“Almanacco civitavecchiese” di Enrico Ciancarini – Il cacciucco livornese e la zuppa di pesce civitavecchiese.

di ENRICO CIANCARINI ♦

Cacciucco, mi raccomando con tutte le sue cinque C, è una parola d’origine turca che il Dizionario Treccani indica voler dire «piccolo» e prosegue definendola “la zuppa di pesce caratteristica di Livorno e Viareggio: è fatta con pesce di varie qualità cotto in un soffritto di cipolle, cui si aggiungono pomodori sbucciati, aglio, pepe o peperoncino, e un po’ di vino bianco o rosso, versando poi il tutto in una zuppiera su fette di pane abbrustolito”.

Nei vari siti dedicati alla specialità marinara della Toscana possiamo leggere che “l’etimo turco, oggi comunemente accettato, nell’accezione di minutaglia potrebbe infatti trovare radici storiche nella presenza nella città di Livorno, appena costituita per mandato dei Granduchi, di schiavi turchi, il piatto potrebbe avere avuto origine con tale nome tra Cinque e Seicento e sicuramente a Livorno prima che in altre località della Toscana”.

I granduchi toscani in quel periodo avevano dato vita all’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano che insieme ai Cavalieri di Malta erano considerati i corsari della cristianità e rifornivano, con grande profitto, le flotte toscana e pontificia di schiavi “turchi”.

A ricordo di questo periodo di perenne belligeranza con le coste islamiche del Mediterraneo a Livorno si erge il famoso monumento dei Quattro mori che celebra le vittorie contro i corsari barbareschi del granduca Ferdinando I dei Medici, soprannominato il “domatore dei Mori”. Origine più antica vanta la bandiera dei Quattro Mori che da secoli è il simbolo della Sardegna. Il motivo dei quattro mori ritorna nella fontana eretta a Marino in memoria della vittoria di Marcantonio Colonna nella battaglia navale di Lepanto riportata il 7 ottobre 1571 sulla flotta turca a cui partecipò la flotta pontificia partita da Civitavecchia e celebrata da padre Alberto Guglielmotti nel suo celebre libro del 1862 (il prezioso manoscritto del libro fu donato dal ministro generale dei Frati Predicatori Andreas Fruhwirth al Comune di Civitavecchia il 28 aprile 1895 dopo la morte dell’illustre storico e frate come eredità simbolica per i suoi concittadini ma oggi non è più nella disponibilità della biblioteca e dell’archivio storico comunale della nostra città ma in mano ad un privato).

Livorno e Civitavecchia, due porti, due luoghi di prigionia di schiavi “turchi” per secoli.

Al livornese cacciucco, la cucina civitavecchiese risponde con l’altrettanto ottima zuppa di pesce (ultimamente si è costituita in città una confraternita che fra goliardia e rispetto della tradizione ne vuole preservare l’originalità gastronomica e propagarne il consumo nei ristoranti cittadini).

Il sito della Proloco labronica riporta interessanti notizie sul cacciucco, assunto a simbolo di Livorno nella gastronomia italiana già da parte di Pellegrino Artusi (ricetta 455). Leggiamo che nel novembre 2015 si è svolto il convegno “Cacciucco Livornese tipico-tradizionale 5C” con l’obiettivo “di tutelare e valorizzare l’identità della ricetta; informare, orientare e tutelare i consumatori, e diffondere, sia in Italia che all’estero, la ricetta livornese tipico-tradizionale del Cacciucco mediante la creazione e il lancio del marchio di certificazione, contribuendo, in un processo di marketing territoriale, a valorizzare e rinforzare l’attrattiva turistica della gastronomia tipica livornese”. L’anno dopo si è tenuta la prima edizione del “Cacciucco Pride” manifestazione tesa a rilanciare la “livornesità” in campo culturale e gastronomico. Quest’anno a settembre si è tenuta la sesta edizione. Nel frattempo, sull’Adriatico a Fano, si tiene il Festival internazionale del brodetto e della zuppa di pesce, giunto quest’anno alla sua 19a edizione. 

Nel sito della Proloco di Livorno si può leggere una breve storia del cacciucco e delle sue proverbiali origini legate alla presenza di schiavi “turchi” nel porto granducale:

“Si può facilmente immaginare il nostro turco (che possiamo chiamare Ahmet), a cui nel tardo 600 o ai primi del 700 era stata concessa la gestione di una taverna “all’intorno del bagno”, mentre propone ai suoi avventori la “balık çorbası” (Una semplice e buona zuppa di pesce, ma Ahmet aveva scoperto già allora che un nome esotico di una pietanza aumentava la sua attrattiva). Quando cercava di comprare a poco prezzo piccoli pesci per la sua çorbası diceva al pescatore, che invece cercava di vendergli a caro prezzo pesci di grossa taglia: küçük balik (piccoli pesci), ripetendo l’aggettivo küçük rinforzato con il gesto dei due indici che ne indicavano la taglia. Per questo il pescatore, con la tipica ironia canzonatoria labronica, soprannominò Ahmet “Cacciucco”, da lui il nome passò alla sua taverna e infine alla sua “çorbası”, che astutamente Ahmet (senza sapere che stava anticipando le moderne tecniche di “naming” previste dal marketing) rinomò Cacciucco, visto che il nome piaceva, era originale, facilmente pronunciabile e facilmente ricordabile”.

Possiamo immaginare che una storia simile possa essere accaduta a Civitavecchia?

È cosa nota che i civitavecchiesi di quei secoli non amavano andare per mare e che i pescatori qui stanziati provenivano dalla Liguria, dalla Toscana e dalla Campania. Il loro pescato, quello più pregiato, non arrivava sulle tavole dei civitavecchiesi ma prendeva la strada per la Dominante, ossia Roma, cosa che accade ancora oggi. Il domenicano Labat ricorda che i pescatori sbarcavano il loro pesce presso alcune osterie dove i mercanti pescivendoli lo compravano per rivenderlo a Roma. A Civitavecchia rimaneva il pesce di scarto.

Sulla presenza degli schiavi “turchi” in Italia sono fondamentali le diverse opere che ha loro dedicato Salvatore Bono, in primis “Schiavi musulmani nell’Italia moderna. Galeotti, vù cumprà, domestici” del 1999 che cita con generosità gli scritti di padre Alberto Guglielmotti e un’altra opera del 1989 pressoché del tutto dedicata alla loro presenza a Civitavecchia. Si tratta del quinto volume dell’”Inventario delle fonti manoscritte relative alla storia dell’Africa del nord esistenti in Italia” redatto da Carla Lodolini Tupputi e imperniato sulla documentazione presente nell’Archivio di Stato di Roma. La stessa è autrice del saggio “Esclaves barbaresques sur les galeres pontificales” (1991) pubblicato sulla Rivista storica del Maghreb.

Fra i tanti documenti custoditi all’Archivio di Stato, la Lodolini pubblica un foglio di istruzioni per il vitto della ciurma di una galera datato ottobre 1721, tre secoli fa:

“dovranno avere li trecento homini di ciurma ogni giorno tre libre di pane a testa eccetto che i quaranta buonavoglia … avranno tutti una pinta di vino al giorno, avranno mezza pinta d’aceto il mese, avranno mezza libra di sale il mese, la domenica mezza libra di carne fresca a testa con cinquanta libre di riso e cinque libre di sale, il lunedì centodieci libre di fava, cinque libre d’oglio et il sale  come sopra, il martedi cinquanta libre mazzamorra l’oglio come sopra o pure cinque libre di lardo et il sale conforme il solito, il mercoledì la fava l’oglio et il sale nella medesima quantità che il lunedì, il giovedì cinquanta libre di farro et cinque libra di sarde et altretante di sale, il venerdì cinquanta libre di mazzamorra sale et oglio come l’altri giorni, il sabato la fava oglio e sale come il lunedì. Avranno ogni giorno un arenga a testa o pure una saraca o quattro sarde … “.

Una libbra romana era pari a 340 grammi circa, divisa in sedici once. La mazzamorra era “biscotto trito cotto ad uso di minestra” a base di mais. Agli schiavi e ai galeotti della darsena civitavecchiese nel 1773 era distribuita tre volta a settimana “once quattro di minestra condite con olio e sale, per lo più di fave, e biscotto cotto”.

Una dieta così povera e monotona in cui il pesce era scarsamente presente, non può aver spinto i trecento schiavi “turchi” a trattare con i pozzolani, abituali frequentatori delle loro baracche in darsena dove potevano trovare a buon prezzo tabacco, caffè e altri generi di contrabbando, a farsi pagare o barattare anche con quel pesce di scarto che non veniva spedito a Roma?

Non me ne vogliano i “puristi” della cucina civitavecchiese di queste mie semplici e fantasiose congetture ma ho avvertito forte il bisogno di mettere su carta questa mia ipotesi che la zuppa di pesce civitavecchiese possa essere frutto della suggestiva mescolanza di gente che vivevano e agivano nella darsena; gli schiavi musulmani provenienti dall’Algeria, il Marocco o la Tunisia, i galeotti di ogni luogo dello Stato della Chiesa, i pozzolani e i pescatori dell’arcipelago toscano.

Mi auguro che questo mio breve scritto possa dare vita ad un vivace e produttivo dibattito in città fra storia e gastronomia e che da esso nasca l’appetitoso proposito di creare anche a Civitavecchia un festival della zuppa di pesce, simbolo della nostra spinosa “civitavecchiesità”.

ENRICO CIANCARINI                                                                 

 Continua.

Immagine copertina by Mollica’s