ËL DECROTEUR DI NONNO PAOLO
di FRANCESCO CORRENTI ♦
Raramente ho avuto a che fare con un tipo così, piccolo, tracagnotto ma robustissimo. Da sempre, lo vedo lì, piantato sulle gambe un po’ divaricate, immobile, solido, che emana dall’aspetto questa solidità. E sempre disponibile, pronto ad aprirsi. Senza un lamento e senza un cedimento, senza scricchiolii, cigolii. Tutto quello che ha dentro, allora, lo mostra apertamente. Mi ricorda molto la descrizione fatta da Marco Vitruvio Pollione (De architectura, III.3.5) del tempio etrusco: «Aveva l’aspetto di una persona tarchiata, piantata a gambe larghe sul terreno».
Adesso non più, ma una volta era diverso. In lui, ci trovavi tutto quello che ti serviva, in un ordine mentale perfetto, e poi con quelle varietà di sostanze, di colori, con quell’odore tipico, un profumo certo particolare, anche forte, ma gradevole. Lo ricordo sempre al suo posto dalla mia infanzia, in casa – nelle varie case – da prima di me. Novant’anni di certo, magari non molti di più, per le sue caratteristiche fisiche, diciamo la sua forma. Una forma moderna, squadrata ma non rigida, anzi tutta smussata negli spigoli esterni, con una volontà precisa di non “offendere” nessuno, di non far male a nessuno.
Non credo provenisse dalle case di Torino o da quelle francesi, certamente non da quelle siciliane, in origine. Penso sia stato portato in casa, appunto, negli anni Trenta, ma quando già si avvicinavano ai Quaranta, quindi direttamente nella casa di Roma, a Ponte Milvio sponda etrusca, forse con altri simili, della medesima categoria. Poi, da lì, trasferito in via Nazionale e infine di nuovo sulla Cassia, in quello che si chiama anche fuori dalle zone archeologiche, malgrado le tante costruzioni, interi quartieri, “Parco di Veio”.
È quindi dalla casa sulla Cassia che, in qualche momento imprecisato, s’è spinto, o meglio è stato spinto, dove è oggi, molto più avanti in Etruria. Dovrebbe trovarcisi a suo agio, anche se oggi è la Tuscia, perché quel tipo di cosa non è nuovo da queste parti, aveva sicuramente dei precursori, degli antenati.
A prescindere dalle origini, penso che mio nonno Paolo lo chiamasse, nel suo piemontese, “ël decroteur”, quasi identico al francese “le décrotteur”, che sarebbe nient’altro che “il lustrascarpe”, quello che nella Napoli di Malaparte e di De Sica gli alleati chiamavano “shoe-shine” e i locali “sciuscià”, divenendo vocabolo famoso e quasi universale.
Ma attenzione, io non sto parlando di quei ragazzi napoletani del nostro doloroso dopoguerra, nella città che si era liberata da sola, eroicamente. Piccolo, tracagnotto ma robustissimo, da sempre in casa mia, è un elemento d’arredo, un pezzo del mobilio, un mobiletto di servizio, per l’esattezza un sedile, più propriamente uno sgabello. Ma non solo.
Perché è certamente uno sgabello ma anche un cassetto, un contenitore, utilizzato per tenere in buon ordine spazzole di varia foggia e panni morbidi e poi tubetti e scatole rotonde di lucido o crema o pasta nei diversi colori.
Ed è uno sgabello che, dovendo prendere qualche oggetto in alto, un libro sullo scaffale a soffitto, una valigia su un armadio, oppure cambiare una lampadina al lampadario, per dire, ci puoi montare sopra (ce la puoi fare, non è troppo alto, ma è meglio appoggiarsi con una mano da qualche parte) e ti regge perfettamente, senza schiantarsi sotto i tuoi 105 chili: aggiungerei pure «senza se e senza ma», ma me ne vergogno…
In origine, nuovo nuovo, era di colore celeste, quel celeste che era anche la tinta degli altri mobili nei locali di servizio nella casa d’una volta, il bagno e la cucina, caratteristico e diffuso finché non giunsero a soppiantarlo i rivestimenti di fòrmica delle “cucine all’americana”, e poi le mille mode della seconda metà del XX secolo. Per arrivare ai ritorni di questi anni, magari con “effetto decapè”, oppure “effetto anticato” e tinta “blu grigio Avignon” ed altro ancora.
Adesso, qui in campagna, lo tengo di fianco a me, vicino alla scrivania, come piano d’appoggio per i libri da consultare, per scorrere uno schedario. Ad alzarne il piano del sedile, è vuoto, un vano quadrato 23 per 23, profondo 7 centimetri. Sarà che quell’abitudine delle scarpe lucide io non l’ho più praticata. D’inverno (che poi pure le stagioni…) porto scarpe di camoscio o anche di pelle scamosciata – Mephisto (World’s Finest Footwear, ma made in France) –, d’estate sneaker (le scarpe da ginnastica d’una volta, “i scarp de tennis” di Enzo Jannacci) o più spesso zoccoli sanitari in gomma, detti pure “scarpe da lavoro”, quando non (se sono appunto a “Tre”) le babouches gialle comprate a Casablanca secoli fa, un po’ sbertucciate ma per andare in paese – alla Vela o al Cinema Palma – vanno benissimo.
Sollevarne il coperchio all’epoca sua, invece, significava spalancare uno scrigno di forme, di colori e di odori. C’erano spazzole rettangolari con gli angoli arrotondati, altre a punta per il fango su quel bordo tra la tomaia e la suola, e altre rotonde con manico (e inoltre spazzolini di varia grandezza e piccole spugne), e poi quelle in crine di cavallo, nero e biondo, in setole di cinghiale, di saggina, in gomma a meandri, in fili d’ottone). C’erano panni di lana e di cotone, alcuni bordati e rifiniti, altri parti di vecchi maglioni consumati e dismessi. E poi i tubetti di crema e le diverse tipiche scatolette di latta basse, rotonde, con di lato la chiavetta girevole per aprirle, sollevando a leva il coperchietto, ed erano marca Brill, con l’omino ricurvo a guardare compiaciuto la punta splendente dello stivaletto, o Tana Gallo Nero, col pennuto rampante ad ali aperte, o ancora Marga, Guttalin, non so che altro in quella varietà di sostanze e di colori. Tutte con quell’odore tipico pungente, un profumo certo particolare, anche forte ma gradevole, e comunque proprio un profumo. Basta, mi sto ripetendo…
Se poi tutto quell’armamentario della pulizia pedestre che ho elencato qui, a dire il vero, sia più nel mio ricordo di quanto fosse effettivamente contenuto nel piccolo vano sotto lo sportello a ribalta è una cosa da capire. Resta il fatto che in quegli anni – possiamo farli arrivare più o meno fin verso la fine dei Sessanta – lo sgabello lustrascarpe è stato una presenza umile ma costante nella casa dei miei genitori, punto di passaggio obbligato prima di ogni uscita per la scuola o per altre mete, dove la “proprietà” dell’abbigliamento, letteralmente, dalla testa ai piedi, rappresentava un requisito indispensabile nelle regole sociali del decoro borghese. Quando il termine sociale indicava ciò che riguarda la società, i rapporti interpersonali con gli altri, le classi della popolazione, le idee, le scienze o le leggi per una convivenza giusta e pacifica, non il “distanziamento” imposto dalla pandemia in atto, che meglio dovrebbe dirsi “fisico” o “personale”.
Riabbasso il sedile che ho sollevato per misurare e disegnare lo sgabello, questo sopravvissuto Decroteur di Nonno Paolo, questo solido “novantinu” come – all’estremità opposta dell’Italia – Andrea Camilleri avrebbe fatto dire a Nonno Francesco se dalle falde dell’Etna fosse capitato dalle parti di Vigata, provincia di Montelusa. Richiudo lo sportello e capisco che il cassettino nascosto non è vuoto, come avevo detto. Non solo ci stanno, in ordine perfetto, le spazzole, gli spazzolini, i raschietti, i morbidi panni gialli, le pezze di lana, i tubi, i tubetti, le scatoline rotonde con il loro contenuto di paste e creme profumate da cera d’api, carnauba e trementina, c’è ben altro. C’è proprio tutto… tutto quello che viene rievocato nella mia mente, richiamato nella mia immaginazione, amplificato nel mio ricordo, dalle forme, dai colori, dalle sensazioni tattili, dagli odori, addirittura dal rumore, cioè il suono attutito dello scatto del nottolino sferico a molla che aggancia il piano incernierato al vano quadrato sorretto dalle quattro gambe. C’è il mondo del passato, gli anni spensierati dell’infanzia, i volti delle persone care scomparse ma sempre vicine nell’affetto. Quel quadrato di 23 per 23, non è profondo 7 centimetri, si apre sull’infinito, è la bocca – la “vera”, a voler parlare forbito – del pozzo senza fine della nostalgia.
FRANCESCO CORRENTI
Ti leggo con piacere nella mezzanotte inoltrata. Quante notizie, quanta inventiva, quanta cura. È vero, il Budda si trova anche nel mobiletto del lucido per le scarpe.
Grazie 🙏
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Ho davvero piacere che questa mia esternazione, tenuta da parte interrotta per molto tempo e finalmente terminata, abbia trovato tanta condivisione. Grazie Paola e grazie ad un altro caro e coltissimo amico che mi ha voluto esprimere il suo pensiero con un messaggio personale. Devo ditre che, questa volta, ho avuto un sincero successo anche in famiglia.
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