatare quanto le acciaierie labirintiche e tetre somiglino alle Carceri di Piranesi, che il Paese nero di desolazione e di fumi non sia una contrada ctonia, ma un villaggio carbonifero di fine Ottocento. Dove però lo sguardo non riesce più a sostenere ciò che vede, è nella sezione dedicata alla guerra: i raccapriccianti Disastri di Goya, i morti viventi di Otto Dix e soprattutto i terribili calchi originali dei volti feriti restano come un monito di tragedia. E poi, la follia sembra volerci trascinare nel suo gorgo. C’è un ritratto che chiama alla pietà, un ecce homo grave e dolente. Scopriamo che è l’autoritratto di un artista schizofrenico, David Nebreda, che usa rappresentarsi imbrattato della materia più immonda che il nostro corpo ributti. Dreck.  Merda.  Non era così che gli aguzzini dei lager chiamavano i cadaveri da far sparire, costringendo i prigionieri ancora vivi a occuparsene? Il lager come l’Inferno, anus mundi. Trovare le parole per raccontare l’indicibile. Nella mente incredula di Primo Levi risuonavano di continuo le parole di Dante per dare un nome a cose che non sapeva spiegarsi, e che nessuno, poi, avrebbe voluto sentire. Le parole di bellezza del canto di Ulisse a cui si aggrappava per cercare un senso alla sua vita e condividerlo umanamente.SCAGGIA dopo condividerlo umanamente

Non siamo gli ultimi, ammoniva Anton Zoran Mušič, un artista che aveva conosciuto anche lui l’esperienza del lager. E tutti ricordiamo i secondi di interminabile, lancinante agonia di quanti hanno preferito gettarsi dalle Torri Gemelle piuttosto che soffocare nel fuoco. E adesso che invece, smarriti negli orrori della terra, non ricordiamo più  il verso con cui si conclude la prima cantica, è un rapimento improvviso  trovare, di là dall’ultima parete divisoria,

…interminati

                                           spazi (…), e sovrumani

                                            silenzi, e profondissima quiete.

Ci sono tutte le poesie più belle che gli uomini abbiano mai lasciato, sedotti dal mistero del firmamento. Ci sono i sublimi notturni stellati di Trouvelot, e Richter, e Kiefer: nebulose, galassie, strade di latte, remote soavità. C’è la “straziante, meravigliosa bellezza del creato” che ci accoglie, come un perdono.

LUCIA SCAGGIANTE