14 maggio 1943. Le bombe e il carcere. La testimonianza di un detenuto politico.
di CLAUDIO GALIANI ♦
Fate la roba, disse il secondino con voce sprezzante.
Tutta? domandò un compagno. Sì, tutta, e forza.
Tutti distesero la coperta per terra, raccolsero i loro libri e la propria biancheria, legarono la coperta, misero tutto sulle spalle e via.
Forza — continuavano a gridare i secondini, distribuiti lungo il percorso. E si capiva che era una cosa eccezionale.
Dove ci portano? — disse Pajetta sottovoce.
Silenzio! Zero sei, siete sempre voi, — disse il sergente delle guardie. Intanto i detenuti avevano raggiunto l’altro padiglione, sempre con il fagotto sulle spalle.
Là fu aperto un grande camerone e “Dentro! Forza!”
C’erano raccolti compagni, presi da altri cameroni, compagni che si conoscevano da anni, ed erano stati per lungo tempo separati.
Si abbracciarono mentre altri facevano la conoscenza per la prima volta; tutti erano un po’ eccitati.
Allora, dove ci portano? — questa era la domanda che tutti si rivolgevano.
Inizia così la memoria di Salvatore Cacciapuoti sul bombardamento del 14 maggio 1943.
Lui, giovane operaio comunista di Napoli, sta scontando a Civitavecchia la condanna a nove anni e quattro mesi di carcere inflitta nel 1937 dal Tribunale Speciale.
Pubblica il racconto sull’Unità del 25 luglio 1968, a venticinque anni dalla caduta di Mussolini.
Dovrebbe parlare del 25 luglio, invece parte da quel 14 maggio che nella sua esperienza rappresenta il vero inizio della liberazione.
Sono rimasto spiazzato da questa impostazione.
Si tratta di una testimonianza diretta sull’evento più memorabile della storia cittadina del Novecento, resa da un singolare punto di vista e dal luogo più inquietante e rimosso della topografia locale.
Sono gli ultimi momenti della gestione fascista del carcere di Civitavecchia, sulla quale è ormai disponibile una discreta letteratura.
E’ noto il trattamento vessatorio che lì veniva riservato ai detenuti politici.
Ne ha fornito una prova definitiva la pubblicazione del Registro, dove erano annotate le punizioni inflitte dal 1941 al 1943.
Le annesse testimonianze di Aldo Natoli e Vittorio Foa, due tra le centinaia di antifascisti che ebbero la ventura di esservi ospitati, ne chiariscono il senso.
La foga persecutoria, a volte fino al grottesco, nasceva da uno scopo preciso: annientare la forte personalità dei reclusi e sgretolare i rapporti di solidarietà che essi praticavano in modo rigoroso, come forma di resistenza alla repressione.
Lo stesso Cacciapuoti ebbe le giuste dosi di punizione per la cattiva abitudine di condividere il cibo con altri compagni; atto inammissibile di solidarietà, quindi di ribellione.
Cacciapuoti cita i due “padri di famiglia” che si avvicendarono in quegli anni alla direzione.
Alfredo Doni era considerato dai detenuti un temperamento sadico.
Amava riceverli nel suo ufficio affiancato da un ringhioso cane lupo, tenendoli con le mani alzate e le spalle addossate al muro.
Di Donato Carretta, definito da Vittorio Foa “algida canaglia”, è nota la tragica sorte.
Trasferito dopo il bombardamento a dirigere “Regina Coeli”, nel settembre 1948 morì annegato nel Tevere, linciato da una folla inferocita. Episodio deplorevole, mai del tutto chiarito, collegato non al carcere di Civitavecchia, ma alle Fosse Ardeatine, all’eredità di odio e violenza lasciata dall’occupazione nazi-fascista della capitale.
Parafrasando il tema della banalità del male, qualcuno li ha definiti dei timidi, zelanti funzionari, chiamati a dirigere un gioco troppo grande.
Lo stesso Mussolini aveva un filo diretto con loro, consapevole dell’importanza del carcere nella strategia del potere.
Così si spiega anche lo studio accanito a cui i detenuti si applicavano, e l’esistenza al loro interno di un dibattito politico, a volte aspro, scatenato dalle confuse notizie provenienti dall’esterno.
Lo stesso Togliatti si spinse a indagare per via indiretta se vi fossero fiorite posizioni filo-trotskiste.
Apparentemente separato dal mondo, quel luogo trasudava vitalità politica, era una delle sedi in cui si stava formando la classe dirigente dell’Italia democratica.
Il racconto di Cacciapuoti ci mostra l’ultimo atto di quella storia.
I bombardamenti portarono all’evacuazione, ma già prima le reazioni sconcertate delle guardie indicavano che si era aperta una breccia in quell’ordine repressivo.
Gli antifascisti di Civitavecchia ignoravano quanto accadeva tra quelle mura.
Quel momento, il più drammatico che si potesse immaginare, fu anche l’occasione di un fugace incontro tra i detenuti e la popolazione. Divenuti finalmente visibili agli occhi degli uomini liberi, da alcuni gesti di simpatia ricavarono fiducia che il cambiamento era ormai in atto.
Emozione di un viaggio.
Finalmente la cosa fu chiarita. Si seppe dalla guardia di servizio che tutti quelli messi in quel camerone erano stati trasferiti, e all’indomani sarebbero partiti per Sulmona.
Nei prossimi giorni ci sarebbero state altre partenze: tutti i «politici» dovevano andar via da Civitavecchia. Così avevano decretato i Ministeri dell’interno e della giustizia. Era veramente una grande novità. L’uscita dal carcere di Civitavecchia, il viaggio, il nuovo carcere produssero una eccitazione generale. Intanto era venuta l’ora della «cena» ed ognuno mise sul tavolo quello che aveva.
Ma mentre ci si apprestava a dividere collettivamente quello che si aveva si sentì un rumore fragoroso, il camerone ballava, e i detenuti sentirono la guardia che dava tutta la mandata alla porta, mentre paurosi boati echeggiavano a poca distanza.
Tutto a un tratto suonò l’allarme. Gli americani avevano bombardato a poche centinaia di metri dal carcere, avevano colpito il porto e alcune abitazioni; v’erano molti morti — così disse la guardia quando tornò un’ora dopo dal rifugio.
Aveva la faccia pallida, e gli occhi stravolti. Aveva voglia di parlare. Lo chiamavano “Veleno”, i politici, tanto era carogna, ma quella sera era diventato uno zuccherino e raccontò il suo panico e quello di tutto il corpo di guardia.
Disse che mentre loro erano scappati a nascondersi, avevano chiuso bene tutte le porte dei cameroni.
Disse ancora che la difesa antiaerea non valeva niente, che l’allarme era suonato quando già i bombardieri erano tornati alle loro basi, che lui «ascoltava regolarmente radio Londra», ecc.
La notte passò come un fulmine, nel camerone di transito. Era ancora buio quando tutti furono fatti scendere nell’ufficio matricola. Si espletarono le formalità e la scorta dei carabinieri prese in consegna i detenuti.
Il capo scorta, un ufficiale, entrò subito in azione.
«Sentite — disse — io non sono fesso, non voglio fastidi. Ho dei mezzi per ridurvi alla ragione. lo sono un “padre di famiglia”. Filate diritto. Uomo avvisato è mezzo salvato.»
Nessuno gli rivolse la parola. Tutti girarono la faccia dall’altro lato, per non guardarlo, e testimoniargli il loro disprezzo. Così si misero in cammino, attraversarono un sottopassaggio e si trovarono, dopo tanti anni, all’aria aperta.
Albeggiava. Si vedevano ancora molte stelle. Tutti guardavano il cielo. Sembrava una novità; non la vedevano da tanto tempo, l’alba.
Con una catena ogni tre persone, in fila, raggiunsero a piedi la stazione. Ma il treno non era pronto, ed allora si sedettero a terra con le loro valigie.
I carabinieri fecero un cerchio, cercando di nascondere i detenuti, perché era venuto giorno e i passanti cercavano di guardare al di là dello sbarramento, ad ogni costo, dato che la notizia si era sparsa per tutta la stazione.
Ci sono i detenuti politici — dicevano — e le facce dei ferrovieri dicevano chiaramente che erano per i detenuti.
Ad un tratto, anche qui, suonò la sirena d’allarme. Tutti scapparono al ricovero. I compagni restarono seduti ai loro posti mentre i carabinieri si agitavano, volevano scappare ma non potevano e si muovevano come se avessero il fuoco sotto i piedi e guardavano spaventati nel cielo: improvvisamente l’ufficiale ordinò una stretta alle manette e scappò al ricovero anche lui.
Finalmente suonò il cessato allarme e i viaggiatori tornarono terrorizzati e si capiva che erano ancora sotto l’impressione del bombardamento della sera prima. Tornò anche l’ufficiale che cercava di darsi un contegno, ma non riusciva a nascondere il suo disagio di uomo vile anche nei confronti dei suoi carabinieri e non aveva neanche il coraggio di guardare i detenuti che ostentatamente ridevano e scherzavano fra di loro: i carabinieri erano diventati più familiari e in fondo erano un po’ orgogliosi perché erano riusciti a non scappare.
Uno di essi spiegò che quella bandierina che i compagni avevano visto su un mucchio di macerie alla uscita del carcere voleva dire che tutti gli abitanti di quello stabile erano rimasti sotto le pietre: la bomba aveva colpito in pieno, ed in quelle occasioni — disse il carabiniere — non c’è niente da fare, e le squadre di soccorso non ci si provano nemmeno, e poi i fascisti del gruppo rionale, in grande uniforme, vanno a piazzare sullo stabile colpito la bandiera tricolore, il che vuol dire «morti per la grandezza della patria ».
Il treno per Roma era ormai pronto e due vagoni bestiame erano a disposizione dei detenuti, che vi furono fatti salire. La gente era ormai aumentata, e si facevano capannelli e guardavano ostentatamente, con simpatia.
Il treno si mise in movimento; e dall’altro binario vuoto si vedeva un ferroviere agitare la sua bandiera rossa verso i compagni in segno di saluto. Il treno si mise a correre verso Roma e Civitavecchia scomparve (…)
A Sulmona furono condotti alla Badia, un vecchio monastero trasformato in carcere, fuori del Centro, ai piedi del Monte Morone.
Il capo delle guardie, con tutto il corpo di guardia, li prese in consegna dopo che l’ufficiale dei carabinieri gli ebbe consegnato gli incartamenti di ognuno.
Già erano stati allestiti due cameroni, e qui furono messi i nuovi arrivati da Civitavecchia.
Non era passata nemmeno mezz’ora che si sentì il rumore della chiave che girava nella toppa. Si sentiva una mano poco abile (già, perché le guardie di Civitavecchia raccontavano che gli esami del concorso per guardia carceraria erano molto difficili e l’ostacolo più duro da superare era racchiuso in questo insegnamento, decisivo per superare la prova: “mettere la chiave nella toppa senza far rumore, aprire con un sol colpo e gridare con voce sprezzante: aria e pulizia.”
Quello di Sulmona manovrava la chiave troppo lentamente. Ma la porta si aprì ed entrò il direttore e il capoguardia, accompagnati da un gruppo di guardie.
Il direttore si presentò: “Io sono il signor direttore. Qui c’è aria buona e acqua fresca. Io sono un padre di famiglia, ma sono severo. Badate che ho delle celle sotterranee che da anni non ci mando più nessuno, nemmeno gli ergastolani, tanto sono pesanti: chi va in quelle celle non uscirà vivo. Fate attenzione, che sono a vostra disposizione.”
Così fecero conoscenza con il direttore di Sulmona, dopo che per lunghi anni avevano conosciuto altre due perle, Doni e Carretta, anche essi modesti “padri di famiglia” e direttori, uno dopo l’altro, di Civitavecchia.
I fascisti in agonia
Le notizie che arrivavano facevano capire che i fascisti erano in agonia. Una certa aria di libertà entrava dai finestroni. I detenuti intensificarono il lavoro per la loro educazione e lavoravano sodo.
A Sulmona era più facile: i compagni partecipavano alle discussioni collettivamente mentre a Civitavecchia non potevano parlare in più di due. E qui nessuno si sognò di imbastire i rapporti di Civitavecchia, dove le guardie che non facevano almeno un rapporto al giorno venivano cambiate. Le guardie di Sulmona non conoscevano le abitudini dei politici e si comportavano con loro come se fossero detenuti comuni (…).
Scarcerato il 22 agosto, Cacciapuoti tornò a Napoli, dove fu tra i promotori delle “quattro giornate” e tra i dirigenti comunisti che accolsero Togliatti al suo rientro in Italia nel marzo 1944.
Nel dopoguerra ha ricoperto incarichi di direzione regionale e nazionale nel PCI, come membro dell’Ufficio di Segreteria e segretario della Commissione centrale di controllo. Era noto per le sue posizioni alquanto ortodosse. Nel 1992, anno della sua scomparsa, gli è stato reso l’estremo saluto da Giorgio Napolitano, allora Presidente della Camera.
CLAUDIO GALIANI
Per non dimenticare. Condiviso su Facebook per maggiore diffusione(una specie di ciclostinaggio alla tipografia Gargiulli).
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In alcuni parchi di Londra ci sono in bella mostra grossi serbatoi di aerei ITALIANI che nel 1940 insieme ai NAZISTI bombardavano tutti i giorno la Città durante la battaglia di INGHILTERRA durata oltre sei mesi con migliaia di civili morti..
NON ERA MEGLIO se fossimo rimasti a casa nostra ?
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Magnifico contributo e quanto mai opportuno proporlo ai lettori nella data simbolo del 14 maggio. Grazie, Claudi! NP
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Certo, Spinelli, che sarebbe stato meglio che mio padre, classe 1920, non fosse mandato da Mussolini nel 1940 a fare la guerra a Tobruck ee poi prigioniero degli inglesi fino alla fine della guerra. Mai più il fascismo e le guerre!
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Cara Paola !
Fu l’ITALIA nel 1940 a mandare gli aerei a bombardare la popolazione inerme di Londra diciamolo quando si parla del bombardamento di Civitavecchia.
Il NAZI- FASCIMO è risorto più forte di prima :
cosa risponderanno al GIUSTO GIUDICE di NORIMBERGA
i politici felloni,
i nuovi DOTTOR MENGELE 5.0
e le squadracce della GESTAPO che si aggirano per le strade,
quando saranno giudiicati per alto tradimento dei PARTGIANI MORTI per la NOSTRA LIBERTÀ, per ALTO TRADIMENTO al GIURAMENTO di FEDELTÀ alla COSTITUZIONE dei NOSTRI PADRI della REPUBBLICA ITALIANA,
alla BANDIERA
e alla SOVRANITA del POPOLO ITALIANO ?
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