E IN TEMPO DI CORONA RIECCO LA NOBILTÀ

di FRANCESCO CORRENTI

Un articolo di Emanuele Coen su “L’Espresso” del 12 luglio scorso, Cartoline d’Italia, prende spunto dalla constatazione che «durante il lockdown molti italiani hanno approfittato del tempo vuoto per mettere in ordine le memorie di famiglia, scandagliare armadi, soffitte e archivi di smartphone e computer, riportare alla luce fotografie ingiallite, tremolanti filmini, immarcescibili super 8. Non potendo immaginare il futuro con il suo carico di incognite, in molti hanno cercato riparo nel passato, si sono riconnessi con le proprie radici, con le persone care diventate d’un tratto lontane…» Anch’io ho seguito lo stesso impulso di tanti altri, con un particolare senso di soddisfazione, trovandomi finalmente a disporre, come mai prima, di intere lunghe giornate senza impegni esterni, senza dovermi preoccupare di certe scadenze di lavoro, senza dover partecipare a riunioni istituzionali o professionali da qualche parte, senza neppure dover assolvere a quelle semplici e poco impegnative incombenze derivanti dall’essere nonni assai felici di nipoti ancora bambini.

Sono così riuscito a calarmi nelle profondità di quei territori trascurati da anni, costituiti dagli scaffali, dagli schedari e dalle cassettiere dello studio (sullo stesso pianerottolo di casa) con i loro contenuti cartacei o analogici, e nei meandri – una palude immensa di cartelle, sottocartelle e sotto-sottocartelle con migliaia di file – dei dischi rigidi dei pc, comunque fin dall’inizio organizzati e classificati con criteri rigorosi, su base tematica e cronologica, grazie alla mia esigenza professionale (e di frequente indagato poi sempre prosciolto o assolto) di ritrovare con immediatezza dati e documenti. Correnti Img 0Ho indirizzato la graduale “riscoperta” del materiale riemerso verso due obiettivi, sostanzialmente analoghi: il completamento di alcune ricerche storico-urbanistiche che i miei cortesi editori hanno atteso da anni con pazienza consapevole della complessità del tema e la progettazione (spinta fino al dettaglio edilizio, architettonico e decorativo più minuto) che mi è stata richiesta per realizzare la ricostruzione virtuale con l’uso della grafica 3D di una parte di città totalmente scomparsa, sulla base di documenti eterogenei e lacunosi da cui trarre le informazioni. In entrambi gli obiettivi, l’oggetto da indagare è stato lo stesso, cioè la città di Civitavecchia, di cui mi sono occupato da molti anni sotto il duplice aspetto dell’esplorazione del suo evolversi attraverso i secoli passati e della programmazione, col supporto delle conoscenze acquisite, del suo futuro assetto urbano in uno sviluppo sostenibile, coerente e corretto per una migliore vita dei cittadini.

Mi sembra doveroso – ed è una mia convinzione da sempre, che ho posto in pratica per anni quando e finché ho potuto – far conoscere i risultati di questi studi, perché solo attraverso gli scambi di informazioni, l’aggiornamento dei dati, la collaborazione tra gli studiosi e la condivisione del sapere è possibile progredire e migliorare. In questo come in qualsiasi altro campo della ricerca scientifica. L’attuale gravissima emergenza con la necessità di individuare al più presto prevenzioni, cure e antidoti del Covid-19 ne sono la prova evidente. Proprio con questa finalità, ho piacere di tratteggiare qui una sintesi degli studi ai quali ho contribuito, condotti spesso in forma collettiva, proprio anche per dare il giusto riconoscimento alle molte persone – colleghi, collaboratori, aiutanti – che vi anno partecipato. Senza alcun intento autoreferenziale.

Il 1960 è stato l’anno di partenza delle mie ricerche – condotte in gruppi di lavoro in ambito universitario – di urbanistica e di architettura nel territorio laziale, prima su alcuni monumenti di Roma, poi sulla Tuscia ed i suoi centri etruschi, in particolare su Vulci e l’Abadia, Corneto, Caere e Pyrgi. Poi le tesi coordinate su Civitavecchia di Paola Moretti (Restauro dei monumenti e ricerca storica) e mia (Urbanistica e Composizione architettonica).

Lo studio per la ricostruzione della Civitavecchia scomparsa e della chiesa di Santa Maria Assunta l’ho iniziato nel 1975. Per diversi evidenti motivi, essendo all’epoca un dirigente comunale a tempo pieno, l’ho potuto portare avanti a tappe, dedicando alle ricerche ed elaborazioni storiche le poche ore libere che mi restavano. La prima tappa ha riguardato la paziente lettura e trascrizione del Campione, lo straordinario cabreo del 1710 sui possedimenti del Convento domenicano, salvato tra le macerie dell’antico convento da padre Giovanni De Mattia e custodito con poche altre reliquie in un armadio del nuovo, quello costruito “fuori sede” alla Rocca. Anche in questo caso si è trattato di una vera e propria ricostruzione delle molte pagine dilavate dalla permanenza in acqua o già danneggiate da altre cause precedentemente.

La seconda fase, condotta negli anni 80, si è sviluppata riprendendo come base il grande lavoro di collazione e ridisegno dei progetti e rilievi storici autografi del porto compiuto da Paola Moretti tra il 1964 e il 1967 (in seguito fondamentale per gli interventi delle Soprintendenze e dell’Autorità Portuale nel recupero dei monumenti del porto storico per il Giubileo del 2000) ed ha riguardato la ricostruzione planimetrica del convento e della chiesa, ma contemporaneamente del porto e della città entro i bastioni cinquecenteschi e delle principali emergenze urbanistiche dell’intero Patrimonium Beati Petri, e la contemporanea traduzione dei volumi di Jean-Baptiste Labat, fatta insieme a Giovanni Insolera, che ha portato nel 1990 alla ricostruzione in grandezza reale della facciata della chiesa nell’omonima piazzetta, insieme all’allestimento di una mostra su Civitavecchia del Settecento, che ha reso disponibili al pubblico i risultati delle ricerche compiute fino a quel momento. L’avvocato Ezio Calderai, all’epoca assessore all’urbanistica, è stato Il tramite fondamentale per la sponsorizzazione dell’iniziativa e così la facciata alta venti metri in legno, sorretta da un imponente ponteggio, non ha gravato in alcun modo sul Comune.

Nel 1995 e nel 2005 i risultati della seconda fase di ricerche sono stati pubblicati nel volume sui Voyages e nella seconda edizione di Chome lo papa uole… Anche in questo caso, l’avvocato Calderai, questa volta quale presidente della Cassa di Risparmio, ha avuto un ruolo centrale e indispensabile di promotore.

La prosecuzione delle ricerche per la conoscenza sempre più approfondita e dettagliata dello sviluppo urbanistico della città aveva visto anche il completamento delle mie cento tavole sull’assetto urbano nei secoli (il metodo dell’anastilosi grafica presentato al convegno sul rilievo di Perugia nel marzo 1989 e pubblicato su “XY”) e la serie degli schizzi prospettici, le vedute magistrali di Armando Massarelli e la pianta geo-referenziata disegnata con la collaborazione di Elisa Fochetti. Tesi di laurea in varie discipline e studi su temi specifici, presentati nei convegni “Punti di fuga”, hanno sviluppato i vari settori della ricerca. Si è dovuto supplire con iniziative autonome o condotte in ambito interregionale all’impossibilità di proseguire l’attività del CDU, il centro di documentazione istituito nel novembre 1977, nonostante la disponibilità dei fondi approvati dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per un moderno Urban Center.Correnti Img 1

Infine, una dimostrazione positiva delle aperture verso tutte le possibili risorse disponibili sono state le sempre più frequenti occasioni di scambio culturale con la dottoressa Roberta Galletta – studiosa, ambientalista e presidente della sezione di Civitavecchia di Italia Nostra – e la contemporanea ripresa di contatti con studiosi, associazioni e istituzioni per le iniziative legate a celebrazioni e anniversari (Fortezza, Traiano, Festa della Storia, Campanile di San Giulio/Sant’Egidio) e le nuove prospettive e scoperte delle molteplici indagini archeologiche, i cicli pittorici delle Casermette, l’Aurelia nova e il viale dei cento pilastri… Fino all’ultima occasione, dove la brillante proposta di replicare la realizzazione bolognese della realtà virtuale, accolta con entusiasmo nel quadro dell’utilizzo dei fondi ministeriali del Prusst ma poi incomprensibilmente ed irresponsabilmente stroncata in sede di Giunta comunale, è stata resuscitata dalla coraggiosa e generosa decisione di Roberta Galletta. La nuova elaborazione delle ricerche nelle forme necessarie alla realizzazione della Macchina del Tempo, ha portato ad ulteriori approfondimenti.

Nel frattempo, alcuni eventi hanno rappresentato l’occasione per un bilancio generale: la mostra “L’Anima di Civitavecchia” per il 14 maggio del 2018, gli articoli sulla rivista “Lazio ieri e oggi” di Willy Pocino, la replica della mostra in Palazzo Patrizi Clementi, i due convegni e l’alto riconoscimento da parte della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale, promotrice la Soprintendente architetto Margherita Eichberg e relatore il professore emerito Giovanni Carbonara, con l’intervento di molti protagonisti delle iniziative più recenti, dai vari noti accademici ai più giovani tesisti, dai musei del territorio alle non poche amministrazioni illuminate. Correnti Img 2Una dimostrazione ulteriore delle grandi potenzialità che scaturiscono dalla sinergia e dal coordinamento di studi pluridisciplinari molteplici e diversi, che potremmo forse definire con l’ossimoro scalfariano (o moroteo) delle «convergenze parallele».

Tra l’altro, sono tornate alla luce, nel vero senso della parola, una serie di documentazioni, di disegni e di ricostruzioni di particolari dimenticati, di opere d’arte perdute o disperse, di situazioni inedite e di fatti rimasti sconosciuti. Tra queste sorprese, vi è lo studio svolto attraverso ingrandimenti della documentazione fotografica ed il ridisegno di ogni particolare proprio della chiesa di Santa Maria, che ha evidenziato l’esistenza, sui pilastri della chiesa, degli stemmi dipinti delle famiglie più in vista della città. E ancora una volta, il nome della famiglia Calderai torna a costituire un elemento ben presente nelle vicende storiche di Civitavecchia. Alcuni anni addietro, perché quel cognome è risultato lo stesso del titolare della ditta costruttrice di un noto ed elegante villino in stile floreale dei primi anni del Novecento. Questa volta, attraverso un antenato, Giulio, il cui stemma gentilizio era posto, insieme a quelli di altre venti famiglie, sui pilastri della chiesa e questo, precisamente, sulla parete di sinistra, subito prima della cappella del Sacro Cuore appartenuta fino al 1699 alla Confraternita della Morte e Orazione.

È stata questa la scoperta più inattesa e curiosa del lungo periodo di clausura che ho potuto dedicare, finalmente, al materiale d’ogni genere accumulato negli anni, dopo innumerevoli tentativi saltuari e poco concludenti di analizzarlo e farne una collazione organica, questa volta senza altre distrazioni e ligio alla parola d’ordine, ripetuta con soddisfazione, “Io resto a casa!” Ci ho messo tempo e pazienza, perché tutti quegli stemmi, posti in alto, appena sotto ai capitelli delle paraste scanalate, erano stati ripresi, ovviamente, dal basso e, quasi sempre, di scorcio, con forti angolazioni deformanti che ne rendevano difficile o impossibile l’interpretazione e la lettura dei nomi, spesso anche sfocati. Alla fine, grazie anche all’uso d’un programma informatico per “raddrizzare” le immagini, sono riuscito ad identificare i nomi e cognomi di sette delle venti persone che avevano posto il proprio blasone di famiglia. Per Giulio Calderai, devo dire di essermi un po’ ritrovato nei panni di Giovanni Battista Labat, quando era rimasto colpito e perplesso vedendo lo stemma del connazionale Stefano Vidau (a Civitavecchia non pronunciato Vidò ma letto come è scritto, forse con una presunzione di sardità o, se preferite, di sarditudine). Stemma fregiato da un «doppio cuore “di rosso”», che in verità non appare nella lapide nella chiesetta di San Francesco di Paola e che parve al domenicano una prova di doppiezza tout court.

Nel mio caso, la perplessità nasceva dalla scritta che accompagnava lo stemma. Questo – di cui non conosciamo i colori, disponendo solo di fotografie in bianco e nero –  è formato da uno scudo a mandorla inserito entro una cornice elaborata con ornamenti esteriori architettonici, d’argento (?), caricato da un cimiero posto in maestà con lambrecchini ricadenti, sovrastante un semplice rettangolo interzato alla banda stretta. Sotto il blasone, il cartiglio su lista bifida e svolazzante recava, in lettere capitali romane, le parole «AZZURRO GIVLIO CALDERAI». Uno scambio di corrispondenza e di post su Facebook con Ezio e Sandro Calderai mi ha rivelato che Giulio era il loro prozio (il fratello del nonno), che era nato verso la fine dell’Ottocento, aveva fatto la Prima Guerra Mondiale ed era stato insignito di un riconoscimento per il valore di cui aveva dato prova (“Azzurro non era il nome, ma il colore del nastro che teneva la medaglia al valor militare”) ed era morto nei primi anni Sessanta.

Avevo sospettato che quello non fosse il nome (pur essendoci analogie con il ben noto Celestino), ma pensandolo più antico non avevo associato il colore all’onorificenza (peraltro meritata con altre anche da mio padre in quegli stessi anni). Nemmeno alla nostra nazionale. Mi sembra interessante il fatto che quella apposizione di blasoni gentilizi dipinti sulle pareti della chiesa sia stata eseguita, quindi, nel Novecento, fine anni Trenta probabilmente, nell’ambito di un intervento di manutenzione e rinnovamento che spiega la presenza di famiglie precedentemente non note. Un qualcosa di più o forse in aggiunta alla consueta targhetta di ottone sul banco della chiesa, corrispondente ad una pia e generosa offerta per la celebrazione di messe di suffragio. Le famiglie civitavecchiesi di cui conoscevamo lo stemma perché pubblicato da Vittorio Vitalini Sacconi nei suoi volumi del 1982 sono ventisei: Alibrandi-Valentini, Andreotti, Annovazzi, Arata, Bianchi, Bonauguri, Calabrini-Caldani, Capalti, Collemodi, D’Ardia Caracciolo, De Filippi-Cantini, Fiori, Guglielmi, Guglielmotti, Manzi, Palomba, Pazzaglia-Zelli, Pucitta, Renda, Rocchi, Santini, Torraca, Valentini, Vidau, Voiret, Vitalini Sacconi. Di altre dodici Vitalini non fornisce lo stemma: Albani, Anselmi, Biancardi, Galimberti, Gili-Gigli, Leoni, Lusardi, Malacrosta, Modesti, Palanca, Poli, Sacratini.

Dello stemma degli Albani ho un mio disegno a colori e alcune fotografie, del 1980-82, anni in cui abbiamo (con progetto affidato a Nello Crostella) restaurato la loro Villa su Via delle Terme da destinare a centro culturale polivalente. Lo stemma era sulla volta a botte del corridoio a piano terra, ma nei miei recenti sopralluoghi ne ho dovuto constatare la scomparsa. In “compenso” sono apparsi i frammenti di quello di Benedetto XIV Lambertini che avevo recuperato nel 1983, usato come spegni-cicche dagli impiegati e che ancora non è stato riportato al suo posto, previsto presso la fontana del Vanvitelli da cui fu divelto dai soldati francesi nel 1789 (vedi qui su SpazioLiberoBlog l’articolo Millenovecentottantatré del 1° luglio 2016).

Nei primi anni Settanta ho fotografato uno stemma non identificato sul portale a cancello del muro di cinta in località la Frascatana, scomparso per il furto di ignoti pochi giorni dopo ed uno dei Valentini sulla porta del Casale omonimo prospicente il Parco dell’Uliveto sull’attuale via Morandi (non ne ho più controllata l’esistenza). Ad oggi, nessuno stemma è stato rinvenuto nella tenuta Antonelli e, da quanto risulta, sui Casali Altavilla, Marconi, Turci e Biancalana.

Adesso, la nuova scoperta aggiunge alle famiglie gentilizie assurte in qualche modo alla notorietà cittadina e, come quelle del Settecento, con il desiderio di fregiarsi di titoli (ieri quelli di “Magnifico dottore e Nobile Cittadino”, nel Novecento, magari, di un patriottico “Azzurro” e della corona di conte), i cognomi degli Annovazzi, Berlingeri, Calderai, Carvigiani, Chiricozzi, Conti De Marsanich (lo stemma è sormontato dalla corona) e Olivieri. Gli stemmi gentilizi visibili nelle fotografie di padre Giovanni sono venti. Altri quattro potrebbero essere stati sulle paraste del coro. Di sette è chiaramente leggibile il nome delle famiglie e li abbiamo indicati, ma altri spero di poterli identificare dall’arma. Allo stato attuale, non sono presenti alcune delle casate più importanti ed antiche.

Voglio concludere con una breve riflessione. Sappiamo bene che le vicende di Civitavecchia si sono costantemente intrecciate con quelle di Roma, il centro del potere, la capitale dello Stato, la Città Eterna di imperatori e pontefici, re e duci, anzi ne sono derivate, dipese, condizionate. Ma questo, non sempre contemporaneamente… Se, per esempio, la costruzione del porto ad Centumcellas – con lo scavo della darsena, la gettata del braccio sinistro, l’elevazione del destro e la graduale emersione dell’isola artificiale –  fu quasi coeva degli analoghi lavori del nuovo bacino di Portus, come la costruzione della cinta muraria può essere collocata negli stessi anni della rapidissima fortificazione di Aureliano o di qualche suo successivo restauro (Stilicone?) e come, poi, les grands travaux dei papi nella Roma rinascimentale e barocca vedono la simultanea realizzazione di grandi opere a Civitavecchia (ed anche ad Ancona e altrove), per altri aspetti si hanno forti differenze cronologiche. La storiografia romana – ce l’ha ricordato anche un bel libro di Costantino D’Orazio d’una decina di anni fa – si formò “quasi completamente in età augustea”, attraverso “le ricerche dedicate alla ricostruzione della nascita della città” fortemente volute da Cesare e da Ottaviano Augusto.

Per vedere manifestarsi un’esigenza culturale ed identitaria del genere a Civitavecchia (certo, tenendo conto del lungo periodo di germinazione della Civita “senza nome” sulle rovine della Vecchia saccheggiata e abbandonata) bisogna arrivare all’anno 1700 e ad Arcangelo Molletti, alle iscrizioni celebrative dei “Fasti civici” nel Palazzo della Comunità (1696-1718) ed alle storie di Frangipani e Torraca del 1761. In proposito, rimando a quanto scritto da Odoardo Toti e da altri studiosi dopo la pubblicazione nel 1985 in Chome lo papa uole… dei brani di maggiore interesse del manoscritto inedito delle Antichità e’ Memorie da me recuperato alla Casanatense. Per conoscere qualcosa di concreto sulla città fisica, sulla sua forma urbana, sulle strade e piazze, sulle fortificazioni, sui palazzi e sulle chiese, bisognerà aspettare i Voyages di padre Labat, che essendo un architetto tratta ampiamente di questi argomenti, trascurati dagli storiografi municipali se non per darne marginalmente date e attribuzioni.

Purtroppo, però, l’opera del Labat, edita a Parigi e ad Amsterdam nel 1730 e nel 1731, è rimasta completamente ignorata a Civitavecchia, a parte alcune citazioni del Calisse e la silenziosa lettura fattane da qualche studioso che ne possedeva gelosamente copia, fino agli anni Settanta del secolo scorso. I microfilm riportati dalle varie mattinate che trascorsi nel mese di agosto d’un paio di anni alla Bibliothéque Nationale de Paris (ancora quella, magnifica, di Henri Labrouste, con i lumi azzurri), il successivo fortunato acquisto d’una copia dell’intera opera da parte di Adelmo Covati, la traduzione dei volumi fatta da Giovanni Insolera e da me, la già richiamata trascrizione del cabreo Campione avuto con altri documenti nel 1975 da padre Giovanni De Mattia e dal superiore provinciale O.P. padre Giuseppe Serrotti di Santa Maria sopra Minerva, furono gli elementi rivelatori che portarono alla grande mostra ed al quaderno Civitavecchia del Settecento nelle memorie del padre Labat, con la ricostruzione in grandezza reale della facciata della chiesa progettata nel 1710 proprio dal frate francese e fatta demolire da un vescovo e da un commissario prefettizio senza suscitare alcuna rivolta, almeno nelle coscienze.

Di queste coscienze e di queste conoscenze, di questi avvenimenti e del loro significato per comprendere appieno l’anima, il carattere, il senso, le vocazioni dei luoghi e della città nel suo insieme, cosa rimane nella memoria collettiva, nel sapere delle giovani generazioni e, soprattutto, nella consapevolezza (nella coscienza) di quanti giungono – spesso anche da altri luoghi, quindi senza radici locali – ad amministrare la Città?

FRANCESCO CORRENTI