IL CEDIMENTO DELL’ANGELO DELLA MORTE

di CARLO ALBERTO FALZETTI

Ero penetrato nel bunker. Mi trovavo in presenza di un uomo estremamente pallido. Un pallore che anticipava l’effetto della mia azione. La mano destra piccola e tremula offrì la capsula alla donna mentre con l’altra, chiusa a pugno, stringeva  la propria.

La donna fissava lui attendendo un cenno. Quel volto simile a cera fece un cenno lieve, quasi impercettibile. Lei , allora, introdusse nella bocca la capsula e chiudendo gli occhi strinse i denti con forza. Mi avvicinai  ed ogni anelito di vita in lei cessò.

Ora fissavo quell’omuncolo. Il pugno chiuso aveva iniziato a fremere intensamente. Era in lui , quello, l’unico segno di vita perché il resto del corpo era immobile, il volto del tutto impassibile. Nessun evento seppur tragico, nessun grido avrebbe causato un qualche movimento in quello spettro facciale.

 Fu in quell’istante che fui investito da un sentimento, da qualcosa di umano, troppo drammaticamente umano. L’algida circolazione di cui ero fatto fu attraversata da una impercettibile scarica sanguigna.

Io, fattura della Natura, uso a spargere giustizia in nome del continuo divenire, ineffabile, indifferente al dolore, alla sofferenza, alla gioia, ad ogni espressione di quel sentimento che avvolge la vita degli esseri, io provavo qualcosa di umano.

Temevo!   

Temevo che quell’essere opaco aprisse il pugno lasciando cadere la capsula. Temevo che si destasse in lui una riflessione. Temevo che non avesse più bisogno della mia presenza.

Quella sottile particella di umano che s’era intromessa in me  provocava un sentimento, un assurdo sentimento al quale io, ubbidendo, avrei ceduto , sia pur per un attimo, alla mia natura.

E cedetti!

Un piacere inusitato, un ‘ebbrezza diffusa mi dominava. Avvertivo spasimi voluttuosi a me sconosciuti.  Dovevo influenzare la sua mente, dovevo iniettare in lui il senso della morte, farlo deflettere da ogni intento che potesse evitare la soluzione finale.

Fu così che ammantai il suo pensiero di immagini a lui gradevoli. Iniettai un veleno perfido, il più perfido di tutti  gli elisir velenosi.

Iniettai la speranza!

Ora egli si vedeva proiettato nel vasto Walhalla circondato da eroi che lo affiancavano trepidanti per condurlo da Odino l’Eterno. Ed ecco che, quale sequela di queste immagini che lo scuotevano, rampollava vivida alla memoria  l’antica poesia che, nello stordimento  del Fronte Occidentale, aveva un giorno  composta perché avvertiva d’essere ispirato  : “Talvolta mi reco nelle notti amare alla quercia di Wotan….”

A queste poche ma irresistibili immagini quel volto di fantasma offrì un movimento. Gli occhi espressero  vita, il cuore palpitò intenso aprendosi all’attesa fatale.

Il fiele della speranza aveva sortito l’effetto desiderato dalla mia assurda voluttà di umana di vendetta.

Rapido portò la mano alla bocca. Una fessura s’aprì  tra le sottili labbra e stringendo i denti , dopo pochi attimi, crollò a terra.

La grande illusione!

 Questo avevo iniettato, trasgredendo il mio compito. Lo avevo ammantato di speranza,  un disperato miraggio che doveva precedere l’attimo della nullificazione.

Provavo gioia nell’aver illuso i suoi momenti finali, di aver riempito il cuore di attesa.

Non potevo permettere che quel tremulo omuncolo passasse al nulla in modo meccanico, incosciente, come nel sonno trapassano tante vite.

No! Dovevo seguire l’umano che per un attimo s’era preso possesso di me. Dovevo provare gioia della morte di quell’essere.

Ora, il triste omino era entrato nel ni-ente. Spietatamente avevo espresso godimento intenso. Ma era tutto finito , ritornavo ad essere indifferente esecutore di una Natura indifferente.

Così, con questa apatia, avevo amministrato il divenire nei mesi passati su tanti bambini, donne innocenti, vecchi sfiniti nei campi di concentramento, presso le fosse, lungo le strade piene di carcasse e di corpi disfatti, presso le macerie fumanti e lorde di sangue.  

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Dedicato a tutti coloro che pensano che il nazismo sia ancora fonte di valore. Gli assassini della storia, di ogni luogo e tempo, sono caduti nell’oblio, ricordati solo come fatto storico .Ma per il Furher la” mamma poietica” degli idioti sembra essere fertile.

CARLO ALBERTO FALZETTI