CIVITAVECCHIA CITTA’ APERTA

di CARLO ALBERTO FALZETTI

Siamo  in Cielo. Non quello astronomico fatto di ossigeno ed elio. Siamo nell’Aldilà, padiglione beati, settore prelati  benpensanti.

Padre Alberto ha ricevuto visita da Alessandro Cialdi proveniente da un settore del Purgatorio, padiglione buona condotta. I due amici parlano dell’esser stati.

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PADRE ALBERTO “Giammai in vita paventai per me, considerando il domani sempre un soprassello. Invero, ebbi sconcerto e paura solo quando l’impeto del piccone assalì le fortificazioni  bastionate della nostra città.

Su quelle mura ognuno poteva vedere lo stile di Antonio, il perfetto assettamento di tutta l’opera al terreno, le cortine brevi, i salienti acuti, gli angoli del pentagono quasi retti, la faccia tripla del fianco…..

ALESSANDRO CIALDI ”Ottimo mio amico non abbiate a rattristarvi ancora. La città è persa ma lo spruzzo del mare è ancor là ove lo incontrammo e lo amammo assieme. Per qual motivo il ferro s’abbattè sulla vetusta pontificia pietra? Parliamone, egregio Padre, parliamone ancora una volta, ancora, ancora.

PADRE ALBERTO ”Ancora, come volete.

Mi è bisogno, dunque, ricordare che la popolazione di Civitavecchia all’epoca in cui s’era noi in vita è venuta sempre crescendo da i tre secoli precedenti ad allora. E si dice, dicono in molti tra gli incliti ed i rozzi, che la città sarebbe stata ben più grande e più bella se l’angustia delle muraglie non l’avesse compressa. Miseri gli uni stolti gli altri!!

Vero è che già i Pontefici ebbero a raccogliere le lamentele del popolo per dar luogo ad ingrandimenti dal lato del tanaglione, od opera a corno, consentendo la nascita del borgo. Ma si poteva ampliare sempre mirando alla cautela, spianando i fossati e mantenendo quanto più possibile le vestigia sangallesche.

Ma così non avvenne.

Stante tali incitamenti popolari e la benevola intenzione dei pontefici il comandante del Genio pontificio diresse, gli ufficiali eseguirono, l’abbattimento della cortina, la demolizione dei bastioni, il colmo dei fossati, la rasatura dei terrapieni. Nel 1835 i due bastioni di Levante, ultimi della cinta, ebbero a subire demolizione e poi se ben ricordo, ancora……

ALESSANDRO CIALDI “La prego!

Percepisco  forte la  commozione. Lasci a me che prosegua  la triste sequela che ci tormenta.

Nel 1871 la nuova Porta Romana fra il palazzo D’Ardia ed il villino Parrini subì l’onta della demolizione. Onta certo dal momento che ciò serviva per dare lavoro ai disoccupati del grave momento. Dunque l’arte del Sangallo a tal intento veniva a destinarsi. Ma, ora possiamo ben dire, quali fossero le brame golose dei liberali del tempo che tutto volevano abbattere col proposito esplicito che trattavasi  d’opera papalina, ma coll’ascoso intento di trar profitto. Siffatta opera distruttiva che ho appena citato, ebbe compimento per le mani di un impresario, taccio il suo nome indegno, che si adoperò per costruire con l’insigne materiale il suo casamento al Viale della Vittoria.

Eppoi fu la volta di Porta Campanella  per dar luogo alla Cassa di Risparmio ed al casamento de Marsanich. Vera trasformazione di mura che si fanno banca per alimentare altri utili abbattimenti.

I novelli Marchesi, conquistato il blasone coll’asporto e la gentile donazione vaticana di vasi vulcenti, demoliscono il bastione appoggiato alla Porta per innalzare la dimora marchionale di via Cencelle. Colmate le fosse e le controfosse ove un tempo aveva luogo l’orto delle monache ecco apparire lo slargo di Regina Margherita.

A tutto ciò seguiva la morte di Porta Corneto con tutte le opere annesse di fortificazione, così distruggendo quel  grande ingegno della “doppia cortina”.

L’avvedutezza, la previdenza, lo studio, il genio, la fatica delle braccia che Papi, Segretari pontifici, architetti, lavoratori, in quattro secoli,  investirono nel luogo, fu in breve arco di tempo dissolta.

Pochi, deturpati, avviliti, mesti lacerti di pietra sono testimoni muti ma severi dello scempio. Una sconcertante lapide inquieta ancora il lettore accorto: “fu demolita…per mutate necessità di difesa”

 

 PADRE ALBERTO ”Mio diletto amico, sovente è giunto al mio orecchio attento il grido di dolore dalla mia città. Dolore acuto quando quel grido aveva a che fare col bombardamento piovuto dall’alto. Grido che accettavo per le innocenti vite distrutte. Ma per la città, per la sua urbanistica, per la sua forma quel bombardamento faceva solo seguito ad una distruzione piovuta dal basso, operata  non dal nemico ma dall’amico oscuro e subdolo. ”Infra moenia hostes sunt (meglio: contra moenia)”.

ALESSANDRO CIALDI ”Penso a Lucca, a Firenze…Penso a Tuscania, a Tarquinia, a Grosseto, a Siena…Penso alle loro mura, forse malconce ma vive.

E’ vero, come è stato scritto “la città come lo Papa volle”. Ma il non avere il crisma della municipalità può giustificare l’abbattimento di testimonianze del passato? Fino a che punto può spingersi la damnatio memoriae? E, soprattutto, è giustificata nel nostro caso? Quanto la simulazione può fondare il patto sociale di una città? Eppoi, non erano emblema di municipalità le mura medievali?  Ci fu ribellione popolare quando esse cominciarono a far perdere traccia considerando che la loro demolizione fosse in qual modo giustificata?

Una classe borghese subentrata al vecchio dispotismo può pensare di acquisire autorevolezza cancellando la storia? Iniziare una nuova vita recidendo le radici? E tutto ciò in nome di quale imperativo? Servire la rendita fondiaria!

Si può dissacrare l’opera di un Sangallo facendone calcina e basamento per magioni borghesi o nientedimeno porre in opra  grossolani falansteri ? Chi osò, viepiù chi permise, autorizzò, progettò quando ormai il potere pontificio era stato dissolto? 

Quell’atto, mi permetta Padre, non costituisce, forse, il peccato originale dopo la conquista urbanistica dei pieni poteri da Roma? Non spiega, forse, la qualità scarsa del civismo cittadino? Le radici non sono forse  essenziali per i rami, anche i più lontani da terra? E se le radici vengon estirpate non ha a subire danno la ramificazione tutta?

 Può la radice tronca produrre frutto buono?

Vorrei ricordarle un particolare che indichi quanto poco il sentimento popolare ricopriva d’affetto quelle fortificazioni intese come ostacoli, catene stringenti senza dar conto ch’esse rappresentassero opera d’ingegno rinascimentale da mostrare con fierezza all’ospite così come accade per tante città italiane.

 I nomi!! Già i nomi di quei sette bastioni.

Dalla penna d’Antonio uscirono denominazioni tecniche, d’uso architettonico. Dal popolo, com’era giusto, si corresse con i nomi dei santi popolari. Appropriazione cittadina? No!  Durò tempo limitato ed i bastioni finirono per essere indicati per l’uso o per via del pontefice che l’avea posti a restauro. I Santi Teofanio, Barbara, Rosa, Ferma, Antonio, Francesco, Bastiano,  persero di significato ed entrarono in oblio.

PADRE ALBERTO “Devotissimo e saggio amico la mesta sequela è stata recitata. Come, ormai, ripetiamo da tempo, a mò di ritmata giaculatoria, con affetto ed accoramento.

Un ricordo ora mi appare. Quando il Bixio volevami  importunare feci dire che non ero in casa. Ma io lo ero e come e, all’occasione, ebbi a dire: sono qui nella mia rocca e non temo nulla. Nella mia rocca!

 Che m’è stata tolta.

 CARLO ALBERTO FALZETTI