LE INDAGINI SEGRETATE DEL PROVICARIO LABAT / (II.2 – CONTINUA DALLA PUNTATA PRECEDENTE)
di FRANCESCO CORRENTI ♦
Da quanto ho esposto finora, risulta palese che i nostri delicati compiti, coperti da molta discrezione, riguardavano sovente l’attività professionale di alte e celebri personalità. Il Cavalier Carlo Fontana, erede del Cavalier Bernini, in quell’anno 1710 del nostro esordio civitavecchiese, era ancora il principale protagonista dell’architettura romana, con molti incarichi progettuali sparsi in Italia e in Europa, benché ormai anziano e di salute malferma, peggiorata due anni prima per la gravissima perdita del figlio Francesco, appena quarantenne e suo principale collaboratore. Proprio negli ultimi anni, Carlo, era stato sentito più volte dal Padre Lettore Fratel Giuseppe Maria Fati, per consigli su qualche ammodernamento della nostra biblioteca, avendo brillantemente curato, a Roma, l’allestimento della Biblioteca Casanatense entro il Convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, biblioteca pubblica affidata appunto all’Ordine dei Predicatori, secondo la volontà ed il lascito del cardinale Girolamo Casanate, con testamento del 5 ottobre 1698, che aveva donato la sua collezione di circa 25.000 volumi, insieme alla somma di 160.000 scudi.
Anche il Cavalier Bernini era stato un abituale frequentatore della nostra casa di Civita Vecchia, ai suoi tempi, nella sua lunga ed amplissima operosità in tante forme dell’arte, che avevano avuto anche sovrapposizioni e promiscuità con ambienti o persone a noi molto vicini, come era stata la scultura dell’elefante, messo con le terga rivolte offensivamente verso il portone della Minerva. In proposito, però, devo testimoniare che dal mio ineffabile direttore (spirituale) nonché, se così si può dire, capo-Uffizio, non ho mai sentito una parola men che rispettosa nei confronti del rinomato Cavaliere, Architetto e Scultore (in questo caso autore del progetto ma non esecutore materiale della scultura), nonostante gli improperi, le invettive e i dispetti reciproci intercorsi all’epoca tra l’artista ed i frati, la cui eco gli era sicuramente giunta ad ogni suo soggiorno nella Casa madre dell’Ordine.
Grande era, quindi, la sua considerazione, ad esempio, per il progetto dell’Arsenale di Civita Vecchia, per la piazza della Basilica di San Pietro, per Sant’Andrea – la chiesa dei Padri Gesuiti vicino al Palazzo papale di Monte Cavallo – o ancora per la facciata del Louvre verso San Germano di Auxerre. E tuttavia non riusciva a trattenere, accanto agli elogi, un lieve commento finale un po’ ironico, come per la statua di Luigi XIV, opera egregia, «ma forse non così ben riuscita come ci si doveva aspettare da quel sommo». Era il suo carattere, amabilissimo e generoso, eppure sempre con una piccola dose di critica sottile, che non risparmiava neppure a se stesso. E, quindi, figuriamoci, al «più grand’uomo che vi sia stato in pittura, scultura e architettura civile, Michel Angelo Bonarota». Che, se ha messo mano – come dice qualcuno – nella Fortezza di Civita Vecchia, ha mostrato di non essere «un gran mago, un grand sorcier, nel campo dell’architettura militare».
Archiviata brillantemente la questione dei leoni – destinati, povere bestie, a non trovare mai pace, sbattuti qua e là, cavalcati da grandi e piccini, presi a martellate e pure rinzaffati di gesso come un maritozzo alla panna – siamo stati immediatamente incaricati di quella che mi sembra un’avventura di un certo interesse, se non altro per descrivere i nostri metodi investigativi. Ma voglio sgombrare subito il campo da equivoci. Contrariamente a quelle che sono forse le apparenze, non è mia intenzione indurvi alla lettura d’un racconto sbirresco. Quel genere di invenzione prosastica, lo sappiamo, richiederebbe, anche per noi che operiamo proprio all’interno della Congregazione, innumerevoli passaggi e visti preventivi per ottenere il Nihil obstat indispensabile per dare alle stampe i nostri scritti. L’Imprimatur è, invece, di immediato rilascio in opere di edificazione spirituale e con intenti di alto senso morale, destinate all’istruzione della gioventù presso la Scuola dei Padri della Dottrina Cristiana nella piazza della Stella, accanto ai Forni della Città e delle Galere, tanto sulle cose della Religione quanto sui loro doveri e gli apprendimenti propri dell’istruzione.
Quella volta, il riesame dei libri dei conti si è spinto ancora più indietro nel tempo ed ha riguardato certi lavori nella Darsena, cioè nel Porto dove si ritirano le Galere di Sua Santità ed è sbarrato sulla bocca da una catena, ma dove si permette anche ai piccoli bastimenti di rifugiarsi durante il maltempo, che li farebbe soffrire troppo e li metterebbe in pericolo se restassero nel Porto grande, aperto ai venti. Si trattava del lungo periodo che vide Antonio Cordini, fiorentino della contrada di San Gallo, impegnato in diversi lavori camerali a Civita Vecchia e a Roma. Mercé l’insegnamento e l’appoggio degli zii materni Giuliano ed Antonio Giamberti, architetti di fama, e la grande pratica di cantiere fatta a Roma, dove era giunto giovanissimo dopo l’elezione di Giulio II, da legnaiolo era rapidamente divenuto esperto nell’arte delle costruzioni. Dotato d’ingegno e di capacità di apprendere, scrupoloso e costante, era riuscito a migliorare tutte le sue qualità e le sue cognizioni, da quelle di cultura architettonica allo stesso uso della lingua e della scrittura, in cui inizialmente stentava. Venendo così a contatto di Donato Bramante e di Raffaello Santi da Urbino, di fra’ Giovanni Giocondo da Verona, di Baldassarre Peruzzi da Volterra e d’altri grandi esperti di tante contrade, a cui s’ha da aggiungere il sommo Lionardo, era apprezzato e consultato anche da illustri colleghi su problemi di statica e di restauro. Si badi, la mia parva scientia riguarda altre sfere dello scibile, nu lla so di architetti, ingegneri e scultori o pittori: sto copiando queste annotazioni dagli appunti stesi da Padre Labat, sapiente di suo e che trasse le notizie da volumi della biblioteca del Convento avuti da Padre Fati e da colloqui con numerose persone informate sui fatti delle corporazioni cittadine gravitanti sul settore.
Nel caso specifico, ci era stato ordinato di appurare un fatto che si supponeva accaduto, come ho detto, durante i sondaggi dei fondali della Darsena. A Civita Vecchia, quella volta, il sospetto Cordini era giunto dopo l’ottobre o novembre 1517, ma anteriormente al 24 novembre 1519, per compiere le operazioni di scandaglio, utilizzando per riportare le misurazioni (tirchieria?) il disegno del progetto preliminare elaborato intorno al 1515 o poco prima. Lo scopo era di ripristinare in tutto il porticciolo la profondità originaria, togliendo quanto vi si era accumulato nel corso dei secoli, rendendo l’acqua limacciosa e con ingombri sommersi pericolosi: la melma dovuta al deposito della terra portata dall’acqua piovana aveva coperto la pavimentazione traianea ed anche le macerie degli edifici che Rutilio Namaziano aveva visto circondare il bacino e che erano via via crollati.
L’assegnatario dell’appalto dei lavori, Giulio de’ Massimi, s’era obbligato a concluderli entro venti mesi per un importo a base d’asta di 4.000 ducati d’oro. Per dirigere i lavori e per stabilirne le modalità, le parti si rimettevano, nel contratto, al giudizio di frate Bramante, che però morì l’11 aprile 1514, per cui non era presente al verificarsi dei fatti successivi. Al puro scopo di completezza della pratica, tuttavia, Padre Labat volle approfondire una questione che lo incuriosiva morbosamente, ovvero capire che cosa bramava il Bramante, ma per quante ricerche abbia fatto fare negli archivi della Congregazione, non s’è venuti a capo di nulla.
Tornando agli scandagli, l’informativa che ci era pervenuta dal Bargello e per cui avevamo dato inizio all’attività investigativa, iscrivendo nell’apposito registro custodito presso l’ufficio la “notitia criminis” ed il nome dell’indagato, naturalmente il Cordini, riguardava un foglietto di carta inviato da questi al collega Giuliano Leno (il nome era chiaramente indicato in fregio al papello), ritrovato appallottolato tra altre scartoffie evidentemente eliminate, in un butto della Rocca di recente fatto ripulire dal Cancelliere. Il foglio conteneva un disegno, uno schizzo veloce ma preciso, con un appunto: «Chome lo brachio uolò». Vi si vedeva uno zatterone in acqua, di quelli usati per sfogare cose sommerse chiamati pontoni, con un paio di persone a bordo a braccia protese e un grosso oggetto, che aveva proprio la forma d’un grande braccio umano e che cadeva in mare, con una freccia ricurva che indicava la traiettoria di caduta.
Padre Labat ne fece una copia fedele, completando alcuni tratti sbiaditi o non chiari, dopo aver disteso e spianato le pieghe del foglio. Così abbiamo proceduto all’esame accurato del disegno, usando per ingrandire i dettagli la lente obiettiva (brevetto di Galileo Galilei) acquistata a Pisa l’anno scorso al mercatino sotto la Torre pendente.
Scartata l’ipotesi che la grossezza del braccio fosse effetto di prospettiva, per essere in primo piano nel disegno, ma dato per buono che si trattava d’un avambraccio lungo all’incirca due volte una figura virile adulta, raddoppiando un’altezza media di 2 braccia e mezzo, quell’avambraccio era lungo 5 braccia e tutto il braccio intero sino alla spalla 10 braccia. Ora, e qui era uno dei motivi per cui Padre Labat mi aveva scelto come assistente, potevo ben dire come chirurgo che quel braccio mozzo, com’era disegnato, non era certamente d’un nostro simile vivente – o non vivente, che tanti n’avevo visti a Montpellier ed a Marsiglia sui tavoli anatomici – mentre quel tipo di sezione era proprio d’una statua di bronzo, che pure ci era capitato di osservare. Ma non è chi non veda – dedusse il mio Maestro – che una statua il cui braccio dalla spalla al polso o pure al palmo è lungo 10 braccia, ossia 30 palmi romani, equivalenti a 3 canne (architettoniche), pari a 3/5 d’una catena (architettonica), non è una statua a grandezza naturale. Sic stantibus rebus, vuol dire che si trattava di qualcosa di grosso, insomma di un Colosso. Un Colosso che risultava essere stato nelle mani di un pubblico funzionario dello Stato Pontificio, il Cordini, e che per sua stessa ammissione scritta era poi “uolato”, volato via, sparito! Non occorre dire che quel verbo volare, al Padre Labat ed a me suonava, in modo tremendamente ammonitorio, molto, troppo simile al nostro “voleur”, ladro!
Le considerazioni che ho riferito (tutta la vicenda e la sua conclusione escludono che io stia incorrendo nella violazione a posteriori del segreto istruttorio) vogliono evidenziare che il nostro problema, una volta pervenutaci l’informazione, cioè la rappresentazione grafica di un fatto i cui connotati esteriori consentivano di sussumerlo in una norma incriminatrice, per poter procedere all’esercizio dell’azione penale, consisteva nell’individuare un comportamento in possibile violazione del codice penale o d’altra norma penale, capace di dar luogo ad una imputazione, ossia alla contestazione di una ipotesi di reato, il cui esecutore principale era palesemente il Cordini, ma che poteva anche configurare l’associazione a delinquere con la complicità di figure ancora del tutto ignote, a parte qualche indizio nei confronti del Leti.
I riferimenti legislativi erano complessi. A prescindere da più gravi reati, dovevamo fare molta attenzione alle competenze della Congregazione del Buon Governo sul particolare aspetto dell’amministrazione dei domini temporali della Chiesa, quindi il controllo delle finanze delle comunità e dei loro beni. Nei quali potevano ricadere, per quanto non afferente alla R.C.A., opere dell’ingegno o cose del mondo antico. La bolla di Clemente VIII Pro Commissa del 15 agosto 1592 aveva definito in dettaglio tutta la materia. Con la bolla di Paolo V Cupientes, del 4 giugno 1605, le disposizioni della Pro Commissa erano state ribadite. La competenza del Buon Governo «fu poi meglio precisata: la congregazione giudicava innanzi tutto le cause relative a redditi e proventi delle comunità, quelle relative alla loro politica annonaria, quelle relative al saldo dei conti degli amministratori di entrate e beni comunitativi».
Ci preoccupava il fatto che, «esplicando quei poteri, il Buon Governo «si era trovato non di rado in contrasto con altre istituzioni di molto peso, quali la Congregazione della Consulta, e con la stessa Camera Apostolica». E al riguardo, c’era il fatto che di recente (per i tempi dello Stato della Chiesa), cioè nel 1693, «un anno dopo l’abolizione di tutte le cariche solitamente assegnate ai nipoti dei pontefici, la Pro Commissa era stata nuovamente pubblicata, aggiungendo una più chiara competenza anche su persone ed enti ecclesiastici».
Se c’era il legittimo sospetto, la legitima suspicione, che un bene pubblico, della R.C.A. o della Communità era ancora da accertare, fosse stato da qualcuno, vivente o meno (data la possibile damnatio memoriae), in tempi passati ma non prescritti, rubato, trafugato, nascosto, dovevamo capire, valutatene le dimensioni, dove poteva essere stato celato, occultato, certo sottratto alla vista. Fu allora che entrambi, scambiatoci uno sguardo e annuendo, ci siamo alzati, scendendo poi di buon passo – non veloci ma rapidi – nella nostra Chiesa per osservare le statue sugli altari, ma né quella di Santa Fermina che si porta in processione, né quella di San Vincenzo Ferrer, o quella della Madonna del Rosario e il Crocifisso della cappella in fondo, avevano una dimensione molto maggiore del vero, neppure lontanamente paragonabile a quella del Colosso. E neppure quelle due da porre nelle nicchie in facciata secondo il progetto labatiano, Santa Caterina e l’altra di Santa Fermina in marmo, che erano appoggiate nel magazzeno dietro la sacrestia in attesa d’essere poste in opera, potevano darci un’idea della grandezza extraordinaria di quella del disegno.
Padre Provicario si diresse, allora, nel chiostro (quella specie di cortile irregolare che al tempo chiamavamo così), per risalire di sopra ed imboccare la porta della Libreria, dove trovammo Padre Fati. Alla domanda se ricordava nulla di una qualche grandissima statua, o parti di quella, trovate in città, f’ra’ Giuseppe rimase un momento pensieroso, poi dopo le spiegazioni sul disegno che gli demmo, alzò la bocca verso il naso sporgendo le labbra in una posizione particolare, dietro i baffi e la barba, aggrottò la fronte e prese a muovere su e giù la testa lentamente con mossa pensosa ma affermativa. Padre Labat incalzava… «Un grande braccio!? È stato mai trovato un braccio colossale? Una testa… una gamba… un…» e qui si fermò interdetto, con un mezzo sorriso o forse più una smorfia… «Que le Seigneur nous évite et nous libère!» e allora mi sono ricordato io pure del famoso episodio imbarazzante accaduto qualche tempo prima nella cappella della Stella, quando si era rischiata l’applicazione della pena del Taglione secondo l’Antico Testamento per la sciagurata mutilazione operata da un giovane Prete troppo zelante alle statue di due Angeli in marmo bianco.
Fratel Giuseppe ci rassicurò che nessun pezzo di statua gigantesca e tanto meno grandi statue intere, a sua memoria, erano stati ritrovati, mentre colonne e pezzi di colonne, capitelli e parti di edifici, anche pezzi scolpiti, bassorilievi e cose del genere, sì, anche qualche busto e alcune statue intere, ma di dimensioni ridotte, beh, di quelli se n’erano trovati e se ne trovavano un po’ dovunque e, alcune colonne, si sa, erano state reimpiegate anche nei nostri altari.
Ma qualcosa del genere, qualche ricordo di cose trovate nel mare, a ben pensarci, gli tornava in mente, cose lontane nel tempo, racconti sentiti per caso, parole lette chissà dove… Forse, sì, ecco… ma certo! un ricordo più chiaro doveva averlo fra’ Domenico Felidonio, che si è proprio occupato dell’altare di San Vincenzo, dove erano state sistemate le due colonne tortili di marmo nero ritrovate nel porto e aveva raccolto una serie di testimonianze su quei reperti, sulla somma donata da un devoto per costruire l’altare, decenni fa… C’era scritto qualcosa nel libro delle Ricordanze… A proposito! Oh Signore!
E qui la storia si è colorata di… mah, che dire? d’un colore sospetto, del colore dei racconti sbirreschi, come li chiama qualcuno, direi di nero, di grigio, di viola, perché, ecco, il nostro impareggiabile Padre Fati, una volta focalizzato quel vago ricordo, ci fece una rivelazione davvero sconvolgente, in quel momento iniziale della nostra istruttoria.
Padre Fati, con i suoi settant’anni suonati, era il miglior Predicatore della Provincia Romana, il più dotto religioso dell’Ordine, il più attivo frate di tutto il Convento. Era sempre al lavoro, in libreria e in città, per completare e aggiornare il cabreo contenente in figura geometrica tutti e singoli beni stabili che presentemente gode il Convento di Santa Maria di Civita Vecchia – il Campione, lo aveva chiamato – ed aveva una memoria incredibile, conosceva ogni vicenda delle 57 case e degli innumerevoli fondi del Convento e dei debiti e crediti e lasciti (i censi e gli obblighi attivi e passivi) e delle messe da celebrare. Le sue esortazioni fatte dal pulpito erano talmente belle e vive da meritare i ringraziamenti pubblici del Governatore Prelato ogni volta che veniva ad ascoltarlo. Ed ora, da quella mente prodigiosa, dai ricordi inoppugnabili di quel sant’uomo di bene, riaffiorava una reminiscenza che apriva uno spiraglio di luce e nello stesso istante lo ricacciava senza possibilità di recupero nelle tenebre più imperscrutabili delle profondità del mare!
Quel libro, non ci si crede! quel libro era tra quelli… disse proprio così: «tra i libri megliori del Convento, quelli dove erano annotati, con tutti i riferimenti del caso, gli aventi e danti causa, i censi più importanti, le obbligazioni più vincolanti, i fatti più riservati e alcune questioni segrete (alcune sotto il vincolo della confessione), ma adesso non è possibile più rinvenire l’origine, l’obietto, i nomi, l’anno, il rogito di notaro, perché sono ora mancanti dal nostro archivio, nell’armario corazzato di blinde della Libraria, per esser stati gittati in mare dalla finestra del corridore che affaccia sul porto da frate Ambrogio che impazzì!»
Mi sono spiegato? Il libro delle Ricordanze, quello in cui c’era notizia, forsanche una relazione precisa, dei fatti riguardanti il Colosso, bene, quel libro era tra quelli gettati a mare da fra’ Come-si-chiama… che era impazzito?! Gettati a mare!? Eliminate le prove?! A mare! come il braccio colossale…
Gli occhi sbarrati, la fronte aggrottata, la bocca aperta, le mani congiunte con forza in un battito sonoro, scuotendole poi più volte a dire il mio stupore e sconforto, incredulo, sbalordito, costernato, esterrefatto, io ho avuto improvvisa contezza dell’enormità delle rivelazione.
Ma Padre Labat, senza batter ciglio, disse soltanto: «Cancellati per sempre i debiti verso il Convento di tanta povera gente…» e non aggiunse altro.
Siamo allora corsi tutti e tre fuori dalla Libreria, alla ricerca di fratel Domenico, ch’era il cuoco del Convento, ed alcuni chierichetti saliti su al nostro piano dalla scala ci avvertirono d’averlo visto entrare nel Refettorio. Siamo scesi allora nuovamente al pian terreno, trovandolo effettivamente nello stanzone, dove aveva portato una cesta di pane per la sera dal nostro forno nella piazza di Camporsino. Senza fargli capire gli aspetti coperti dal segreto istruttorio, Padre Labat chiese al confratello cosa ricordasse di quei fatti esposti da Padre Fati e ora per un fato avverso affatto sfatati. E lo sventurato rispose: «Rammento perfettamente. Tutto comincia qui in chiesa. La quarta ed ultima nicchia di destra – come sapete bene – è quella che, senza le prescritte autorizzazioni dei superiori, sine visa nec pareatis, avevo dedicato alla beata Giovanna, Infanta del Portogallo, e ne è seguito un putiferio, per cui ora è dedicata a San Vincenzo Ferreri, grande predicatore spagnolo, non ho capito ancora se per una questione di equilibri della Segreteria di Stato tra le potenze iberiche. Ricostruendo la storia della cappellina, ho potuto risalire al tempo del Santo Padre Alessandro 7°, all’anno 1656, quando il farmacista Sante Rossi (una corporazione, quella de’ farmacisti e speziali, che ha dato molti fattori di bene alla Città), con i 200 scudi d’un debito condonato al Convento, fece costruire l’altare, adornandolo con due colonne che si dicevano ritrovate nel porticello, la Darsena delle galere, moltissimo tempo prima. Cioè, quando il grande pontefice Leone 10°, quello dei dieci mascheroni, fece sistemare i fondali. Ma venite…» E così dicendo, fratel Domenico ci condusse fuori dal Refettorio, facendoci poi scendere da una scala sotto al piano del Chiostro.
Fu Padre Fati, una volta discesi, a spiegare dove ci trovavamo: «Dieci anni fa, in questa parte del Convento, c’erano ancora case e forni e diverse fabbriche antiche dirute, che restavano tutte sotterrate fino alla strada antica che abbiamo ritrovato sotto da ii. a i2. palmi avanti alla facciata della Chiesa. Da questo lato verso il Mare, in questa Cantina in cui siamo, che porta a molte Grotte qui dietro, anticamente vi erano l’officina e il Refettorio antico a fior del Mare, dal quale si ritirava dal Mare la Barchetta che tenevano i Religiosi per andar a’ diporto per Mare, come si cava dalle memorie antiche. Questo comodo ebbe termine quando la Felice Memoria del Santo Padre Urbano, 8° del suo nome, fece costruire la nuova muraglia della Città con uno spazio di circa 8 piedi dai nostri muri, chiudendo ogni passaggio verso il Porto. La muraglia è abbastanza spessa da contenere un cammino di ronda largo 5 piedi, fortificato da merli portati su beccatelli. Questo muro – ormai lo sapete bene anche voi – costituisce tutta la faccia del Porto e, in basso, c’è il camminamento (come vi ho già detto, si chiama la Calata ma è anche la zona da cui prima c’era la salita dal porto alla terra, anzi possiamo ben dire le salite, perché ce n’erano diverse, con le case – e la nostra chiesa – che arrivavano fino a lì, quasi entrando fino al mare con portici aperti e gradini davanti) adatto e ben sostenuto da un muro dalla parte del Mare, che forma una banchina – stretta per la verità – ma che resta comunque d’una grandissima utilità ed è una bella passeggiata, inutile dirlo: ci siamo stati tante volte a godere della vista del Mare e della frescura del mattino.»
Prese poi la parola fra’ Domenico, avvicinatosi ad una scansia da cui aveva tratto delle carte, posandole poi sul tavolo lì avanti e sfogliandole: «Il lavoro commissionato da Papa Leone, come ho potuto verificare consultando la pratica negli uffizi in Rocca, fu svolto con molta cura. L’appaltatore, eseguendo il lavoro, non doveva mai chiudere l’ingresso della darsena, né impedire che i naviganti per loro comodo vi entrassero.
Da sua parte, egli aveva il diritto di prendere il legname occorrente dalle selve camerali, senza alcun pagamento; d’introdurre in Civita Vecchia tutto ciò di cui avesse avuto bisogno, senza pagare gabella; di avere, nella rocca vecchia e nella nuova, tante stanze, quante gliene fossero occorse; di appropriarsi tutte quelle cose di valore, antiche o naufragate, che sarebbero venute fuori dalle acque. Attenzione: ricordate bene questo punto! Le quali acque, spurgate allora e approfondite anche al di là della misura convenuta, ché in alcun punto raddoppiarono l’altezza fino a 20 e più palmi (cioè più che 2 canne). Di tutto prendeva nota il Cordini da Santo Gallo, assistito dal Leno, e riferiva al Bramante.
Le misure degli scandagli, fatti allora nella darsena e nel porto maggiore, si leggono nelle carte, in cui però nulla si dice se quelle cose di valore, antiche o naufragate, di cui pure si fa chiarissimo cenno, siano poi effettivamente venute fuori dalle acque. Sappiamo bene che poi quei luoghi, abbracciati poco dopo dalla nuova cinta del Santo Gallo, formarono tranquillo e capace bacino, che fu d’allora in poi utilissima appendice del porto.»
Noi seguivamo quei ragionamenti con comprensibile curiosità. Anche ammirati dalla precisione con cui frate Felidonio, cuoco del Convento e abilissimo creatore della ricetta del riso al latte delle mandorle che ci aveva deliziato nei giorni di magro in cui non si può usare che l’olio, era riuscito a “cucinare” (e in quel momento a servirci come su un piatto d’argento) tutte quelle notizie e quei particolari.
E, infatti, proprio quando eravamo giunti al punto giusto di cottura, se ne uscì dicendo: «Ma qui c’è un dettaglio riportato dall’ambasciator di Venezia Marin Sanudo, un pettegolo micidiale che ha però il pregio della sincerità e dell’attendibilità dei suoi diari, come quando parla delle scorrerie delle truppe imperiali “cristiane” nella campagna veneta, compiute senza alcun sentimento di umana pietà e di moderazione evangelica e deve riconoscere che le crudeli truppe dell’Impero Ottomano, i terribili Turchi, non avrebbero fatto peggio:
Et udendo queste voce de fuogi, per veder la verità andai fino in zima dil campanil di San Marco, che si fa nuovo la zima, a hore 22, et vidi le grandissime crudeltà fanno i nimici, che si fusseno turchi non fariano pezo.
«Egli riferisce, nelle sue cronache diaristiche, delle battute di caccia al cervo organizzate da queste parti frequentemente da Leone 10°, papa Medici, come quella memorabile con un seguito di duemila cavalieri, fra i quali tanti letterati ed artisti. Tra le altre, parla di quando il Santo Padre, nonostante il tempo inclemente, venne a Civita Vecchia e seco condusse il conte piemontese Pietro Navarro, comandante dell’armata navale francese e persona ingegnosa, con la fama di saper recuperare dal fondo marino ed estrarre dal mare del naviglio affondato, grazie ad uno istrumento speciale e naturalmente tenuto ben celato alle spie nemiche ed agli amici non affidabili. Lo scopo ufficiale di quel viaggio improvviso e fuori dalle consuetudini, infatti, fu che, a seguito d’un terribile fortunale scatenatosi sul porto, un galeone di quattro alberi s’era coricato su un fianco, immergendosi così sul fondale, su cui s’erano poggiate, sprofondando nel limo, 81 bocche di cannone di bronzo, con tutti i loro affusti in legno di quercia.
«In realtà, da una serie di strani indizi appare evidente che, ad essere colato a picco, con gran dolore del Papa, era qualcosa di bel diverso. Qualcosa per cui si organizzano sopralluoghi misteriosi, si chiamano esperti molto speciali, si inventano notizie devianti. Infatti, ulteriore prova che tutte le fonti “autorizzate” non la contano giusta è il resoconto fatto nelle sue relazioni da quello che è ritenuto nell’ambiente l’asso nella manica (ante litteram), Leonardo da Vinci, che a parte tutte le cose di cui è magistralmente esperto, ha fatto studi e disegnato una serie di vestimenti e copricapi per immergersi e poter lavorare “negli abissi marini”.
«È lui che prima di partire da Roma parla a lungo in segreto col Bramante, che va a Civita Vecchia con un seguito di vari carriaggi strapieni, che ci si ferma a lungo, possiamo dirlo con piena tranquillità, costantemente accompagnato da Antonio Cordini e da Giuliano Leno, muniti d’una fettuccia da misura con riportati i pollici, i palmi, i piedi, le braccia, le canne (architettoniche) e le catene, pronti a misurare qualunque cosa venisse da lui richiesta, e che lui annotava su grandi fogli volanti, di cui aveva magna scorta. E qui un dettaglio curioso. Come il Cordini adopra carta riciclata, così pure Leonardo utilizza vecchie carte usate, già istoriate dai suoi segnacci balordi, tra disegni e scritture incomprensibili. La materia prima difetta, evidentemente, ed è assai costosa. Il rimborso per il materiale di cancelleria è fatto a piè di lista dopo ogni trasferta e richiede pezze d’appoggio che non sempre “Salai”, Giangiacomo, fedele ma disordinato, gli tiene in ordine. Quindi i fogli contengono appunti e studi di varie epoche e questo determina una grande confusione. Non è chiaro neppure se a Civita Vecchia Leonardo fosse accompagnato anche da Francesco Melzi, che nell’équipe vinciana aveva il ruolo del segretario e del conservatore, con il compito – nelle riunioni promozionali con sovrani o cardinali (come avviene ancora oggi con quelli che i gazzettini appellano “architettori siderali”) – di raccogliere e asportare al termine dell’incontro qualsivoglia frammento cartaceo (o tovaglia o mouchoir) sia stato toccato dalla penna o dalla matita del Maestro. Fatto sta che nelle carte, oggi raccolte in codici, del sopralluogo civita–vecchiese di Leonardo, nulla appare del vero motivo di quella trasferta. Leonardo parla di Chamere, di Portichi, di Cholonne, ma non dice una sola parola su cose subacquee che sia una! Eppure, possiamo supporre a buon diritto che tanto Antonio Cordini, toscano come lui, quanto Giuliano Leno, da tempo stretto collaboratore di Bramante, con ruoli crescenti nelle iniziative edilizie di Papa Leone ed abile imprenditore egregiamente organizzato per gli appalti e in grado di condurli a lungo senza necessità di pagamenti, lo abbiano immediatamente messo a parte dei reali desiderata pontifici.
«Dire che i due, senza ricorrere a maestranze troppo ciarliere, abbiano indossato essi stessi proprio quelle attrezzature portate dal grande scienziato, abbiano collegato i condotti impermeabili dei loro elmi subacquei ai meccanismi delle pompe montate sul pontone e si siano calati nella darsena o in altri luoghi alla ricerca di quel “qualcosa” che stava tanto a cuore al Papa, forse è troppo, ma senza tema di smentite possiamo supporre che qualcosa sia avvenuto. Il disegno del “Braccione” ci fa intuire anche il seguito e in parte l’epilogo.»
Fratel Domenico Felidonio, abituato per mestiere a saperci prendere per la gola, dopo averci ammannito quella sbobba di notizie ed averci rimpinzati ed ubriacati con la sue conoscenze enciclopediche, si è poi divertito a prenderci non per il naso, come in certi passaggi m’era sembrato, bensì, metaforicamente, per le orecchie, portandoci – come invece sogliono fare “manualmente” i già ricordati Padri della Dottrina Cristiana in piazza della Stella, a lato dei Forni, per istruire la gioventù disattenta – a seguire con precisione e concentrazione la sua esposizione dei fatti narrati nel fascicolo della scansia.
«Ascoltatemi bene, perché la storia è complicata. Di sicuro, in tutti gli scandagli iniziali e gli svuotamenti delle macerie, molte cose in fondo alla darsena erano state ritrovate. Già Baccio Pontelli, Lorenzo da Pietrasanta e Giovannino de’ Dolci, nell’eseguire i grandi lavori voluti da Sisto 4°, devono aver rinvenuto cose notevoli, e così sotto il papato successivo d’Innocenzo 8°. Oltre ai materiali finiti nel bacino a seguito di crolli, nei secoli della decadenza, possiamo pensare che quelle “cose di valore o antiche” di cui si fa menzione negli appalti – prova che si rinvenivano abbastanza di frequente – potevano esser “naufragate” durante le incursioni saracene, cadendo accidentalmente in acqua nel momento del loro carico a bordo delle fuste, per la concitazione di quei frangenti, l’affollamento sulla banchina delle varie bande di ritorno alle navi dalle razzie, la resistenza dei prigionieri catturati, la dimensione di alcune delle cose trafugate, l’urgenza di ripartire ed anche, forse, l’approssimarsi pericoloso per le vele degli incendi appiccati alle costruzioni vicine.
«E allora, l’insieme delle prove e delle testimonianze raccolte ci portano ad interpretare il disegno del “braccio volante” nel senso che quell’arto colossale, ripescato dal Cordini e dal Leno sul fondo della Darsena, a circa due canne di profondità, è stato immediatamente segnalato, per le vie gerarchiche ma in modo riservato, al Bramante e a Papa Leone. Immediato deve essere stato l’ordine papale di non far parola del ritrovamento a nessuno e tanto meno a Giulio de’ Massimi, che altrimenti se ne sarebbe appropriato secondo i patti dell’appalto. Questo, perché Sua Santità lo voleva a tutti i costi in Vaticano. Il motivo era astuto e nato con immediatezza dalla logica del ragionamento. Non per nulla a concepirlo era il figliolo di Lorenzo il Magnifico. Quel braccio, da quanto riferitogli, aveva le dita atteggiate a reggere un’asta ma anche a benedire secondo l’uso cristiano.
«Nel porto delle Centum Cellae voluto da Traiano, una statua colossale non poteva essere d’altri che di Traiano. Il clima culturale della corte pontificia, ricco di richiami al mondo classico, si estrinsecava anche nella ricerca di continui accostamenti tra le opere promosse dai papi e lo splendore della Roma imperiale. Civitavecchia offriva, in questo senso (insieme ad Ancona, gemella adriatica), spunti particolari, non solo per l’imponenza dell’impianto portuale e per la sua conformazione – tale da rappresentare un prototipo ideale come aveva suggerito a suo tempo Francesco di Giorgio Martini – ma soprattutto per il grande prestigio conferitole appunto dal suo fondatore Traiano, figura celebrata per la clemenza ed il senso di giustizia nel comportamento verso i cristiani, che la leggenda medioevale, eternata dalle terzine dantesche, voleva addirittura – unico pagano – salvato dalla dannazione dell’anima. Quale maggior prova di ciò del braccio imperiale benedicente: In nomine Patris, et Filii et Spiritus Sancti? Leone già vedeva quel braccio posto a sporgere, gigantesco, dalla Loggia delle Benedizioni.
«Per portarla a Roma senza che alcuno la vedesse, quella cosa ripescata, si opinò di trasferirla via mare, girando molto al largo in tutta segretezza, verso le “Case nuove”, proprio sulla strada per Roma, dove certi personaggi pratici di traffici e trasporti, avrebbero dovuto farle prendere il “volo”. Mentre invece, per un accidente imprevisto, certamente un dannato colpo di coda di Lucifero, una corrente o un forte colpo di vento hanno fatto fare un altro volo e cadere di nuovo in acqua l’oggetto, ma questa volta in mare aperto. Con una profondità notevole.
«Da ciò i sopralluoghi e i consulti, fino alla risorsa estrema: il genio, gli studi e le strumentazioni di Leonardo. E qui posso riferire, e ormai sono il solo in grado di farlo, quello che era uno dei contenuti più preziosi del codice Ricordanze del nostro Convento, gittato a mare da fratello Ambrogio impazzito.
«Un foglio, quello del breve, con valore di vero e proprio contratto, sottoscritto motu proprio da Papa Leone 10° e controfirmato da Leonardo. Senza dubbio un patto leonino. Poche righe: In nomine Domini etc. etc. … il sottoscritto Leonardo accetta e si impegna a cavare da lo fondo del mare … le cose che saranno indicate da Messer Antonio da Santo Gallo et da Messer Giuliano Leno, nel punto de lo mare allineato a sinistra con la Lanterna del Porto et a destra con la Torre del Marangone etc. etc. … infino alla profondità di braccia: … E qui era stato lasciato uno spazio e tracciato un grande segno circolare, entro il quale Leonardo, di suo pugno aveva scritto chiaramente il valore numerico del suo impegno: 8i. Numero che concordava perfettamente, tra l’altro, con quello delle bocche da fuoco affogate dei comunicati ufficiali.»
E allora? Chiedemmo a quel punto. E fra’ Domenico, serafico: «Volete sapere come è finita la storia? La cosa finì lì, perché poi, a Civita Vecchia, quando i due architetti camerali fecero presente che dai portolani risultava una probabile profondità del sito, in cui compiere l’immersione negli abissi marini e cavarne da lo fondo le cose, di circa 75 braccia, il grande Leonardo, afferrando con la mano del braccio sinistro la lunga barba fluente, rispose:
«E chi ci arriva?! Ma che, siete matti? Ahó! io mi sono impegnato per i8, leggete bene: i8! E ripeté il numero scandendolo: Di-ci-òt-to!
«Ed era effettivamente cosi, bastava leggerlo nel verso giusto.
«Raccolta ogni sua cosa – le tantissime carte, i numerosi libri e qualche discreto dipinto – e riempiti questa volta con quelli tutti i suoi carriaggi, di lì a breve, dopo aver presentato alla R.C.A. e, per prudenza, anche alla Segreteria di Stato, la parcella delle prestazioni effettivamente svolte e il relativo rimborso delle spese documentate, con un incremento a titolo d’indennizzo per la mancata possibilità di svolgere sul “brachio” o “braccio” che dir si debba gli studi anatomici a cui tanto teneva, Leonardo accolse l’invito di Francesco I re di Francia e lasciò per sempre Civita Vecchia, Roma e l’Italia.»
Si è concluso così il primo dei casi di cui ci siamo occupati nella città papalina: il caso del Colosso rimosso. Da quel che risultava a fratel Domenico Felidonio, Sua Santità Leone X, figliolo di Lorenzo il Magnifico, lo aveva totalmente rimosso dalla sua mente e non aveva più voluto saperne di braccia e d’altre appendici. Altrettanto rimossi il Colosso e il suo braccio lo furono dal porto di Civita Vecchia e dal ricordo dei pochi che n’avevano avuto contezza e lo sono tuttora, in attesa di qualche evento inatteso.
Padre Labat, invece, mi disse d’avere intenzione di cercare, sulla vicenda, di saperne di più, compiendo un’operazione che – a parer suo – sarebbe stata tentata altre volte, in futuro, a Civita Vecchia, perché ci sarebbe stato sempre qualcosa di cui capire cos’era, com’era e dov’era e provare a conservarla così, com’era e dov’era: il che era del tutto impossibile, in quella Città e Porto di Mare d’Italia nello Stato della Chiesa e del Patrimonio di San Pietro.
Divertito e soddisfatto dell’avventura vissuta, quella sera mi sentivo in vena di confidenze e, quindi, prima di chiedere come sempre al Padre Labat la sua benedizione per la buona notte, gli dissi: «Mon cher Père, je suis enchanté par les Italiens, ces gens de Civita Vecchia, qui nous ont accueillis avec tant de sympathie et d’amitié!»Sorridendo, il Provicario parlò: «Ecoute moi, cher Ami, maintenant que nous sommes ici depuis peu de temps, étant des étrangers, voire d’autres nationalités, nous avons été accueillis avec joie et déférence. Et maintenant nous sommes presque considérés comme des compatriotes spéciaux. Bientôt, lorsque les travaux de la façade auront atteint la hauteur du portail, ils nous considéreront des personnages extraordinaires et nous idolâtreront. Mais cela durera peu de temps. La sympathie avec laquelle ils nous verront diminuera lentement mais visiblement. À ce stade, les travaux qu’ils m’avaient demandés avec tant d’insistance seront terminés et l’église de Sainte-Marie aura son nouveau visage. Beaucoup ne l’aimeront pas. A ce moment-là, nous aurons été absorbés, encore tolérés, mais ce sera une question de semaines et immédiatement après certains nous haïront. Encore un instant et tout le monde nous rejettera et quand je retournerai à Paris et toi à Carpentras, nous serons presque complètement oubliés, mais avec une touche négative dans la mémoire fanée.»
(Per copia conforme: FRANCESCO CORRENTI)
Racconto misto di storia e invenzione(per dirla con Manzoni) a tratti esilarante, come nella vicenda peregrinatoria dei due leoni o nel gioco freudiano del “rimosso” brachio! Io non conosco i legami di cui parli tra le istituzioni ecclesiali di Civita Vecchia ed artisti di chiara fama come Bernini e Fontana. Ma ho letto d’un fiato questa seconda puntata del tuo feuilleton, che chiami fiaba ma che ha la struttura di un romanzo, del genere Mazzucco.Una scorribande deliziosa come le illustrazioni che l’accompagna o. Bravo davvero… 👏
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Alla visita di leva, il 19 febbraio 1959 (lo ricavo dai disegnini del mio articolo “1959. Canizie”, pubblicato qui il 30 ottobre 2020) ero alto un metro e ottantasette. Dopo aver letto il commento di Caterina credo di aver superato d’un balzo i 2 metri e mezzo! Grazie. Mi riservo una risposta più articolata in seguito, perché l’ora è tarda e sono atteso di là (?) ma non potevo non dare subito un segno di vivissima gratitudine.
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