Il personale è politico. E la maternità?

di VALENTINA DI GENNARO
In un interessante numero speciale della storica rivista del femminismo, DWF  (Donna, woman, femme) dedicato a un tema rimasto inevaso nel dibattito femminista:  il vissuto della maternità in tutte le sue contraddizioni, leggiamo: “Il personale è  politico. E la maternità?”
“Cosa è accaduto per rendere l’esperienza della maternità  quasi un tabù, un vuoto di parole, per sottrarla al discorso pubblico? 
Donne che per anni hanno fatto i conti con il proprio corpo, per liberarne il piacere, per liberarlo dal destino biologico  e culturale,  per difendere l’autodeterminazione, non hanno poi trovato  lo spazio  per raccontare desideri e esperienze  di maternità. “
Eppure la maternità è una delle potenti esperienze del corporeo femminile. 
Le donne, da sempre escluse, fino a pochi decenni fa, dall’istruzione formale dei maschi, hanno riservato invece, per la loro genealogia, saperi e conoscenze relative alla gravidanza e al parto. 
Dalle superstizioni alle nenie, ai canti della culla a cui le donne affidavano i loro lamenti per la stanchezza e le speranze per il futuro.
Basti ricordare gli studi di Giuseppe Pitrè e i canti della notte del sud Italia, nei quali le madri cantavano, nell’accompagnare i figli al sonno, le loro fatiche nella cura della casa e dei figli, e tramite le quali chiedevano a Dio, ai Santi o a figure mitologiche, di prendersi cura momentaneamente dei loro figli, ma poi di riportarglieli al mattino, una volta riposato.
Le donne di ceti sociali più elevati, fino alle fine del Settecento, e anche per buona parte dell’Ottocento, affideranno i figli alle balie. Pratica che verrà abbandonata pian piano con l’avvento della  “nascita del sentimento dell’infanzia” come lo chiamerà Philippe Ariés, decenni dopo, analizzando quel periodo, in cui si eviteranno quelle pratiche in favore di un contatto più intimo con la madre, eliminando il baliatico, anche se è bene sottolineare come fosse una esigenza tutta maschile, infatti, le donne, si credeva, non potessero avere rapporti sessuali durante l’allattamento, e quindi gli uomini affidavano i figli alle balie per far sì che le mogli non abbandonassero i doveri coniugali a lungo. 
Si ricomincia a vedere la donna, la madre, come colei che deve prendersi cura del bambino in prima persona, sin dai primi attimi di vita, e a lei, viene ri-assegnato il compito di insegnare le prime competenze, la parola, la lettura.
Nella letteratura femminile, abbiamo esempi illustri, Janet Frame, nell’autobiografia “Un angelo alla mia tavola” racconta il carattere salvifico della scrittura e della poesia, nelle quali si rifugia da giovanissima e alle quali la introduce la madre, poi, Simone De Beauvoir  racconterà di come la madre fosse stata la sua prima insegnante, nel libro che ne racconta l’agonia (Una Morte Dolcissima), ed infine come non citare Natalia Ginzburg e le lezioni della madre, dalle quali si sottraeva di buon grado e che ricorda in “Lessico Familiare”. 
Dalla seconda metà del Novecento, ad un certo punto, il parto, quei saperi della genealogia femminile, diventano materia scientifica prettamente maschile, si comincia a partorire in ospedale (menomale!), ed è sicuramente una grandissima conquista di sicurezza per le donne, ma cominciano una serie di pratiche che subiscono le donne, in virtù di procedure mediche del tempo, invasive e spesso non necessarie. 
Ecco che allora l’autodeterminazione, la conoscenza dei propri diritti e la scelta sul proprio corpo, attraversano decisamente anche la maternità, quindi. 
L’informazione sui servizi che la legge prevede, quali siano i diritti, quali le procedure, le possibilità di analgesia diventa to materia di divulgazione dei consultori. Tutte attenzioni che, possiamo dire, ormai accolte e praticate anche in tantissimi ospedali. 
Le contraddizioni quindi sia tra maternità e femminismo, ma anche di maternità nel femminismo. 
Come si coniuga la necessità di rivedere i ruoli di “cura”, di cui tanto si parla come di qualcosa ad appannaggio totalmente femminile, e il desiderio di maternità ? 
Quali nessi vivono le madri che sono anche attiviste e impegnate in vario modo dentro ai movimenti delle donne?
Durante la gestione dell’epidemia di Covid 19, soprattutto in quella situazione così stravolgente che è stata il lockdown del marzo 2020, ci siamo trovati essenzialmente davanti ad un problema di cura. Un problema di cura, di chi dovesse curare e di quali soggetti tutelare.
In seguito, il problema è diventato la cura dei minori che rimanevano a casa, senza scuola, ma che non potevano andare a stare dai nonni, dato che la loro cura era affidata proprio a questi ultimi nel quotidiano prima del Covid, e ora mentre le attività aprivano, le madri tornavano al lavoro, chi si sarebbe occupato di loro? Abbiamo scoperto, dunque, che il welfare italiano si basava sulla disponibilità dei nonni e sulle donne, disoccupate, che si occupavano dei figli, di anziani soli e disabili. Nelle altre nazioni europee le scuole sono rimaste chiuse molto meno rispetto all’Italia: una delle motivazioni è proprio legata alla occupazione femminile. 
Le donne italiane, disoccupate in percentuale molto maggiore rispetto alle altre donne europee, erano a casa e potevano occuparsi dei figli.
  
Le donne così hanno continuato il lavoro domestico, quello professionale, quello di cura dei minori e anche quello di sostegno alla didattica a distanza.
Eroine antistoriche, legate al ripetersi delle proprie abitudini, per lo più, indotte da una educazione che discrimina le donne e che, in questo periodo, ha inequivocabilmente anche condizionato le scelte governative.
Ecco che il dibattito sopito su maternità e femminismo dovrebbe partire proprio da qui.
VALENTINA DI GENNARO