2040. La sorpresa. Un racconto futurista – 1
di FRANCESCO CORRENTI ♦
La sorpresa che mi hanno fatto oggi i miei nipoti Federico e Livia è veramente bella, perché ne comprende tante, un susseguirsi di cose inaspettate, direi quasi incredibili e tutte molto piacevoli. Hanno voluto venirmi a prendere con la nuova auto – una Qfwfg – di Livia, che ha preso la patente qualche giorno fa, e mi hanno portato verso Civitavecchia, dove non andavo da qualche tempo. Queste auto ad energia lunare in infusione fredda sono straordinarie, confortevoli al massimo, naturalmente silenziosissime. Il fatto che viaggino sollevate di circa un metro dalla superficie stradale e che si guidino col pensiero, programmando il percorso e regolando secondo le circostanze velocità ed eventuali variazioni, mi fa impazzire! Se ripenso a quei nostri veicoli del secolo scorso, la “Balilla” dei miei, la “Topolino” di zia Dina, la “IM3” di quando ero studente, o ancora a quelli degli anni Dieci, poco più d’una ventina d’anni fa, le varie “Toyota” ibride e pseudoelettriche, non credo ai miei occhi!
La prima cosa piacevole di cui mi sono accorto nel viaggio è stata quella di vedere, al casello di Torrimpietra, che non c’era più il casello, nel senso che mancano le porte, dato che l’autostrada adesso è libera, aperta, senza pedaggi. Altrettanto, quindi, ho visto al casello d’uscita, quello di Civitavecchia Sud, come si diceva allora. Usciti da lì, l’altra bella sorpresa è stata quella di scorgere subito, dall’alto della rampa, la Torre del Marangone completamente isolata, perfettamente restaurata, imbandierata, sullo sfondo del mare, proprio come l’avevo prevista nella Variante 24 al Piano regolatore.
Dire che mi sono un po’ emozionato quando Livia ha imboccato una bella superstrada affiancata da alberature, tutti alberi di mori gelsi, secondo il consiglio dato da Antigono Frangipani nel 1761 («e così le donne potranno anche industriarsi con i vermi da seta», diceva lui), oltre che da piste ciclabili a destra e a sinistra, ed ho letto sul cartello segnaletico che quella era la Variante Aurelia, è dire poco. Vedere poi sulla sinistra quelli che ricordavo come i quartieri di Boccella e di San Gordiano, con edifici multicolori non proprio entusiasmanti e villette sparse di grande modestia ed apprezzare ora un insieme gradevolissimo di belle architetture dai materiali pregevoli e dai colori armonici, immerse nel verde, tra giardini curatissimi, e con il livello pedonale completamente distinto da quello veicolare, tutto interrato, ha aggiunto emozione ad emozione. Oddio, ammetto che l’architettura di queste case è un po’ strana per me, forse l’avrei definita “avveniristica”, così poco materica, essenziale, quasi trasparente… ma Federico mi ha fatto notare che si trattava di una raffinata interpretazione in chiave ultramoderna, estesa a tutto quel comprensorio, dello straordinario progetto di Renato Amaturo del 1989, rimasto allora sulla carta (lucida)!
Scendendo leggermente verso il fosso di Scarpatosta, noto che la valle è anch’essa molto verde, ma le spalle sono interamente coltivate a formare un unico grande orto, di verdure di ogni genere, con riquadri delimitati da piantagioni d’alberi da frutta e, ovunque, recinzioni con siepi e grandi macchie di alloro, pardon, di “lauro”.
Poi vedo la chiesa di San Giuseppe, completata come da progetto, anzi, esattamente riportata al suo aspetto originario del nostro progetto del 1978, con il campanile alto e lineare sulla destra, a delimitare la lunga rampa d’ingresso della Via Crucis, con la grande croce che si staglia sul fondo prospettico insieme agli altri simboli oggi di rito, e la sale per le attività di condivisione interreligiosa. Al riguardo, mi dice Livia che è stato commovente il messaggio di Papa Abramo (Ibrāhīm per i fratelli musulmani) all’indomani della sua ultima visita qui, il mese scorso, nella ricorrenza di marzo che qui chiamano, pare, il “Giorno di Beethoven”.
Perfetto lo stato di manutenzione del Parco della Cooperazione e delle Foibe, con l’Uliveto in piena fioritura, il famoso pilastro cilindrico spiraliforme senza manifesti, gli spogliatoi ed i campi sportivi – senza un pelo fuori posto – animati dalle tute e dalle magliette variopinte degli atleti e di intere scolaresche sulla pista e sulle gradonate del bellissimo anfiteatro, affiancato dal pergolato su pilastri coperto dalla spettacolare esplosione di colori sgargianti delle brattee delle Buganville, che qui presentano una sofisticata sequenza di rosa, fucsia, magenta, lampone e viola.
Perfette, tutte nuovissime, davvero belle e con balconi magnificamente fioriti (quelli dell’Alto Adige/Südtirol sembrano pallide imitazioni, al confronto) le case lungo la Mediana e, dopo, abbiamo lasciato a destra una grande piazza con ampia rotatoria di collegamento tra Viale Togliatti e Viale Nenni, al centro della quale (ma è proprio una fissa locale!) è posto un gigantesco gruppo scultoreo con tre statue, in cui riconosco la posa e la fisionomia dei grandi urbanisti e miei maestri, Luigi Piccinato, Renato Amaturo e Nico Di Cagno, sorridenti, in una posa, a dire la verità, un poco enfatica, con le braccia e le mani a palme aperte, ad indicare (“E voilà!”) i quattro punti cardinali e i quattro settori urbani della città, il Quarto di Levante, il Quarto di Ponente, il Quarto di Mezzogiorno e il Quarto di Tramontana.
Ed ecco, mi vien da dire, commovente, il Parco della Resistenza, l’antica Villa Antonelli, con il suo Viale degli Ex Internati che ora, alle due estremità, è dotato d’una targa in marmo bianco integra e linda, con tanto di stemmino civico a colori, che porta anche la dicitura «Aurelia nova» in bei caratteri lapidari ed i cui cento pilasti hanno visto ripristinata la loro funzione originaria di elegante e simbolico schieramento di pretoriani della Coorte imperiale, allineati ai lati della nuova circonvallazione traianea. Come facevano fin dal Settecento, sorreggono i pali del pergolato, simili alle «pila» cioè alle lance del loro armamento, coperti dai pampini dai rami di viti rigogliose da cui pendono grandi grappoli, intervallati da piante di glicine e da altre di Buganville, come all’Uliveto. Mi conforta, pensando ai tanti che devono percorrere il viale tra Via Achille Montanucci e Viale Palmiro Togliatti, la semplicissima copertura trasparente, praticamente invisibile, una volta a botte a tutto sesto continua per tutta la lunghezza del viale, costituita da elementi modulari connessi tra loro da piccole piastre di raccordo di titanio ceramizzato in biossido di zirconio. Non solo protegge dalla pioggia, ma quando il sole è forte e la temperatura si innalza, filtra e riduce la luce fino a schermarla del tutto, creando una piacevole ombra su tutta la quasi bimillenaria passeggiata
Mi fa un immenso piacere vedere, più oltre, dei segnali stradali che indicano, sul colore marrone di fondo, i pittogrammi del Museo e del Monumento/Sito storico, del CDU (!!!), il “Centro di documentazione urbanistica sull’assetto del territorio e la storia urbana”, con accanto, tra parentesi, le parole «URBAN CENTER» (!!!!) e con il segno dei siti UNESCO Patrimonio dell’Umanità, per elencare le attrazioni culturali che – mi assicura Livia – rappresentano la parte più richiesta del pacchetto turistico offerto dalle ormai affollatissime crociere specialistiche, suddiviso in “Patrimonio di San Pietro in Tuscia” e “Territorio degli Etruschi”, a seconda degli interessi particolari del viaggiatore. Le prenotazioni più in voga sono per la visita al “Portone OC”, al “Laboratorio internazionale di studi urbanistici”, alla “Collezione delle vedute e delle ricostruzioni”, alla “Planoteca e la plasticoteca” ed al “Caveau dei DOC” (Documenti Originali Cartacei), in cui è conservato in speciali contenitori climatizzati l’intero archivio storico riguardante la storia urbanistica della città, con manoscritti e dattiloscritti, disegni su carta lucida, atti amministrativi, delibere. Il pacchetto comprende soggiorni di studio personalizzati su temi circoscritti, con esercitazioni e partecipazioni a campi scuola che danno la possibilità di vivere esperienze emozionanti. Tra le tematiche più popolari, il corso di IV livello “Lice-O”, della durata di sei mesi, in cui il turista viene immerso completamente nel clima della richiesta di una “licenza edilizia ad ostacoli” negli anni Cinquanta del XX secolo, tenta di avere indicazioni e moduli, partecipa (senza voto) alle sedute della Commissione Edilizia, viene arrestato e interrogato, subisce perquisizioni anche corporali e sequestri, avendo come tutor attori di fama che interpretano via via un sostituto, un maresciallo dei carabinieri, un assessore e un usciere del Comune. Al termine dei sei mesi, non ottiene nulla, non gli viene restituito il bagaglio e viene abbandonato senza denaro e senza indumenti all’estremità dell’antemurale.
Ma il piacere maggiore mi è dato dalla notizia, che entrambi i nipoti si affrettano a darmi, parlandosi uno sull’altra, a gara, tutto d’un fiato, che il Parco pubblico, adesso, si è ampliato a tutto quello che era il perimetro originario di PRG, prima dell’accoglimento dell’osservazione che aveva consentito di realizzare quel gruppo di edifici, solo quattro corpi di fabbrica ma ben quattordici corpi scala di otto piani. Così che ora la superficie totale del Parco è passata dai 2,33 ettari di prima a più di 3,67 ettari, con una serie di attrezzature per le varie fasce di età, un ridimensionamento della parte per gli animali domestici da compagnia (con varie specializzazioni) ed un orto botanico con arboreto per le scuole, dove sono state reimpiantate le coltivazioni sette-ottocentesche, grazie a ricerche fitogenetiche e ricognizioni dei reperti radicali nel sottosuolo. Questo studio ha permesso, inoltre, di rintracciare e rimettere in luce alcuni resti archeologici pertinenti ad un sepolcro del II sec. d.C., mentre diversi frammenti di decorazione architettonica in terracotta, mescolati a pietre e detriti in un’area di accumulo degli spietramenti agricoli, sono indizio della presenza nei paraggi di un piccolo tempio molto più antico, forse addirittura di epoca etrusca.
Ma il racconto dei nipoti prosegue, mentre Livia imprime alla Qfwfg un lieve moto ascensionale per permettermi di spingere lo sguardo su tutta l’area a verde. Vedo così che è stato ripristinato anche il “Chiosco”, di nuovo direttamente accessibile dal Viale Togliatti: si chiama «Kiosque mozarabe des Huîtres et des Champagnes» ed ha posteriormente un «Patio de los Leones» assai elegante, con le sue fontane ricche di vasche, canalette, zampilli, cascatelle in lunghi allineamenti gorgoglianti. Si direbbe una sequenza ispirata, in versione ultramoderna, a quella di Villa Lante a Bagnaia, che segue il pendio della collinetta ripristinata e arricchita da un piccolo belvedere in cima, con comodi sedili, dove giunge un sentiero avvolgente, che scavalca le cascatelle su un ponticello in legno. Questo, è poggiato sui blocchi di scaglia provenienti dalla Porta Romana di Pio V Ghisleri. Una bella “lapide sonora” didattica spiega a chi siede lassù che il luogo ricorda quello che si trovava appunto all’interno della Porta Romana ed era detto il “Monte delle Ciarle”, dandone una spiegazione suggestiva, supponendo che lì si svolgessero le sedute del famoso “Ottimo Consiglio”. E ricorda, soprattutto ai bambini, che come il Parco, neppure la vita è tutta in piano, ma ci sono delle salite – spesso faticose – come pure delle discese, più facili ma da stare attenti anche lì. Le bordure delle aiuole sono realizzate con bonsai di ciliegi, permanentemente fioriti, che vengono chiamati “I love Sugawara-san” e ce n’è dappertutto, ma in particolare, come mi mostra poco dopo Fede, caratterizzano le aiuole del Pincio, dove arriviamo dalla “Porta del Torii”, il passaggio con il grande portale shintoista che riproduce quello del tempio di Shiogama-jinja, costruito da “nostro” daimyō Date Masamune nel 1607, qualche anno prima della Missione Keichô condotta da Hasekura Tsunenaga. Perfetto il volume ottagonale dall’Aula consiliare, con le pareti libere da rampicanti e le finestre con i riquadri azzurri illuminati dall’interno, esattamente com’erano alla vigilia dell’inaugurazione, il 1° giugno 1997, anche con la scritta spray su una parete laterale, poche lettere e sgorbi senza senso, che pensai fatta fare proprio dall’amministrazione, ad evitare altre frasi davvero ingiuriose. E così il resto del complesso comunale, con la bella piazza civica e, appunto, il giardino giapponese, con le statue, sedute in pose molto naturali, alcuni con la pipa, qualcuno che accende la sigaretta ad un altro, tutti i sindaci che sono saliti al governo cittadino, in cordiale sequenza suggestiva e pacifica. Al centro, la campana civica della Rocca, alta sul fastigio a quattro gambe a volute in ferro battuto, ripreso da quello posto in cima alla Torre del cardinale Amico Agnifilo.
Ed è proprio qui che è avvenuto il miracolo. O se volete, i miracoli. Quando tutte le statue sparse per la città, quelle che avevano sembianze umane ma non solo, improvvisamente hanno mutato espressione e sui loro volti in origine impassibili sono apparse, inspiegabilmente, le inequivocabili manifestazioni del riso, dell’allegria, della felicità. Le statue, tutte le statue, ovunque, di ogni tipo, hanno riso. Quegli occhi di marmo o di bronzo, quelle bocche, quelle gote, si sono mossi, piegati, inarcati, ristretti o allargati, dischiusi o assottigliati, arricciati o distesi, con rughette perioculari, solchi naso-genieni, pieghe naso-labiali, frontali e gabellari, lateroboccali e periorali, facendo assumere a quei visi un tempo imperturbabili, forse austeri o inespressivi, un aspetto ilare e gioviale, spensierato e ottimista. Pure la terribile (d’artigianato dozzinale e tuttavia diffusissima ovunque) immagine del santo frate, atteggiata insensatamente ad un momento d’ira così lontana dalla santità e dalla bontà del personaggio, ha mutato i lineamenti in una espressione serena, serafica, serotoninica.
Anche il cosiddetto “monumento al Carabiniere” o forse piuttosto “trofeo-fregio dell’Arma” (con qualche incertezza sulla prevalenza o meno di uno dei due termini in relazione alle ascendenze macedoni o etoliche ed al carattere paratattico, votivo, parodistico o para-qualcos’altro dell’armamentario simbolico), non avendo visi in sé né fuori di sé, ha trasmutato il grande elemento simbolico della “Granata infiammata” in una rappresentazione molto simile allo Stregatto di Walt Disney derivante dal Gatto del Cheshire di Lewis Carrol, facendo apparire sul disco circolare la famosa dentatura smagliante del mici-diale sorriso. Gli unici rimasti impassibili, nella loro immobilità cementizia e nella pungente acutezza dei rigidi becchi, gli uccellacci preistorici della fontana a Piazza della Pace.
È stato così che gli edifici abnormi dell’isolato sul porto hanno iniziato un processo di sgretolamento. Io che sono nato un lustro prima dei piani di ricostruzione, ho lavorato intensamente con i piani di recupero ed ero ormai in pensione al tempo di quelli di rigenerazione, trovo molto positivo che i miei nipoti abbiano a che fare con i piani di resurrezione, perché così le cose sono molto più semplici. Mi dice Fede che, in sede legislativa, c’è stato un approfondito dibattito sul nome da dare al nuovo strumento urbanistico – tra rinascita, redenzione, palingenesi e trasfigurazione la scelta era molto complessa, con risvolti ideologici profondi. Poi, il meccanismo automatico dell’operazione ha risolto ogni dubbio, dato che in effetti era improprio anche parlare di piani. Era un fatto, un evento e basta.
Va detto, a questo punto, che tutti i palazzoni del Corso, l’antica Prima Strada, e gran parte di quelli della “ricostruzione” del centro storico erano stati, da molti anni, abbandonati, perché le strutture portanti, costruite nel dopoguerra in modo affrettato, erano ormai pericolanti. Una persona, di cui i soliti bene informati dicono di conoscere perfettamente l’identità, ha acquistato tutto quel coacervo di cubature, naturalmente per poche migliaia di “Earthi” (dimenticavo, è la nuova moneta universale) dato lo stato precario di quelle volumetrie. È vero che poi, a seconda della collocazione di quei “bene informati”, il personaggio indicato è diverso: uno o l’altro di due ex qualcosa o forse una combine di entrambi, oppure un altro personaggio ancora, uno molto “mobile” quanto a posizione, o ancora “una” (una donna!), pure questa ex varie cose, che forse era la più motivata…
La leggenda, comunque, vuole che tutto sia cominciato quando, dal piccolo locale della “Macchina del Tempo”, si è iniziato a propagare una specie di “contagio” edilizio, per cui le murature, gli ambienti, il tessuto urbano subivano una vera e propria transustanziazione. Tutto ciò che era aggiunta moderna, intrusione di materia recente, superfetazione, sostituzione, si dissolveva, si disfaceva, mutando consistenza e forma. In breve, i quattro, cinque, anche sei piani in più realizzati in deroga, con le loro strutture in cemento armato e laterizi, i solai, le travi, i pilastri e i plinti di fondazione poggiati tra mosaici severiani ed opus traianei, divenivano come di vetro, trasparenti, e poi sembravano liquefarsi, assumere una consistenza impalpabile, aerea, e sparivano. Mentre riprendevano forma e materia le cose precedenti, tutto quanto era stato demolito e prima ancora distrutto dalle esplosioni.
A questo punto, sbalordito, con una faccia che lasciava trasparire tutta la mia meraviglia, ho guardato Livia e Federico ed ho esclamato: «Ma Civitavecchia non è più Civitavecchia! è cambiata completamente, è pazzesco!»
E quelli, ancora all’unisono: «Infatti, Nonno, non si chiama più così… non si chiama più Civitavecchia! E ancora non hai visto niente… la “Statua del Bracio”, il Forte San Michele, il Molo del Lazzaretto con il Fortino e tutti i Granai di papa Benedetto…»
«Non ci posso credere!»
[Fine della prima puntata]
FRANCESCO CORRENTI
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