FATTI E FATTACCI DELLA CIVITA-VECCHIA DELL’OTTOCENTO – 3. Tittirillo

di SILVIO SERANGELI

«Tittirì svejete, Tittirì arzete sinnò te butto giù dar pajericcio. Daje che dovemo d’annà, sinno nun se magna. E daje che l’artri stanno già pe’ strada». Comare Marfisa, un donnone dai capelli corvini e ricci, con due poppe che sembravano scucire da un momento all’altro il vestito di povera maglina, aveva messo al mondo sei figli, quattro maschi e due femmine. Le donne del vicolo, amiche-amiche a parole, ma sempre pronte a vomitare cattiverie, mormoravano che quella marmaglia di ragazzini moccicosi e sudici di padri ne aveva diversi. Perché, e questo era noto, Marfisa attizzava e non si tirava indietro quando c’era da allargare le belle cosce polpose, magari nel fondo d’un magazzino o in aperta campagna, dopo una bella bevuta di vino. Non è che il marito non ce l’avesse, Marfisa, ma quello, poveromo, era un incapace che finiva sempre al gabbio, fregato dal socio e dall’amico del momento che magari aveva presentato alla moglie e che con lei aveva trovato un reciproco trastullo. Per tirare a campare bisognava arrangiarsi, e Marfisa era una gran filona. Siccome voja de lavorà sarteme addosso, non si abbassava, come le altre comari e comarelle, a lavare i panni pei signori e monsignori, meno che meno a faticare in campagna. I figli erano la sua risorsa. Si poteva dire tutto il male di questa povera donna, ma non che fosse poco intelligente. Furba e scaltra, aveva addestrato la sua misera covata al mestiere più diffuso in queste terre governate, si fa per dire, dal Papa Re: tendere la mano e chiedere l’elemosina. Così, di buona mattina, la chioccia buttava letteralmente  giù dalla  cova i suoi pulcini cipicchiosi e  sempre affamati e iniziava il grand tour della pietà pelosa. Tittirillo era il più bravo col suo visino dai tratti delicati, il suo sguardo malinconico, la predisposizione al lamento e al pianto che ti sfinisce e ti costringe a levartelo di torno e fargli togliere le mani dalla gonna o dai calzoni gettando a terra una monetina. Marfisa alla messinscena aveva aggiunto un tocco di classe. Non è che Tittirillo e suo fratello Ughetto ne avessero bisogno, perché a dir poco erano denutriti, ma gli applicava delle sanguisughe, che uno dei suoi amanti si procurava nella zona paludosa fra il cimitero e il fosso della Fiumaretta. Pallidi e bianchi come il latte suscitavano quella pietà molto simile al fastidio che provocava il rimorso cristiano dei tanti pellegrini, viaggiatori scesi dai battelli a vapore e pronti a fuggire sulla prima diligenza per Roma.

SILVIO 3 Tittirillo cresceva bene, era a capo di un gruppetto di pischelli che si tuffava nelle acque putride del porto e raccoglieva con la bocca, sott’acqua, le monetine che i passeggeri lanciavano loro in quell’Africa non lontana da Roma. Il copione del teatrino della comare Marfisa con gli anni era stato aggiornato anche per l’età degli attori. Così, con protagonista sempre Tittirillo, andava in scena la pantomima della dogana. Ricoperti da lunghe vesti e di stracci i nostri figuranti si avvicinavano ai controllori, Tittirillo fingeva a volte uno svenimento, altre volte un attacco di nervi: le fantjole, cadeva a terra e veniva portato via dai suoi comparetti. Poco lontano, al riparo dalle guardie, da sotto gli stracci delle vesti usciva un vasto campionario di oggetti di contrabbando, come i sigari avana tanto richiesti. Come già faceva il povero padre, li portava a Monsignore, che era stato subito colpito dalla bellezza di quel ragazzo dalla pelle liscia e dallo sguardo tenero. Aveva iniziato con le carezze poi le sue mani esperte avevano scandagliato i fondali e trovato il piacere. E Tittirillo aveva approfittato di queste debolezze, delle continue richieste del Monsignore fino ad usare l’arma del ricatto. Un bel giorno il potente rappresentante di Cristo e del papa, per chiudere la partita, aveva preso carta e penna e il giovanotto era stato spedito nel convento di Montefiascone e costretto a farsi frate. Di Tittirillo si erano perse le tracce, neppure Marfisa, figlio più figlio meno, ne sapeva niente. 010 Popolane 2

All’epoca le notizie le portavano i vetturini delle diligenze e i pellegrini. E uno di questi, diretto a Roma, si era fermato a ristorarsi dai padri domenicani della chiesa matrice e aveva raccontato di avere sentito parlare nel convento di Montefiascone di un giovane frate di Civita-Vecchia che era stato il primo fra cinquanta diaconi e comandava il convento perché era diventato il confessore, l’amante e il ruffiano di una principessa un po’ avanti d’età, ancora piacente, e tanto ricca. «A noi gnente! Mortacci sua e de su patre» aveva urlato Marfisa quando le comarelle le avevano riferito la notizia. Mortacci di sicuro di Tittirillo, e gli altri di quale padre erano?

SILVIO SERANGELI

* La foto di Gigi Seghenzi da una ricostruzione storica del 1970 a piazza Leandra.