LE INDAGINI SEGRETATE DEL PROVICARIO LABAT / II.1
di FRANCESCO CORRENTI ♦
Lo strano caso del Colosso rimosso (da Le manuscript du MD et NC Jean Watteau dit Gianvattò, tratto dai ricordi del Dottor Jean H. Watteau ex-assistente medico di J.B.L.)
[Traduco e trascrivo fedelmente le pagine del manoscritto, cercando di mantenerne lo spirito:]
Nel 1698 presi la laurea alla Scuola di medicina di Montpellier e mi trasferii a Marsiglia per seguire il corso di formazione chirurgica in quello che era allora l’ospedale del Saint-Esprit (oggi sostituito dall’Hôtel-Dieu), molto rinomato per l’eccellente preparazione igienico-sanitaria data dai garçons-chirurgiens in servizio nelle corsie ai pazienti da operare, con il tipico sapone di barrilla, la soda di Spagna, ed olio d’oliva puro, prodotto dai quarantotto saponifici cittadini che impiegavano seicento operai e millecinquecento forzati delle galere e l’esportavano in tutto il mondo. Il ministro della Real Casa Jean-Baptiste Colbert, con propri editti d’una decina di anni prima, aveva fissato le regole della produzione ed istituito il porto franco per battere la concorrenza di Livorno e Genova. Marsiglia era, in Francia, insieme a Rouen sull’Atlantico, il solo scalo dove fosse consentito portare merci dal Levante.
È stato proprio a Marsiglia, nel convento domenicano di San Cannato Vescovo, non lontano dal Santo Spirito, che ho conosciuto il padre Jean-Baptiste Labat il 2 aprile del 1706, lo stesso giorno del suo arrivo via mare da Béziers, proveniente da Tolosa sul canale della Linguadoca. Era partito da la Rochelle il 12 marzo e, passando da Rochefort e da Royan, si era imbarcato ed aveva raggiunto Bordeaux e proseguito appunto per Béziers. Abituato da anni a continui spostamenti per terra per mare, otre che a traversate atlantiche ed a lunghe cavalcate, si era presentato al Priore di San Cannato a chiederne l’ospitalità per la breve sosta della sua missione in Italia ed aveva poi tranquillamente partecipato, essendo Venerdì Santo, alla celebrazione dei confratelli in Passione Domini ed ai riti liturgici successivi. Io ero tra i fedeli presenti in chiesa. Dopo le preghiere vespertine della Deposizione del Signore, ero stato chiamato nel chiostro dal Padre Priore, che mi conosceva bene in quanto da sei mesi medico curante della comunità conventuale, appunto per esser presentato all’ospite.
Scambiate con me poche parole sulla mia laurea, il padre Labat mi espose una sua inattesa e dotta teoria, sostenendo che «a differenza di quanto accadeva a Parigi, a Montpellier la divisione e l’animosità fra medici e chirurghi non erano stati mai molto forti e questo aveva favorito il diffondersi d’una mentalità anatomopatologica e la messa in discussione della fisiologia tradizionale, per cui, di fatto, noi provenienti da quella scuola avevamo sviluppato una formazione clinica formale». Concluse, quindi, affermando che, secondo lui, ci sarebbero voluti ancora vari decenni prima che ciò potesse avvenire a Parigi e mi chiese se condividevo quelle considerazioni. Alla mia risposta positiva (e molto stupita, devo dire, oltre che non del tutto veritiera, avendo seguito e compreso solo in parte il suo ragionamento), mi disse che mi considerava un medico totalmente all’opposto dei medici “normali” e, senza altre parole, mi propose di unirmi subito a lui nel viaggio in Italia, per poi tornare in Francia e trasferirmi, al suo seguito, nei Caraibi per occuparmi della salute dei coloni e dei militari francesi e, soprattutto, di quella degli indigeni, che ne avevano estremo bisogno, anche per mantenersi in ottima salute ed in piena forza per le innumerevoli attività di guerra e di pace dirette da lui stesso. Mi sembra ancora adesso un fatto assolutamente incredibile ed inspiegabile e certamente fu in quel momento una cosa imprevista e addirittura assurda, ma senza proprio pensarci io risposi di sì!
E dunque, chiusi in gran fretta tutti i miei affari a Marsiglia, senza preoccuparmi d’altro che del mio bagaglio, dato che delle lettere di credito e del resto si occupava il mio nuovo Maître, il 13 aprile verso sera mi sono imbarcato con lui e altri Religiosi nella Barca del Padrone Jean (pure lui!) Baudœf, puntando la prua verso est in direzione di San Remo, prima tappa del nostro viaggio e della mia nuova vita. Tralascio gli avvenimenti del soggiorno in Italia, del Capitolo Generale dell’Ordine svoltosi a Bologna – dove il padre Labat ha fatto sentire energicamente la sua voce, ribattendo punto per punto alle insinuazioni ed alle vere e proprie calunnie contenute in un promemoria di accuse fatto giungere dal (solito!) Cabinet des dépêches du Secret du Roy – e delle altre tappe dopo la rinuncia all’andata a Roma, su suggerimento (praticamente, un ordine) del Padre Generale Antonino Cloche, fino al ritorno a Marsiglia a fine giugno e la prosecuzione con dei calessi per Avignone, Lione e finalmente Parigi, dove arrivammo il 30 luglio 1706, il reverendo padre Labat ed io, ormai suo collaudato aiutante.
Qui voglio, però, precisare qualcosa a cui tengo. Nei suoi resoconti di viaggio, pubblicati dal padre Labat con tanto successo di critica e di pubblico (quanto praticamente ignorati nella città di cui ci occuperemo) nel 1730 a Parigi e nel 1731 ad Amsterdam, egli mi definisce «un giovane Chirurgo della Contea di Avignone». Ora, devo dire che il mio dotto e impareggiabile Maestro, tanto era pignolo e preciso nel suo lavoro di architetto ed in tutte le altre attività – infinite! – di cui si occupava, quanto era approssimativo e superficiale nelle cose che lo interessavano poco. Io sono nato nel 1677 a Carpentras, capitale del Contado Venassino, e quindi sono suddito del Papa, sovrano anche della Legazione di Avignone, che è però una entità territoriale diversa e distinta. Anche se poi entrambe, come del resto Marsiglia, città del Regno di Francia, ricadono nella vasta regione dell’Occitania ed hanno molti tratti comuni, storici e linguistici, ma non devono essere confuse tra loro. Come la mia discreta conoscenza dell’Italiano è conseguenza evidente dei luoghi della mia infanzia e adolescenza, necessariamente plurilingue, anche se la mia famiglia paterna proveniva da altre regioni del nord del Regno e addirittura dalla Contea delle Fiandre, forse legata da una comune ascendenza a quella di Jean Antoine, di Valenciennes, che oggi è un pittore di grande successo.
Sul divieto imposto a padre Labat di tornare nelle Isole (lui aveva già fatto imbarcare alcuni bagagli per la Martinica) e, quindi, sulla mia frustrata opportunità di occuparmi della salute dei coloni e dei militari francesi e, soprattutto, di quella degli indigeni, che ne avevano estremo bisogno, io non aggiungerò nulla a quanto non detto dal mio buon Maître. Così, non dirò nulla del suo trasferimento al convento de la Rochelle nel 1708, del suo rientro a Parigi più di un anno dopo e, infine, della sua partenza per Roma avvenuta il 31 maggio 1709.
Devo però spiegare che, pur essendo sempre rimasto al convento dell’Annunciazione di Rue Saint-Honoré, cioè al convento parigino dei Giacobini, dove ero stato accettato su pressante raccomandazione (“suggerimenti e preghiere”) del mio protettore con le funzioni di medico curante come a Marsiglia, quel mio ottimo impiego ed il mio soggiorno nella capitale non durarono a lungo. Infatti, verso maggio del 1710, fui raggiunto da un dispaccio sigillato da Civita Vecchia, città e porto di mare d’Italia nello Stato della Chiesa e del Patrimonio di San Pietro, con il quale il mio Maître, in termini analoghi a quella sua prima proposta di Marsiglia, mi “suggeriva” di raggiungerlo immediatamente, per contrastare la possibile influenza nefasta dei medici locali sulla salute di quel convento… Allegava una congrua lettera di credito.
Qualche tempo dopo, ho preso alloggio in una confortevole cella affacciata su quella che era detta la via grande o Strada maggiore, di quella terra tanto distante dalla mia patria quanto lo era stata dai miei pensieri fino a quel momento. Nel segreto più assoluto, in incognito con il nome di Gianvattò e con compiti di cui forse farò qualche cenno, ma vagamente indicato come “assistente del Provicario”, avevo naturalmente avuto il beneplacito del Padre Generale dalla Minerva e del Padre Priore di qui, e la mia presenza era stata debitamente autorizzata dal Governatore Mons. Ravizza e, pertanto, fuori dai controlli e dall’interesse del Governator dell’armi Conte Ferretti e di tutta la Guarnigione. I contatti con i Magistrati alla testa della corporazione civica e con la stessa popolazione dovevano rimanere a distanza, senza altra manifestazione che la reciproca indifferenza e il distacco dell’anonimato. Ma, con una eccezione, altrettanto segreta, per una presenza che era stata scoperta dal padre Labat dopo il suo arrivo in città e che aveva determinato la sua decisione di chiamarmi a raggiungerlo.
Una presenza rivelatasi con risvolti fondamentali e strategici nel corso di quegli anni, che avrà grande importanza in tutta la nostra permanenza a Civita Vecchia e che avrà una decisiva influenza sul ritorno definitivo di padre Jean-Baptiste Labat nella sua Parigi e nel suo convento dei Giacobini dedicato all’Annunciazione in Rue Saint-Honoré, dove era stato accolto a Professione nel 1683. Parlo della provvidenziale presenza a Civita Vecchia del Signor Cavaliere de la Mothe d’Orléans, Capitano delle Galere del Papa e Comandante della Squadra, e della sua decisione, appena conosciuta nello Stato della Chiesa – e qui ora possiamo dirlo – la notizia della morte del Re Luigi XIV, avvenuta il primo settembre 1715, di accompagnare padre Labat fino a Marsiglia nel viaggio, appunto, del suo ritorno definitivo, che lo vedrà poi varcare la soglia del grande portale dal frontone triangolare (da lui nostalgicamente replicato a scala minore nel costruire il nuovo ingresso al Convento di Civita Vecchia), in quel fatidico 18 maggio del 1716, dopo un’assenza di sette anni e cinque giorni.

Nel tomo VIII, capitolo VI, dei Voyages non ne è fatto alcun cenno, per mantenere fino alla fine quel segreto, ma insieme al padre Labat ed al Signor Cavaliere de la Mothe d’Orléans, nel viaggio fino a Marsiglia, c’ero anch’io. E lì ci separammo dal provicario. Ed anche io, naturalmente, come il Cavaliere de la Mothe d’Orléans, anzi con lui, mi fermai a casa d’uno dei suoi parenti, dato che lo era anche mio! Con lui, benché la fatica del viaggio gli avesse procurato qualche accesso di febbre, abbiamo preso la vettura di posta per recarci presso la (nostra) famiglia a Carpentras, capitale del Contado Venassino, dove ero nato nel 1677, trentanove anni prima, pochi mesi e qualche giorno. Era passato un mare di tempo (anzi più d’uno!) dal 2 aprile del 1706, una giornata per me, per noi, memorabile per tanti motivi, la data dell’incredibile svolta della mia vita! Ormai, non ero più «un giovane Chirurgo della Contea di Avignone, preso a Marsiglia». Vicino alla soglia dei quarant’anni, spettatore e spesso osservatore partecipe (non a caso, “assistente”) d’una gran quantità di esperienze straordinarie, tornavo finalmente anche io alle mie origini. Con quella data del 2 aprile messa dalla mano dell’Angelo che rilega le pagine della nostra vita a mo’ di segnacolo, come il nastro in raso colorato del messale, vero e proprio segno della Provvidenza Divina. La festività di San Francesco di Paola, consacrata da Papa Leone X all’eremita fondatore dell’Ordine dei Minimi, era la prova di quella benevola predestinazione, pur condizionata dal libero arbitrio. Non mi dilungo, adesso, su questo aspetto che sarà approfondito in altra occasione. Basti dire che una chiesuola rurale con romitorio dedicata al culto del Santo era stata eretta nel 1680 da Stefano Vidau, originario di Cavaillon, nel Contado Avignonese, in una sua proprietà a sud-est di Civita Vecchia. E Paola, città della Calabria patria del Santo e sede della Cappella dove sono conservate alcune sue Reliquie, tra cui un famoso Sandalo, fu devotamente visitata da noi durante il viaggio in Sicilia sulla Capitana del Cavalier de la Mothe, per accompagnare a Malta Monsignor Delchi, Nunzio di Sua Santità presso il Gran Maestro.
La stessa vita di San Francesco fu un insieme di episodi che hanno trovato eco ripetutamente nella nostra, fino alla sua partenza dalla Calabria, da Paterno Calabro, il 2 febbraio 1483, al suo imbarco a Civita Vecchia ed al suo arrivo alla corte di Francia, chiamatovi da Luigi XI, dove visse nel Castello di Plessis-les-Tours per ventiquattro anni, fino alla morte.
Il nostro arrivo a Carpentras fu accolto con la gioia duplicata per il doppio ritorno in famiglia. Perché il Signor Cavaliere Francesco Carlo Domenico de la Mothe d’Orléans (detto anche de la Motte o della Motta nelle diverse espressioni) era cugino carnale di Margherita, figlia a sua volta di Bianca Rosa, sorella di Giulio Filippo. Questi ultimi erano rispettivamente il primogenito e l’ultima dei sette figli di Francesco Carlo Domenico de la Mothe d’Orléans, nonno paterno del nostro Signor Cavaliere Capitano delle Galere del Papa e Comandante della Squadra Pontificia. Mentre Margherita faceva di cognome da nubile Vidau, in quanto la madre Bianca Rosa era la moglie di uno zio dello Stefano trasferitosi a Civita Vecchia, ed aveva sposato Pierre (Peter) Watteau, che insomma – ecco dunque svelato l’arcano, il mistero, il segreto – erano i miei amatissimi genitori, che finalmente potevo così riabbracciare.
Mentre il Signor Cavaliere Capitano delle Galere del Papa e Comandante della Squadra Pontificia Francesco Carlo Domenico de la Mothe d’Orléans era mio prozio, proprio come lo era suo fratello Domenico Carlo Francesco, Luogotenente delle Guardie Avignonesi del Papa. Al quale, poi, era ben noto il mio Maître, protettore e datore di lavoro, padre Jean-Baptiste Labat dei Frati Predicatori, perché l’aveva conosciuto fin dal primo giorno del suo arrivo a Civita Vecchia, ed era stata proprio quella presenza segreta che aveva “suggerito” al Provicario quelle mosse altrettanto segrete, in vista della prossima nomina del fratello a Comandante della Squadra, da cui era nato tutto quello che vi ho svelato, rivelandovi il nostro segreto.
Dopo questa lunga premessa, necessaria per chiarire la realtà dei fatti a quanti hanno potuto conoscere solo la versione ufficiale pubblicata dal Padre Labat, passo ad esporre il primo dei casi di cui ci siamo occupati nella città papalina: il caso del Colosso rimosso. Nel raccontarvela, non seguirò esattamente l’ordine cronologico delle cose, perché dovrò anticipare alcuni fatti per dare il quadro completo di ogni episodio. Trasparirà ben presto, dalla mia esposizione, il tipo di attività affidatoci e lo scopo della mia assistenza al Provicario.
Clemente XI aveva autorizzato il riuso delle demolizioni del padiglione quadrato in pietra da taglio costituito dalla fontana che il buon Papa Sisto V aveva fatto fare addossata alle vecchie mura castellane e dall’altra realizzata specularmente da Urbano VIII, così da occupare tutto il centro della piazza d’armi, all’estremità occidentale della Città, venendo di conseguenza a nuocere molto alle esercitazioni che vi si facevano eseguire dai Soldati. A dire il vero, questa era una scusa inventata di sana pianta dai Visconti e Camerlenghi che, due a due, si succedevano ogni quattro mesi nella carica, estratti dai bussoli sull’altare di Santa Ferma, nell’ultima cappella a sinistra della nostra Chiesa. Infatti, la piazza primitiva era uno spiazzo triangolare ridotto, con una faccia formata dal Palazzo della Rocca, un’altra dalle cortine delle mura ai lati di Porta Corneto e la terza dai prospetti delle due case a tre piani attestate tra le varie strade. La mostra sistina era posta sulla faccia delle mura tra il torrione rotondo sul vertice della Rocca e la torre all’inizio della Terza Strada, a destra del varco con l’androne di Porta Corneto sormontato dalla sua torretta quadrangolare, aperta verso l’interno dal fornice ogivale e conclusa in alto dal coronamento dei merli e dei beccatelli. Rispetto a quello spazio ridotto ed infelice, una volta demoliti i tratti di cortina della vecchia cinta, la nuova spianata, pur se occupata al centro dalla doppia fontana, oltretutto di elegante architettura e forata dal grande arcone sulle vasche, era ben più che raddoppiata e per di più raddrizzata e resa quadra. Fatto sta che, a forza d’insistere, si ottenne dal Papa Innocenzo XI di abbattere quella grande fontana bifronte e di farne un’altra più piccola, con una vasca rotonda fiancheggiata da due leoni, davanti alla porta della Darsena.
La questione si è presentata nel momento in cui ci fu trasmesso per un Giudizio Iniziale Prudenziale – istituto fortemente voluto dalla Compagnia dei discepoli di Sant’Ignazio – una indagine avviata dalla Sezione Istruttoria della Suprema Sacra Congregazione del Sant’Uffizio di Palazzo Pucci. Vi era allegata copia di un esposto anonimo in cui erano formulate vaghe accuse di abusi in certi lavori della Reverenda Camera Apostolica fatti a Civita Vecchia, mescolate a frasi nebulose sulla responsabilità di alcuni celebri nomi di responsabili nel tempo della Fabbrica di San Pietro, tra i massimi che avevano operato al servizio dei Sovrani Pontefici, alcuni ormai da tempo accolti dal Signore presso di Sé, altri ancora in attività. La Sezione romana aveva già espresso il parere di procedere ai “colloqui assistiti” (che noi chiamiamo con maggior proprietà “interrogatori della corda”), in particolare per i Lavori fatti per una nuova fontana di Civitavecchia d’ordine dell’Ill.mo Rev.mo Mons. Imperiali, che risalivano al 4 maggio 1689, ben più di vent’anni prima, ed erano, già a prima vista, una scoperta manovra per insinuare sospetti e gettare discredito ai soli fini delle lotte tra poteri – anche quelli teoricamente lontani delle grandi monarchie europee ma in realtà presenti nei vari Stati italiani – e tra famiglie, costantemente in competizione. Per entrambi, oggetto delle mire e delle manovre, la periodica successione al Soglio di San Pietro e le alleanze e discordie connesse.
Le modalità di quell’appalto, la cui liquidazione era stata autorizzata da Carlo Fontana, architetto camerale, e dal quondam Mattia De Rossi, architetto assistente (Camerale I, Giustificazioni di Tesoreria, busta 233), sembravano molto sospette. Questo, almeno, secondo le considerazioni dell’inquisitore “costituto” all’esame che aveva firmato il documento, un certo Vaccarini, giunto a Roma da Palermo. Nel documento contabile da esaminare era scritto così:
Misura e stima delli lavori di scarpellino fatti per servizio della Reverenda Camera Apostolica e tutte le spese e fatture de li mastri Nazzaro Ferrari e Loreto di Nenna Capi Mastri Scalpellini Compagni, in aver fatto la tazza con balaustro e due leoni dalle parti per la nuova fontana di travertino, che si è fatto a Civitavecchia a piedi la piazza d’Arme rincontro la porta della Darsena.
Veduti e misurati da noi sottoscritti stimati a suoi giusti prezzi, secondo le loro qualità e fattura, come appresso distintamente segue: per il rustico di travertino, per la nuova tazza tonda lavorata di diametro palmi 7 e 1/6, altezza palmi 2 con l’aggetto a becco di civetta.
Per le cinque giornate del mastro stallaro impiegate tra l’andare da Roma e tornare da Civitavecchia è stato in detto luogo assistente a fare piantare li basamenti e zoccolo di travertino per il nuovo portone (Porta Marina) che si è fatto alla Darsena, acciò il lavoro si ponesse in opera secondo il disegno.
I lavori si sono da noi sottoscritti, misurati e stimato la loro qualità e fattura nella somma di scudi 111,46. Così diciamo mediante il nostro giuramento.
Addì 6 settembre 1689
L’inquisitore, nelle sue valutazioni sull’atto, avanzava il dubbio che le misure e quantità riportate fossero state enormemente “gonfiate”, così da far crescere in proporzione gli scudi da corrispondere. Anzi, per quanto riguardava i due leoni di travertino «che vanno dalle bande sopra li due piedistalli», veniva perfino ipotizzato che non fossero stati nemmeno realizzati dai mastri scalpellini, ma recuperati tra le pietre smontate dalla fontana di Papa Sisto. Fu questo il nostro punto di partenza, in quanto la demolizione era avvenuta da una trentina d’anni ed era ricordo generale di quanti v’avevano assistito che non vi fosse stato alcun leone a gettar acqua nella vasca. Va detto che la leggenda dei leoni come ornamento sistino l’ho poi sentita ripetere altre volte, a dispetto della verità, anche da brava gente, ma per quanto riguardava l’indagine è stata perentoriamente smentita, come è stata rigettata d’ufficio tutta la montatura dell’esposto anonimo, dimostrata inconsistente da’ conteggi matematici e da’ riscontri dimensionali del Père Labat, che comunque volle poi impartire l’assoluzione al contrito costituto, dopo avergli inflitto un’equa penitenza, protrattasi per molti mesi ma senza altre conseguenze.

[Commento di FC: Qui devo interrompere la trascrizione del racconto di Watteau per integrarlo con dati aggiornati ai nostri tempi. Confermando in pieno, comunque, le ultime frasi riportate. Oggi, infatti, possiamo dire che il figlio di quel tale, Gian Battista, nato a Palermo nel 1702, entrò poi «giovanissimo a far parte dell’entourage del cardinale Pietro Ottoboni, mecenate di Händel, Corelli e Juvarra. Seminarista e poi ordinato sacerdote, orientò i suoi studi verso l’architettura. A Roma fu allievo proprio di Carlo Fontana, seguendone l’impostazione che caratterizzava l’Accademia di San Luca e i suoi concorsi, incentrata sulla sintesi tra le idee di Bernini e quelle di Borromini. Non trascurando di studiare gli esempi di Nicola Michetti, Alessandro Specchi, Francesco de Sanctis e Filippo Raguzzini. Tornato in Sicilia intorno al 1730, lavorò principalmente a Catania, dando un contributo basilare alla grandiosa ricostruzione dell’impianto urbanistico dopo il devastante terremoto del 1693, seguito alla spaventosa eruzione dell’Etna del ’66, e realizzando il Palazzo Senatorio e la facciata della Chiesa cattedrale di Sant’Agata» sulla stessa piazza, la platea magna o “chianu ranni”, oltre ad altre opere di grande impegno. Reminiscenze scolastiche romane e tradizioni locali vengono così codificate in un originale, inesauribile e stupefacente “catalogo” di forme decorative, unificate dal comune denominatore della gabbia dell’ordine gigante formato da paraste e da specchiature intermedie, con alternanze su entrambe di superfici lisce o bugnate, come di bianchi e di grigi per i colori, sia per gli intonaci, sia per le pietre, con il grigio basaltico della lava, durissima, e il candore con tendenze al giallo della pietra bianca di Siracusa, tenera, intagliabile e levigabile. Un ulteriore legame con Roma è dato dalla fontana progettata da Vaccarini nel 1735 per la medesima piazza catanese, con il celebre “Liotru”, l’elefante in pietra lavica su cui poggia un obelisco, analogamente al “Porcino-Pulcino” che era stato posto nel 1667 da Gian Lorenzo Bernini nella piazza avanti alla Chiesa di Santa Maria sopra Minerva ed al Convento domenicano, con ispirazioni letterarie suggerite da Alessandro VII Chigi e accese polemiche che avevano contrapposto i Frati Predicatori da una parte e il grande Bernini dall’altra, con un imbarazzato Fontana coinvolto suo malgrado contro il suo capo e maestro e con Papa Chigi a fare da arbitro divertito e decisore ultimo e irremovibile. E qui termino la mia intromissione e lascio nuovamente la parola a Watteau.]
FRANCESCO CORRENTI
(II.1 – CONTINUA ALLA PROSSIMA PUNTATA)
Carissimo Francesco,
attraverso la tua conoscenza di anni ed anni, attraverso i documenti alla tua portata di mano, attraverso i disegni di Massarelli. perchè non ci doni una Guida tipo Touring della città nel ‘700 o nell’800. Immagina che l’amministrazione di allora ti abbia a te, uomo del nostro secolo,in un modo fantasioso commissionato questo lavoro. Tu che sei del nostro tempo scrivi come sai.
La guida ci introduce nelle vie ci mostra, soffermandosi, sulle opere più rilevanti. Con tuoi disegni e il “volo d’uccello” di Massarelli il lettore può, guida alla mano, percorre la città di oggi e costruire virtualmente il passato. Una guida agile che tratti solo del centro portuale.
La tua iconografia assieme alle note che Silvio fa periodicamente ci potrebbe immergere in un mondo a noi sconosciuto.
Come un sogno in cui noi, miracolosamente, siamo andati indietro nel tempo e passeggiamo, ignorati, tra le vie e la gente di un qualsiasi giorno del ‘700(o dell’800).
Sarebbe qualcosa di “orientato al cliente”, dunque accattivante, alla portata di mano, dunque di grande gradimento.
Tu puoi. Chi altri? Il mondo di Silvio disporrebbe di una quinta scenica fantastica.
Sogno ad occhi aperti?
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Sto conoscendo tanto grazie a voi di quella che considero la “mia” città, nonostante mi sia trasferita a Roma nel lontano 1970.Ma il luogo culla degli ameni inganni resta quello dell’anima. E io mi sento come il flaneur parigino tra le antiche strade di Civita Vecchia, della cui storia non so nulla, a parte i racconti e i ricordi della famiglia di mamma.. Ma grazie a voi la vado a prendo. Ve ne sono davvero grata e vi dico che il vostro blog fa un gran bel lavoro. Bravi tutti👏👏😍
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Ringrazio Caterina Valchera di quanto scrive, perché uno degli scopi di questi miei articoli è proprio quello di far conoscere la “mia” Civitavecchia a chi abbia voglia di conoscerla. Dal punto di vista “urbanistico” la “mia” è sicuramente molto simile a quella che la vostra città è stata in passato. Per tutti gli altri aspetti non so dire, perché non la conosco e non è la mia città.
Sul “sogno” del carissimo Carlo Alberto potrei dire che forse esiste già molto da potersi vedere “ad occhi aperti”, cioè fisicamente, da svegli. Parlo della città di cui ho detto sopra, alla gentile Caterina. In un suo minuscolo pezzetto, in quella città si può addirittura camminare, “virtualmente”. In altri – quelli che sono stati gli sviluppi moderni della “mia” città “immaginata” – si può camminare materialmente, ma con tutte le differenze e le difformità che sono proprie dei piani urbanistici e dei progetti di architettura realizzati come si è potuto ma non come si sarebbe voluto (e come volevano quei piani e quei progetti). Il solito “chome lo papa uole…”
Dare risposta agli interrogativi di Carlo Alberto potrebbe essere molto semplice e in senso affermativo.
Posso dire di aver chiamato, qualche tempo addietro Silvio, proprio per una idea molto concreta. Ma ci sono stati i contrattempi del Covid. Pochi giorni fa ho anche parlato a lungo con Arnaldo – come faccio periodicamente – e qualcosa ho scritto su Facebook in proposito. Con amarezza. Anche su altri argomenti analoghi, per chi voglia leggere le ultime cose che ho scritto qui su questo “blog”. E c’è un gigantesco problema di cui ho parlato giorni fa in Autorità Portuale al convegno Incitur, con tante importanti presenze e alcune assenze. Dove, per dirne una, è rimasta, “buttata lì” nell’atrio della sala conferenze, senza alcuna protezione, l’ultima delle dieci “Teste di leone con anellone” (1515-19) di Leone X di proprietà del Comune (ho firmato io all’epoca l’atto di riconsegna da parte del Ministero), dimenticata non so da quando! Come giacciono ancora nel prato che sapete (non ripeto dove per prudenza) i pezzi dello stemma di Benedetto XIV della fontana del Vanvitelli (1745) da me recuperati nel 1983 ed oggi usati come posacenere.
E quindi, come avrebbe fatto JBL di fronte ad un progetto, faccio quattro conti. Tralascio i numeri prima del 1969. E inizio così: 15 febbraio 1969. Poi dico 1977 (CDU). Ci metto, per affezione, il 1990 (Santa Maria e proprio JBL). E per farla breve, 2007, 28 maggio. Siamo nel 2021. 14 anni. In cui poco è stato costruito (anche cose egregie, ma con un’ottica diversa) e molto distrutto. Quindi, in conclusione, tanto tempo perduto in cui molto si sarebbe potuto fare, anche con finanziamenti già disponibili, per ritrovare e mettere insieme persone e risorse, lavoro ed idee, e così ricostruire l’Anima della Città scomparsa. E dato che l’Anima di Civita Vecchia mi richiama la Torre quadrata della Rocca e il Campanile di Santa Maria, Templare chiama Templare ed ecco il Campanile di San Giulio/Sant’Egidio. E tiro le somme.
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