DIARIO DI UN’ESTATE A CIVITAVECCHIA.

di CARLO ALBERTO FALZETTI

Incominciammo,

così per gioco

e a poco a poco

io m’innamorai di te.

La trovai seduta nella terrazza sul mare del Grand Hotel. Vestita di bianco d’una trina ricamata. I biondi capelli s’abbandonavano lievemente sulle spalle mentre alcuni riccioli ribelli insistevano nel ricercare il tepore dei suoi seni. Lo sguardo non riusciva a nascondere un intenso languore reso più struggente dal glauco raggio dei suoi occhi. Le dita della mano sinistra si posavano sopra il piccolo tavolino di marmo adagiandosi sopra una tazzina da tè; l’anulare era inanellato da una sottile vera d’oro.

CANDICE RENOIR - SAISON 4

L’altra mano era distesa neghittosamente sulle gambe. Tutto quanto sembrava richiamare una perfetta armonia. Rimasi a fissare quel momento di incanto dal mio tavolino, osando l’impudenza. Ma non riuscivo a frenare l’impeto emotivo.

Era troppo assorta nei suoi pensieri per accorgersi dell’indugiare inopportuno di uno sconosciuto.

La tenacia del mio interesse  permise di cogliere particolari che erano sfuggiti nei primi momenti  dove intenso era stato il bagliore di quella visione. Il tempo stava operando con lentezza ma con assiduità la sua azione. Un leggero solco scendeva  dalle nari curvandosi a semicerchio attorno alle carnee e rosee labbra. Quelle tenui curvature imprimevano una melanconia che sosteneva  la mestizia dello sguardo e rivelavano l’inizio di una maturità certo per me quanto mai adorabile.

D’un tratto si accorse del mio incanto. S’alzò, accennò un sorriso di cortesia lasciandomi solo nella mia solitudine.

 

Un gioco ormai per me non è.

Nella mia mente non c’è che un sol pensier

e questo strano pensiero sei tu.

Nei giorni seguenti avevo cercato i suoi passi seguendola con discrezione. Ma, forse non volevo nascondermi più di tanto. Volevo che il suo intuito mi sorprendesse, mi scovasse quando tentavo goffamente di celarmi al riparo d’un angolo di un palazzo o dietro l’esile tronco d’un alberello di via Cencelle.  Una mattina varcò l’entrata del Pirgo incamminandosi lungo il pontile di palafitte verso l’isolotto sormontato dal ricco chalet policromo in sgargiante stile floreale. Scivolò tra le varie stanze interne, superò il piccolo teatrino e si accomodò in vista dello scintillante mare aperto. Mi attardai a raggiungerla. La vidi tirar fuori un libro. Sfogliò con delicatezza le pagine e si immerse nella lettura.

 Un grammofono di lontano diffondeva un tango italiano.

“Ma, questa non è forse Lydia Johnson?”

 Così osai avvicinarla con il cuore in gola, come uno stupido scolaretto alla sua prima esperienza. Lei interruppe la lettura facendo uno sforzo per guardarmi per via del sole che la infastidiva.

“Certo che lo è. Il titolo fa “Tu non mi sai capir”. Non la conosce? E’ di qualche anno fa. Non mi dica di no! Ma certo che la conosce.  La prego, non mi faccia così ingenua.”

Restai silente. Le parole della canzone sostituivano ciò che avevo da dire, modulando il mio sguardo alla cadenza della musica e delle parole. Ora solo potevo vedere il suo viso sparso di efelidi sulla fronte il cui colore beige si ravvivava quando, screziando fitte le gote, si adagiavano sul dorso del suo naso per tempestare come una corona di stelle le palpebre dei suoi occhi lucenti. Vedevo la curva delle sue spalle, il candore del suo collo, la voluttuosità ancora sorprendente del corpo, il ritmo del suo respiro, il pulsare dei suoi seni, la delicata caviglia che si mostrava tra la lunga veste e la sottile calzatura.

 Mi fissava, ormai la musica taceva. Una brezza profumata ci invadeva. Io ero lì, finalmente con lei, nel tentare di articolare parole vane che mi permettessero di prolungare il tempo.

Le chiesi, prima di allontanarmi, che avrei voluto rivederla. Insistetti, a seguito di un suo iniziale disappunto.

Qualche settimana dopo eravamo seduti da Baldassarri, quasi all’angolo, sotto l’incombente grifone di ferro. In un orario che permetteva che l’orecchio indiscreto fosse assente ma che certo poteva mostrare a tutti chiaramente un’amicizia  nel suo momento aurorale. Un incontro azzardato, una sfida desiderata: lei mi fece intendere che la casa dei suoi anziani genitori fosse a pochi metri di distanza dal punto del nostro incontro.

Una piccola gemma era incastonata nel lobo del suo orecchio e da questa scendeva una seconda gemma unita alla prima da un sottile filo d’oro. Il tesoro dei suoi rilucenti e biondi ricci scendevano come sempre a darmi una inquietudine di intenso piacere. Dopo fugaci scambi di convenevoli  mi mise a giorno della sua vita. Stava lasciando il marito. Ormai era tutto finito, tutte le lusinghe dell’avvenire svanite. Giorni lunghi ed angosciosi, il fastidio della gente che giudica, la pesantezza dei rimproveri dei genitori, il perbenismo infranto.

Ora solo potevo sperare.

 Ma lei non poteva, non voleva. L’amarezza era infissa nel suo cuore, nulla poteva convincerla ad intraprendere una nuova avventura. Era un’insegnante al Liceo. Aveva da poco tradotto un testo che l’aveva estenuata, fiaccando non poco il suo stato depressivo. Quella malinconia che la avvolgeva  era per me una sotterranea corrente di energia gioiosa. Quel fuoco che un tempo divampava nell’età adolescente ardeva nuovamente divorandomi.

Passeggiavamo sul molo del Bicchiere. Di fronte a noi iniziava il tramonto. Lei era andata ad abitare dai suoi, nella casa della sua infanzia.

Questo, vedete, è il sole più bello.”  Disse invitandomi a fermare quel momento.

“Il sole ha esaurito la sua fatica. Ciò che era raggiante si spegne. Questa è la giustizia del mondo secondo l’ordine del tempo. Comprendete?”

“Ma è terribile pensare alla morte del sole. Che ne sarebbe del mondo?

Si fermò. Mi fissò con uno sguardo intenso, le sue palpebre si dilatarono.

“ La morte è tale solo perché c’è la vita e viceversa. Da l’un contrario se ne genera l’altro. Non dubitate, il sole domani ci sarà. Eccome!. Tutto questo è solo il canto di un cigno che presto risorgerà a nuova vita.”

Baciai la sua mano. Non riuscivo a seguire le sue parole. Un presentimento mi angosciava. Raggiungemmo il Faro.

Si sedette intrecciando le dita delle mani, distese le gambe: “ Una metà di me stessa è priva di senso. Non credo che mi potreste amare se non quando io sia risanata per l’intero Mi desiderate perché pensate che non ci sia male in me. Voi credete questo solo perché in voi non c’è traccia di male?”

“Tacete! “ Alzai la mano verso la sua bocca come per impedirle di proseguire. Ma presto riprese.

“Ho paura di questo amore, del vostro amore. Ho paura di lasciarlo, ho paura di prenderlo. Ho paura di prenderlo perché l’amore carnale è sempre un impedimento dell’anima, ed io non voglio perdere la mia anima .Ma temo tanto di lasciarlo andar via e di avere terribili rimpianti. Vedete? Sono solo codarda, non voglio scegliere.”

Replicai con impeto: “Perché vi tormentate così? Io non penso proprio che il corpo e l’anima non possano stare in armonia. Ogni uomo deve poter bilanciare l’uno con l’altra.”

Subito dopo le mie parole stese le braccia porgendomi le mani che io prontamente afferrai. Mi fissò gli occhi e lentamente, sussurrando, disse:

“Capisco perfettamente che l’amore tra un uomo ed una donna possa sviluppare armoniosamente l’anima, a volte .Ma…io vorrei ubbidire a chi ha pensato, tanti e tanti secoli fa, che è necessario tendere a vivere come in un perenne stato di morte. Oh, non vi allarmate, vi prego, sto parlando di respingere tutte le lusinghe che la vita ci offre. Ci offre al caro prezzo di perturbare l’anima .La vita così come la viviamo sembra sempre più apparire come un ingannevole sogno fino a quando, ridestati, potremo accorgersi del duro inganno. Ridestarsi! Questo significa dare senso alla nostra esistenza. Un senso, capite? Comprendo, certo, quanto si lasci lungo la strada.  Ma, è questo che io voglio.  Dominare quel fanciullino capriccioso che è dentro di noi e che ha tanta paura di perdere tutto.”

Tacque per qualche attimo. Poi, dopo un lungo respiro. “Questo è quello a cui voglio credere dopo tanto vagare .Potremmo essere amici? Forse, così, non vi perderei del tutto. Non sono come voi mi pensate. Forse sono meno di come voi mi fate. Forse vi ricordo qualcuno, in una passata vita, chissà .Credete nella reincarnazione delle anime, nella metempsicosi?”

Risposi desolato:  “Dunque? A nulla possono le mie insistenze? Presto dovrò partire. Devo raggiungere il Reggimento. Andremo in Russia. Io tornerò. Debbo ritrovarla e lei, e…tu avrai mutato la tua resistenza, vedrai.”

Il primo bacio mi rese beato. La riaccompagnai a casa, agli inizi di via Traiana, poco prima del Teatro.

 

Ma tu

tu non mi sai capir

tu non mi vuoi capir

Ed io non voglio più, non voglio no soffrir.

Sono affannato. Non riconosco più la città dopo due anni di lontananza. Ovunque è maceria. La lunga notte della mia guerra è finita. Ferito ma vivo. Sono  i primi giorni del giugno del ’43.

Giungo all’imbocco di via Traiana. Una folla di persone sta scavando. Il mio pensiero è in tumulto. Chiedo se esiste un elenco dei dispersi, dei morti. Nessuno sa , nessuno mi risponde. Ho nella mia tasca l’unica sua lettera dopo tante mie scritte dal fronte. La lettera mi scongiurava di non insistere.

Un disordine della mente mi sta investendo. Non penso nulla, sono solo frastornato da un suono che terribilmente mi domina.

E’ folle tutto questo. Null’altro mi viene alla mente che il ritmo di un tango italiano le cui prime parole sono: incominciammo così per gioco…

Il Cielo aveva esaudito il rispetto della sua melanconia. Un ordigno di ferro aveva ubbidito al comando delle sue alette che un angelo pietoso aveva sapientemente manovrato.

Civitavecchia, 14 maggio 1946

.   .   .

 

Così pensavo allora quando affidai ad un diario i miei ricordi di quel momento.

Mi sbagliavo. Il destino mi ha concesso molto tempo. Qualche anno dopo, ritornando a Civitavecchia, ebbi modo di sapere da un suo più  vecchio collega che era stata incaricata di correggere una dubbiosa traduzione del  Fedone che circolava nella scuola (la traduzione di Manara Vagimigli del ‘24 era stata accantonata da Preside perché l’autore non gradito politicamente). La rilettura di quell’opera l’aveva particolarmente influenzata sublimando il suo disagio sentimentale in un impegno di vita rigoroso . Capii la mediocrità della mia analisi, la miseria di aver mutato in depressione ciò che era ricerca di senso dell’esistenza. L’amore umano doveva apparire a lei una vera limitazione dell’anima qualcosa che riempie di desideri, di capricci, di timori. Qualcosa che ci invade di una infinita pazzia. Lei desiderava adempiere disperatamente a fare del corpo strumento dell’anima, così come Socrate in quelle pagine che aveva tradotto. Ma, io non potevo certo comprendere. Io desideravo quel corpo, la sua espressione, i suoi atteggiamenti, i suoi  amabili tratti malinconici.

Per curiosità del lettore mi permetto di precisare che I versi introdotti in questo mio breve diario sono tratti dal testo di Guido di Napoli della canzone “Tu non mi sai capir” con la musica di Mario Mariotti e cantata da Lydia Johnson nel 1934. Se il lettore vuole può facilmente ascoltarla.

Il suo corpo è tumulato fra i tanti relitti dei dispersi da quel bombardamento del ’43.

CARLO ALBERTO FALZETTI