Il crepuscolo del Cav. Manzi 2/5
di SILVIO SERANGELI ♦
Strano che non si trovi un rigo di Manzi per il console in congedo a Parigi. Eppure egli aveva scritto tanto anche se con uno stile giudicato dai critici poco e per nulla benevolmente. Non bastava che avesse tradotto disinvoltamente dal greco L’Istoria dell’Impero dopo Marco di Erodiano, e si fosse poi cimentato con Dionigi di Alicarnasso, Tucidide e Senofonte. Questi faticosissimi lavori erano stati bollati come indigesti e infarciti di espressioni arcaiche e ormai superate; nel caso de Il conquisto del Messico ebbero l’onore della stroncatura al vetriolo della Biblioteca Italiana. Il cav. Manzi era figlio del suo tempo, di una stagione che stava cambiando, ed egli era rimasto un po’ indietro nello stile, più vicino al Monti e Pindemonte che a Leopardi. Significativa, in questo senso, la dedica che egli pone nella sua Istoria della Rivoluzione di Francia dalla convocazione degli stati fino allo stabilimento della monarchia costituzionale a Pietro Adescalchi [Odescalchi], duca di Siamo, figura di spicco nel panorama della cultura romana di quel Governo Arcadico fiero oppositore degli innovatori del romanticismo.
Per Pietro Manzi una gioventù di studi, di viaggi, di impegnati nell’impresa di famiglia dei commerci per mare. Fece scalpore la sua cattura da parte dei pirati barbareschi di Tunisi che alla famiglia costò un riscatto consistente in 50.000 carrette di pozzolana. Ma è la letteratura che lo prende in questo periodo. La sua Istoria della Rivoluzione di Francia, in otto libri, pubblicata a Firenze nel 1826, è caratterizzata da una lettura moderata, di condanna ai «fatti di sangue e al popolo in rivolta», che testimonia comunque quel suo spirito liberale che gli costò non poco nei suoi affari e nella sua attività. Tanto bastava per allertare gli sbirri papalini, che lo tenevano d’occhio con i suoi amis liberaux che si riunivano nel retrobottega di Donato Bucci, magari per spettegolare sui passanti, sulla figura dell’advocat donnaiolo e millantatore, sull’indigesto e antipatico Delegato Apostolico Felice Peraldi, e agghindando nella vetrina un manichino con abiti femminili per uno scherzo ben riuscito al console che, con la sua scarsa vista, lo aveva preso per una affascinante signora ed era entrato in bottega tutto impettito. Certo si parlava d’altro e questo clima gioioso si stemperava rapidamente quando i discorsi si facevano seri: la gestione autoritaria del papato, le miserie della petite ville. E qui torniamo al punto di partenza, al perché del silenzio di Pietro Manzi.
Attenzione: non è certo una questione centrale nella critica storica e letteraria, ci mancherebbe! Ma è un chiaro segnale. Il Cav. Manzi non ha più voglia di parlare di sé, della sua vita, meno che meno della sua famiglia, come invece fa l’amico Donato, perché è profondamente deluso, vinto da una inesorabile caduta. Lontani, lontanissimi gli anni delle ricchezze e degli sfarzi di famiglia con i saloni del Palazzo di piazza Leandra popolati di ospiti illustri. Ora questo suo crepuscolo è segnato dal vano tentativo di raccogliere quattro stracci, di ricostruire un nuovo Palazzo Manzi nell’area concessa come indennizzo per un suo terreno necessario ai lavori di urbanizzazione nell’area lasciata libera dopo la demolizione del bastione San Sebastiano. Nel suo notiziario, sempre ricco di particolari, il cancelliere del consolato Lysimaque Taverier, che conosce il Cav. da prima dell’arrivo di Stendhal e lo ha seguito con entusiasmo in alcune campagne di scavo, nella lettera del 20 maggio 1837, informa il console: «Un édit du Trésorier accorde l’exemption des droits fanciers pour 20 ans aux personnes qui voudreaient bâtir des maisons à Civita-Vecchia. M. Manzi se despose de profiter de cette faveur, et tout est préparé pour una fa[b]brica». Manzi ha scelto la pensione «n’a pas fait de fouille l’année d[ernié,]re, et il n’en fera pas non plus dans la nouvelle saison». Si è conclusa l’inebriante avventura degli scavi, conferma l’amico Donato con una vena di malinconia, nella lettera a Stendhal del 12 ottobre 1837. Impiega il suo tempo «a bâtir une nouvelle maison dans l’emplecem[en]t à côté de l’habitation du commandant de la place». Come attesta il verbale del Consiglio comunale del 14 agosto 1837, ottiene un rimborso di 1.133 scudi e 73 baiocchi. La delibera, a favore degli eredi, arriverà l’8 ottobre 1840. Troppo tardi e troppo pochi: non ci sarà un nuovo Palazzo di famiglia. Non ci sono i fondi necessari, gli affari ormai latitano,. e c’è da mantenere una famiglia molto numerosa.
SILVIO SERANGELI (2/5 segue)