STORIA DELLE OLIMPIADI: I GIOCHI TRA INNOVAZIONI E PROTESTE – TOKIO 1964

 di STEFANO CERVARELLI♦

A non partecipare questa volta sono Indonesia, Corea del Nord e Sudafrica. Quelli giapponesi, come era nelle aspettative, sono i giochi della organizzazione, della  tecnologia, la TV che a Roma aveva trasmesso le immagini in Europa, grazie al satellite, ora porta le olimpiadi nelle case americane. Un pubblico, quello giapponese,  indubbiamente differente da quello di Roma, meno caloroso, sempre molto composto che non fa mancare però applausi sinceri e riguardosi specialmente verso gli ultimi.

Troppo lungo sarebbe ora spiegare l’intreccio politico sportivo che tenne lontano dai giochi le prime due nazioni; dirò soltanto che i presenti a Tokyo con le loro delegazioni decisero di non partecipare proprio alla vigilia della cerimonia di apertura.

Per quanto riguarda il Sudafrica fu invece lo stesso CIO ad espellerlo in quanto, oltre ad non aver assolutamente “ammorbidito” la sua linea discriminatoria, si rifiutò di eliminarla, come richiesto, almeno dallo sport. Prova ne sia che dovendo andare il Santos, la  famosa squadra  brasiliana dove militava Pelè, a disputare un’amichevole in quel paese, venne chiesto alla società brasiliana di non portare i giocatori di colore!

Di contrasto Tokyo fece registrare la più alta presenza di paesi africani: 19.

Nella cerimonia di chiusura il continente africano ha in serbo un’altra sorpresa, mostrerà la bandiera di una nuova nazione: lo Zambia, diventato indipendente proprio in  quel giorno.

Passando al racconto tecnico  la prima cosa da dire è che gli statunitensi si fecero perdonare la “debacle” di Roma e lo fecero in maniera eclatante andando a vincere, oltre le gare tradizionalmente loro, anche, prima volta nella storia dei giochi,  i 5.000 e 10.000 metri.

Nei 100 metri facciamo la conoscenza di Bob Hayes, che  infranse la barriera dei 10” correndo in 9”9, tempo che non venne però omologato in quanto soffiava un vento leggermente al di sopra  del  consentito.

Ricordate Peter Snell? Quello che a Roma sorprese Moens, facendolo mettere a piangere? Gli 800 ed i 1.500 metri sono oramai il suo regno, la sua maglietta nera della Nuova Zelanda, non passa più inosservata, è il più grande atleta di mezzofondo.

Ma veniamo alle corse che, si diceva, non fossero per gli statunitensi perché richiedevano……. troppa fatica. A Tokyo gli atleti Usa smentiscono questa diceria, prima con William Mills, sangue Sioux nelle vene, che vince i 10.000  percorrendo i 400metri  finali in 58”,7! Un tempo incredibile dopo aver percorso 10 Km.

Il successo di Mills viene bissato nei 5000 da Bob Schul, tra le “ vittime” illustri c’è anche Clarke (il ragazzino ultimo Tedoforo di Melbourne) dato per favorito.

La Russia rispose mettendo nella pedana del salto in alto uno dei migliori saltatori della storia: Valerij Brumel. Il suo avversario, come a Roma, si rivelò ancora essere il nero statunitense Thomas; dopo un’estenuante gara di 5 ore, in pedana sono rimasti soltanto loro due; all’ultimo salto Brumel fallisce i 2,20. Tocca a Thomas, se supererà  l’asticella avrà vinto, altrimenti sarà Brumel  a conquistare il titolo olimpico. Thomas prende la rincorsa, Brumel non guarda, si gira dalla parte opposta, sarà il boato di delusione del pubblico ad annunciargli che era campione olimpico! In seguito Brumel salterà 2, 28 m, 43 cm di più della sua statura! E pensare che a causa  di un incidente motociclistico aveva rischiato l’amputazione di una gamba!

Di rilievo la prestazione di Al Orter che, nel lancio del disco, vince la sua terza olimpiade.

Per le ragazze, nell’atletica, a Tokyo, vengono aggiunte due gare in più: 400m. e pentathlon. Le atlete sovietiche  conquistano il maggior numero di medaglie  dominando nei concorsi, ma crollando nelle corse.

Ed eccoci ad una delle gare più attese: la maratona.

L’etiope Abebe Bikila questa volta indossa le scarpe. A metà gara, dopo che l’australiano Clarke (si, quello di prima) aveva tenuto un ritmo pazzesco nel tentativo di far crollare l’etiope, questo saluta e se ne va: le sue magrissime  gambe  hanno un leggero sussulto, cambiano ritmo e la storia è bella che finita. I Giapponesi,  quando Bikila entra nello stadio, si alzano tutti in piedi e si lasciano andare ad un lungo applauso, hanno appena assistito ad un evento che mai più si ripeterà: la vittoria nella maratona alle olimpiadi da parte dello stesso atleta per due volte di seguito.

Bikila aveva le scarpe, ma non aveva più l’area “selvaggia” di Roma. Il suo imperatore dopo il successo romano gli aveva regalato una casa, un grande leone di Giuda d’oro massiccio e l’aveva nominato sergente.

Purtroppo lo attendeva un tragico destino. Nel 1969  restò vittima di un incidente stradale che lo paralizzò dalla vita in giù. Non perse mai la volontà di gareggiare: nel 1972 partecipò alle  para olimpiadi nella gara con l’arco. Morì l’anno seguente per emorragia cerebrale, a soli 41 anni.

I giapponesi avevano dedicato al nuoto uno stupendo stadio; dall’alto aveva la forma di una immensa conchiglia lisciata dal mare, guardandolo di fianco   sembrava una grande prora , di fronte assumeva le sembianze di una stupefacente pagoda.

All’interno non c’era un pilastro, una colonna, ma un’unica volta di alluminio. Tale perfezione non poteva che ospitare gare superbe e così fu: tutti i primati olimpici vennero superati e su 18 gare complessive 12 fecero registrare  nuovi record del mondo!

Soltanto l’Australia, nel nuoto maschile, riuscì ad opporre agli Stati Uniti una modesta resistenza vincendo tre medaglie, le altre andarono tutte ai nuotatori statunitensi;  i nuotatori di casa non fecero molto onore all’impianto gioiello e nonostante la loro affermata tradizione non riuscirono a mettersi in evidenza.

Su tutti emerse Don Schollander, ragazzo allegro, sorridente, figlio d’arte in quanto la madre era stata  la controfigura di  Maureen O’Sullivan (la compagna di Tarzan) nelle scene di nuoto. Portò al suo paese quattro medaglie d’oro, venendo in seguito eletto come atleta dell’anno.

Anche in campo femminile il dominio statunitense fu netto: le ragazze vinsero sei gare su otto e  diverse volte conquistarono, nella stessa gara, anche le medaglie meno nobili. Ad opporsi loro provò, con uno splendido esempio di longevità, l’australiana  Sharon Stouder, che già presente sia a Melbourne che a Roma, andò a conquistare le medaglie d’oro nei 100 farfalla e nella staffetta, approfittando, però, dell’assenza in quelle gare della fortissima Fraser.

Dopo la delusione nel nuoto, a ridare prestigio allo sport giapponese ci pensarono i ginnasti che vinsero 5 medaglie d’oro. I sovietici, attesi anch’essi  come protagonisti, risposero con sei medaglie d’argento e due di bronzo.

L’Italia non riuscì a ripetere il terzo posto di Roma nella classifica a squadre, ma, dopo oltre trent’anni, ritroviamo un grande ginnasta, Franco Menichelli che conquista la medaglia d’oro nel corpo libero, una d’argento negli anelli (per soli 50 centesimi di punto! A favore del giapponese Kayata) e un’altra di bronzo nelle parallele.

La rappresentativa azzurra lascia la terra del sol levante  con un buon bottino: 10 medaglie d’oro, 10 d’argento, 7 di bronzo ed moltissimi piazzamenti d’onore. Dei 170 atleti partecipanti (tra cui solo 12 donne) 129 entrarono in una finale. Pamich, vincitore dei 50 Km di marcia, fu protagonista di un inedito episodio. Era in fuga insieme all’inglese Nihill, quando sentì un forte brontolio nella pancia e l’esigenza di soddisfare un  bisogno fisiologico; si consultò con Dordoni, suo allenatore che lo seguiva in bicicletta, ed adottarono una strategia: Pamich fece un brusco allungo tra l’incredulità dell’inglese, visto che  mancava ancora un po’ al traguardo; l’italiano conquistò qualche decina di metri e velocemente, sotto gli occhi increduli dei giapponesi, fece quello che doveva fare.

L’inglese nel frattempo aveva guadagnato una quarantina di metri, ma non fu difficile per Pamich recuperare e staccarlo a tre  Km. dall’arrivo.

Le altre medaglie d’oro vengono dal ciclismo (3) pugilato ( 2) tiro al volo (1) sport equestri (2 ) per la prima volta manchiamo la vittoria nella scherma.

Colmi di rabbia, mortificazione e disillusione per la bruttissima figura fatta ai giochi i francesi non trovarono di meglio che prendersela  con gli atleti italiani,  accusandoli di essere tutti dei drogati e di aver approfittato di giurie compiacenti. Un giornale addirittura, parlando del torneo di pugilato, fece questo titolo: ”Alle finali arrivano sette sovietici, quattro polacchi e un francese”  “ dimenticandosi “ che in quelle finali erano entrati anche cinque italiani.

Sullo stadio di Tokyo è sceso il silenzio, il braciere acceso da Yosshinori Sakai, ragazzo nato ad Hiroshima la notte  in cui la bomba  uccise settantamila persone, si è spento, tra la festa degli atleti, alla presenza dell’Imperatore.

1968

Il maggio francese, l’esplosione studentesca nel mondo, l’escalation nel Vietnam, l’inasprimento razziale, l’uccisione di Martin Luther King e di Robert Kennedy, la rivoluzione culturale cinese, la richiesta di giustizia sociale e d’uguaglianza, i carri armati sovietici a Praga. Questo lo scenario sul quale irrompono le olimpiadi di Città del Messico, come pensare che non potessero risentirne?

Ed infatti… le “ danze” si aprono con le reciproche richieste di espulsione dai giochi. Il campione olimpico di Helsinki, Zatopek, chiede la sospensione e l’esclusione  dei paesi che stavano occupando la Cecoslovacchia; richiesta ripresa dai  paesi occidentali, con l’aggiunta della minaccia di non far gareggiare i propri atleti contro i sovietici. Dal suo canto l’Unione Sovietica chiede l’espulsione degli Stati Uniti per l’invasione nel Vietnam, gli afroamericani minacciano il boicottaggio se non verrà riconosciuta la piena eguaglianza di tutti i cittadini.

 L’Olimpiade diventa quindi, a tutti gli effetti, il palcoscenico delle varie rimostranze  ed indignazioni politiche.  E come se non bastasse  arriva il sangue a bagnare le vie e le piazze di Città del Messico.

Il sangue dei tantissimi giovani scesi in piazza per protestare contro la politica conservatrice del presidente Diaz Ordaz. Un prologo c’era già stato   il 28 luglio, quando, durante una delle tante manifestazioni indette dal movimento studentesco “la Onda” ci furono duri scontri tra polizia e studenti che causarono otto morti e un gran numero di feriti. Il 10 settembre nonostante un inizio di negoziato con il Consiglio Nazionale degli Studenti, il governo ordina l’occupazione dell’università per impedire eventuali sabotaggi e fa presidiare dai  Gendarmos le istallazioni olimpiche.

La situazione va fuori controllo, si susseguono cortei, manifestazioni, scontri, finché il 3 ottobre, a pochi giorni, dall’inizio dei giochi, la situazione degenera.

Migliaia di studenti si danno appuntamento a  Plaza  de las tre cultures  per una dimostrazione pacifica;  più di mille soldati, dotati di mitragliatrici e carri armati impediscono loro di uscire dalla piazza e non esitano per questo a fare  fuoco. E’  un vero e proprio massacro; i morti saranno centinaia e mentre ancora si contano le giovani vite spezzate, si accende la disputa tra chi vuole e chi non vuole portare avanti le olimpiadi; si parla addirittura di instaurare la legge marziale ma si ricorda a questi che lo statuto delle olimpiadi esige la pace nello stato che li ospita, una misura del genere significherebbe l’annullamento dei giochi.

Sarebbe lungo, in questa sede, parlare delle dispute politiche e delle varie posizioni prese dai partiti politici. In maniera generale la stampa di sinistra ed il PCI si schierarono apertamente per la soppressione dei giochi, attribuendo al governo messicano la totale responsabilità di quanto accaduto; la destra replica parlando di “sobillatori stranieri” e provocazioni.

Le olimpiadi si fecero, senza altri  incidenti, la mancanza dei quali, da ogni parte fu pronta ad assumersene la paternità; restava però un fatto incontrovertibile: lo sport aveva, tragicamente, dovuto prendere coscienza  con le realtà che lo circondavano e dalle quali non poteva più dichiararsi estraneo, eccone la prova.

E’ la sera del 17 ottobre, tre atleti, due di colore, l’altro bianco, si dirigono verso il podio per la premiazione dei 200 metri. Sono i due statunitensi Tommie Smith, medaglia d’oro, John Carlos, medaglia d’argento e  l’australiano Peter Norman, medaglia di bronzo.

Sono in pochi a notare che Smith e Carlos hanno una mano chiusa in un guanto nero, non hanno le scarpe ed indossano calzini neri.

Appena si alzano le note dell’inno statunitense, la mano guantata, chiusa a pugno, scatta verso l’alto, mentre la testa viene reclinata sul petto.

Tutto il mondo sta assistendo alla prima, grande, clamorosa manifestazione del “black power”: la protesta contro le condizioni in cui sono costretti a vivere i neri d’America.

Se in precedenza era stato  proprio Martin Luther King a soffocare tentativi di ribellione, facendo prevalere  tesi conciliatrici, la sua uccisione avvenuta il 4 aprile a seguita il 5 giugno da quella di Robert Kennedy fa crollare ogni indugio.

Il mondo intero è costretto a prendere atto di quanto avviene negli Usa; i piedi scalzi stanno a rappresentare la miseria, mentre il guanto nero ricorda i lutti  del popolo di colore, Peter Norman, pur non partecipando in maniera visibile alla protesta non mancò di esprimere più volte la sua solidarietà, pagando per questo, nella sua nazione, un prezzo molto alto. Peter Jordan, uno dei responsabili della squadra americana, rivolgendosi ai suoi atleti grida infuriato ”Se ne pentiranno per il resto della loro vita”. Pentiti non se ne sono di certo, ma pagato caro quel gesto sì; tanto per cominciare vengono espulsi dal villaggio olimpico su precisa richiesta del presidente del CIO Brundage.

A quel punto,  quella che rappresentava una delle principali preoccupazioni, cioè  gli effetti di gareggiare a più di 2.000 metri d’altezza, diventa….. il male minore!

Effettivamente gareggiare a quell’altitudine poteva  risultare condizionante , con prestazioni tecniche imprevedibili; ad esserne favorite sarebbero state le  corse brevi mentre in quelle medio-lunghe, come vedremo, la rarefazione  gioverà  agli atleti assuefatti, non mancando di provocare disturbi fisici rilevanti.

Oltretutto a Città del Messico viene usato per la prima volta, su piste e pedane, il tartan, materiale sintetico che rende più elastica la falcata e più rimbalzanti gli stacchi nelle varie gare di salto.

Altitudine e tartan favoriranno, ma non in maniera determinante, il miglioramento  di molti record olimpici e mondiali (33 i primi), (10 i secondi) quello che destò maggiore e stupore fu invece il constatare il progresso tecnico e agonistico dell’uomo.

Il primo e più eclatante effetto del connubio altitudine – Tartan lo si ebbe  nella pedana del salto in lungo, dove lo statunitense Bob Beamon, migliora il record mondiale di oltre  mezzo metro: 8,90! Anche la prova del salto triplo, favorita dalla stessa combinazione, divenne una gara esaltante, bellissima  complessivamente la più ricca di contenuto tecnico di tutta l’atletica. Basti pensare  che lungo tutta la gara, qualificazioni e finale, il record del mondo venne  battuto 10 volte! Uno dei recordman fu il nostro Giuseppe Gentile che poi si classificherà terzo.

Per la prima volta, nella finale dei 100m., non ci sono bianchi ; nel lancio del disco Al Oerter vince la quarta Olimpiade. Nel salto in alto irrompe sulla scena un certo Richard Fosbruy, che adotterà una tecnica (salto dorsale) che porterà il suo nome ed è ancora usata oggi.

Nella maratona Abebe Bikila, alla terza Olimpiade, al 17 ° Km.,  è vittima di una crisi terribile  dovuta proprio all’altitudine e viene portato via in autoambulanza; ci penserà un suo connazionale Mamo Wolde a dare all’Etiopia la terza medaglia nella maratona.

I figli dell’ Africa  arrivano a frotte sul traguardo, in particolar modo nelle corse medio-lunghe complice, come accennavo prima, la loro assuefazione a correre in quota.

Il loro dominio è totale. Si inizia con i 10.000 m. con la vittoria del keniano Temu, l’australiano Clarke detentore del record mondiale, tagliato il traguardo sarà vittima di un pauroso collasso e avrà bisogno per molte ore dell’ossigeno.

Questo non gli impedirà però di correre i 5.000m, dove sarà l’unico a tener testa ai fortissimi africani; si pensa che anche questa volta  la vittoria andrà ad  un abitante dell’altopiano ed invece a tagliare per primo il traguardo sarà un uomo delle spiagge tunisine, Gamjoudi che, con un poderoso guizzo, batte due fortissimi velocisti come Clarke e Keino.

Quest’ultimo troverà  modo di rifarsi nei 1.500 m., dominando la gara.

Ancora un keniota, Biwott, vince la gara dei 3.000 siepi.

Nel nuoto gli Stati Uniti presentano un ragazzo di 18 anni, si chiama Mark Spitz, disattende le aspettative riposte in lui, ma in seguito diverrà una leggenda del nuoto.

Nella ginnastica femminile rivivono momenti di tensione politica. La cecoslovacca Caslavska è sola a fronteggiare le atlete russe, quando ancora nel suo paese c’erano i carri armati sovietici. La boema vince tutto: corpo libero, parallele, volteggio, è seconda nella trave, ma si aggiudica il concorso generale individuale ed è seconda in quello a squadre, la sua affermazione ha qualcosa di epico: da sola ha sconfitto le “inarrivabili” russe, alla premiazione non ascolterà l’inno sovietico.

Nel pugilato, dopo aver fatto conoscenza a Tokyo di Joe Frazier, che sette anni dopo metterà al tappeto Cassius Clay, in Giappone si assiste alla nascita di un altro grande campione: George Foreman, che in finale sconfigge il russo Chepulis, per manifesta inferiorità. E’ dalle olimpiadi di Helsinki che, nella categoria mesi massimi, vince sempre un americano.

Il calcio non offre più di qualche edizione,  grande spettacolo, finendo per interessare sempre meno, specie le “grandi” dell’area occidentale.

A Città del Messico una grande sorpresa è rappresentata dal Giappone che, nella finale per il terzo posto, supera proprio i padroni di casa.

Nel Basket l’unica sorpresa viene  della seconda classificata: la Jugoslavia che in semifinale  ha la meglio sulla Russia, è l’inizio della supremazia (ancora in atto) del basket slavo. Ah già, dimenticavo il nome della prima, provate ad indovinare?.

La Jugoslavia dimostra ulteriormente le sue capacità sportive, nel torneo di pallanuoto, imponendosi in finale ancora sulla  Russia. L’Italia perde il bronzo sbagliando cinque rigori contro l’Ungheria.

Nella pallavolo  è la Russia a dettar legge aggiudicandosi sia il torneo maschile che quello femminile. L’Italia torna a casa con sole tre medaglie d’oro: Dibiasi (tuffi) Vianelli (ciclismo su strada) e il due con nel canottaggio.  Complessivamente le medaglie saranno 16 di cui 4 d’argento. Non si può, parlando degli azzurri, non ricordare la grazia, l’eleganza, associata ad una superiore capacità tecnica di Klaus Dibiasi nei tuffi, in particolar modo dalla piattaforma.

Walter Menichelli (campione olimpico di Tokyo), purtroppo, nell’esecuzione dell’ultimo salto mortale di uscita dal corpo libero, si lacera il tendine di Achille ed è costretto al ritiro; e dire che in quella prova sfortunata aveva ricevuto un punteggio di 9.80!

L’Olimpiade è finita e con essa troppe giovani vite; il sangue che  ha solo sfiorato il villaggio olimpico, purtroppo nell’edizione successiva, entrerà nel villaggio olimpico.

STEFANO CERVARELLI