“Oltre la linea” a cura di Simonetta Bisi e Nicola R. Porro – Selfie made man (II). Facce da scatti: politica e consenso nel tempo digitale.
di NICOLA R. PORRO ♦
Il selfie made man appartiene estensivamente alla categoria dei nuovi populisti. Si tratta però di un modello del tutto estraneo alle originarie tipologie di populismo, quasi sempre espressione di una narrazione ingenuamente “rivoluzionaria”. Di quella tipologia il selfie-leader del tempo digitale aborre i princìpi e i valori e ne disprezza persino i corredi simbolici. Anzi: confezionate a uso e consumo dei nuovi media comunicativi, le retoriche del selfie-populismo sono aliene da qualsiasi dichiarata professione di fede ideologica. Esse restituiscono piuttosto una filosofia che, per una volta, può essere legittimamente classificata come “piccolo borghese”. Egoismo sociale e buon senso un tanto al chilo si sostituiscono al perbenismo del vecchio self made man. Il quale dava piuttosto vita a un’imitazione perbenistica degli stili di vita e di consumo delle vecchie classi dominanti: l’aristocrazia in decadenza e la nuova borghesia del denaro. Un antesignano politico della smunta ideologia del selfie si può forse rinvenire, nel caso italiano, in quel Fronte dell’Uomo Qualunque che nei primi anni del secondo dopoguerra aveva conosciuto effimere fortune elettorali.
Il selfie made man mira all’effetto immediato, alla cattura di un consenso pronta cassa, offrendo un’applicazione ruspante della teoria di McLuhan secondo la quale “il medium è il messaggio”. Il medium non registra ma eccita, e in qualche modo “produce”, emozioni a presa rapida attizzando impulsi ispirati alla rabbia, al sospetto, a quelle paure, irrazionali quanto diffuse, che gli spin doctor di tutti i leader reazionari, da Trump e Bolsonaro, coltivano premurosamente. L’idealtipo sociologico del selfie made man e quello del vecchio self made man sono insomma in rotta di collisione. Il primo dà forma alla figura sociale dell’imbonitore populista, prodotto dalla rivoluzione digitale del XXI secolo e interprete di una visione del mondo piccolo-borghese ma non priva di pulsioni reazionarie. Il self made man incarna invece il vecchio eroe borghese: è dotato di senso della misura, politicamente moderato e incline all’osservanza dei canoni, compresi quelli che presiedono alla propria narrazione sociale. Ha bisogno, per capirci, del “signor fotografo” e possibilmente di uno spazio deputato al racconto di sé: uno studio, un laboratorio, uno sfondo ben allestito. Mettendosi in posa con l’abbigliamento adatto, la giusta postura e lo sguardo rivolto all’obiettivo esprime a suo modo, forse inconsapevolmente, un’intenzione pedagogica. Si propone come un modello da imitare e replicare.
I due idealtipi descritti rinviano perciò ad antropologie e a universi culturali incompatibili e incomponibili. Le loro differenze non sono banalmente riducibili al trascorrere del tempo e all’evoluzione delle tecniche. A separarli, prima che l’avvento dell’età digitale elaborasse un’inedita sintassi della comunicazione, era già intervenuta la rivoluzione culturale che aveva investito le classi medie occidentali fra le due guerre del Novecento
La parola selfie ha una data di origine sorprendentemente precisa: il 13 settembre 2002. Quella mattina, osservandosi allo specchio, uno studente universitario australiano di nome Nathan Hope – precipitato dalle scale qualche ora prima dopo una serata di baldoria –, si allarmò non poco. I punti di sutura che gli erano stati frettolosamente applicati all’infermeria del campus si presentavano lividi e maldestramente disposti. Impossibilitato a raggiungere uno studio medico, ebbe l’idea di fotografarsi e di trasmettere l’immagine a un sito per le emergenze attivato dalla Australian Broadcasting Corporation. Inserì diligentemente l’autoscatto alla voce “punti di sutura” nella sezione “infortuni domestici”. In nota si scusò per la mediocre qualità del selfie. Fu più tardi contattato da un operatore che, dopo averlo tranquillizzato circa i postumi dell’incidente, gli domandò dove mai avesse pescato quella parolina ignota ai dizionari. Il ragazzo spiegò che la magica locuzione, sconosciuta ai matusa, era da tempo nell’uso gergale dei suoi coetanei. Il selfie aveva ricevuto il proprio certificato di battesimo.
Pochi anni dopo l’autorevole dizionario di Oxford ne avrebbe consacrato l’uso definendolo “la fotografia fatta di sé stesso, solitamente tramite un telefono intelligente (testuale!) o una camera web per essere poi condivisa attraverso le reti sociali”.
Le rapide fortune del selfie avrebbero presto condannato all’obsolescenza le curiosità etimologiche. Suscitando però alcune riflessioni che, a distanza di un paio di decenni, non hanno perso di significato. Il fenomeno, infatti, si è scarsamente “evoluto” sotto il profilo strettamente tecnologico – o comunque non quanto altri social e altre applicazioni – ma si è trasformato significativamente quanto a modalità di impiego e destinazioni d’uso. Ciascuno di noi, del tutto spontaneamente e spesso inavvertitamente, ha elaborato una o più strategie di comunicazione via selfie. Non esiste più, insomma, una modalità univoca di uso del selfie. Esso assolve però ancora – esattamente come la macchina magica ideata quasi due secolo or sono da Monsieur Daguerre – la funzione di produrre una narrazione di sé a uso di “altri”. La sociologia visuale isola allo scopo diverse modalità ricorrenti: cerimoniale, espressiva, pubblicitaria, divulgativa… La narrazione via selfie può persino dar vita a testimonianze giornalistiche destinate, qualche volta, a farsi virali. L’uso descrittivo della fotografia (“guardate questo luogo, questo volto ecc.: sono fatti così)” lascia il posto a una strategia più personale: “io stavo qui”, “io ero/sono parte di questo”. Per questa via il selfie con i leader politici si è imposto facilmente come un inedito rito “di reciproco riconoscimento”. Inaugurato in Italia da un giovane leader toscano dalla parlantina brillante, sarà eretto qualche anno dopo a sistema principe della comunicazione politica da un altro giovane leader, questa volta lombardo.
Il rito deve trasmettere l’illusione di un democratico annullamento della distanza fisica fra potere e “popolo”. In questo modo, però, non è la categoria di popolo a essere chiamata in causa. Il popolo effigiato dai selfie dei Capi altro non è che la riedizione postmoderna dell’antica plebe. Chiamata, come nella notte dei tempi, a fare da corifeo alla rappresentazione pubblica del potere.
Quello del selfie, insomma, non è altro che un rito di conferma dei legami e delle gerarchie sociali. Sta a testimoniarlo una produzione iconica prodotta in tempo reale, spesso in forma compulsiva, quantitativamente sterminata e interamente autoriferita. Tifosi adoranti, passanti incuriositi, bambini frignanti condannati al selfie-bacio: il Corpo del Capo diviene oggetto di un culto degno di Strapaese più che delle algide comunità telematiche della postmodernità. Quel che conta è solo simulare la cancellazione fisica della distanza fra Corpo del Capo e plebe digitale. Il selfie-leader deve perciò officiare in prima persona l’epifania del potere. Non può delegare l’atto liturgico perché solo tramite la celebrazione pubblica di questa caricatura del gesto salvifico gli effigiati potranno ricordare… “io stavo lì, ero vicino a lui, ero parte della scena”.
Il vero leader deve dunque, per forza maggiore, rinunciare all’uso di una mano. Muzio Scevola non c’entra, la testimonianza eroica è estranea alla psicologia del selfie made man. Il banale problema è che l’altra mano è perennemente impegnata a brandire lo smartphone… [1]
[1] Non mancano gli inconvenienti. Come si fa usando una sola mano ad allacciarsi un paio scarpe, a tagliarsi una bistecca, ad annodarsi la cravatta? Calzerà solo mocassini? Addenterà la bistecca portandola alla bocca con la mano libera? Imparerà ad allacciarsi con le dita di una sola mano una di quelle cravattine con l’elastico che i maschietti indossavano per la Prima Comunione? Ah saperlo, saperlo!
Per alcuni leader quella del selfie rappresenta ormai la lingua ufficiale. L’altra, quella che esige la fonazione, serve a poco e non merita di essere coltivata. L’autentico selfie made man fa infatti uso di un solo pronome personale. È io, la prima persona singolare, l’unica declinabile dalla personalità ipertrofica del selfie-leader.
POST SCRIPTUM

(c) Joe McNally
Recenti studi paleontologi hanno accreditato l’ipotesi secondo cui il bisogno di replicare l’immagine imprigionandola in un riflesso di acqua e, più tardi, in uno specchio si perderebbe nella notte dei tempi. Potrebbe addirittura risalire alla fase di passaggio fra la cultura dei Neanderthal (estinti 40.000 anni fa) e quella dei nostri antenati sapiens sapiens. I fratelli Kennis hanno elaborato con strumenti particolarmente sofisticati l’immagine dei una femmina Neanderthal sorpresa dal selfie scattato con uno smartphone in pietra lavica da parte di un remoto precursore del nostro selfie made man. La poverina non ha capito bene perché quell’individuo barbuto le puntasse in faccia una selce gridando “Prima i sapiens sapiens… Tornate alle caverne… La pacchia è finita”. Valli a capire… e li chiamano pure sapiens sapiens!
NICOLA R. PORRO
Nicola, il tuo contributo di oggi è una prima colazione gustosissima. L’icona della donna nostra antenatal e la sua espressione rabbuiata siglano una riflessione critica in cui giustamente distingui la costruzione progressiva e complessa(anche quando violentemente imposta) del sé individualistico dalla seriale e superficiale autorappresentazione, priva di vero racconto. Anche il narcisismo- sotteso ad entrambe le forme-è di marca molto diversa.. Grazie ancora.👏
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Sempre piacevolissima la caustica ironia di questi articoli. L’osservazione sull’ inutilità della fondazione è magistrale.
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