LA MADRE

di CARLO ALBERTO FALZETTI

Il treno da Termini era giunto a Ladispoli e, lentamente avanzava lungo la strada ferrata. La distesa uniforme della compagna gialla, il nudo disegno della interminabile linea della costa, piatta e sommamente monotona, aveva accompagnato il mio inquieto animo in questa parte del viaggio.

Dovevo raggiungere Corneto per incontrarla. Dovevo trovarle un asilo ora, che l’inverno era alle porte. Ancora una volta  aveva scelto la via randagia seguendo un povero tristo dedito al bere come lei, d’altronde.

Dovevo incontrarla a casa di una nostra parente che da qualche giorno le aveva concesso provvisoria ospitalità. Sapevo perfettamente come si sarebbe svolto il nostro incontro. Lei seduta  ad ascoltarmi ad occhi bassi. Udire le mie lamentele. Assorbire i rimproveri per come aveva fin qui trascinato la sua vita. Tediarsi per il mio petulante  biasimo per avermi provocato, chissà come, l’anchilosi al braccio quando ero neonato. Angosciarsi per le minacce di negargli ogni aiuto economico. Sopportare le mie raccomandazioni di mutar, una buona volta, il suo modo d’esistere. Parole vane. Lei avrebbe ascoltato senza dir nulla. Una lacrima sgorgata dai paludosi occhi le avrebbe solcato la gota aggrinzita ma il suo cuore non avrebbe trattenuto neppur un frammento di ciò che io le stavo dicendo. Amava la libertà, non c’era nulla che potesse convincerla. Tuttavia, io dovevo!

Ecco, il treno lascia ora intravedere alture boscose di fratte e macchioni che fiancheggiano la vasta pianura ed il paesaggio si fa più amichevole. Scorgo di lontano, alla mia destra,  buoi maremmani dalla neghittosa andatura sparsi tra i campi ricchi di pastura ed il cuore diviene più tiepido. Le lievi pendici tolfetane riempiono, dopo il grigiore della partenza, il mio petto di respiro ma certo non compensano la malinconia.

Questo viaggio mi pesa come non mai. Sono vecchio e questo scorrere veloce del paesaggio, questo avvicinarmi al luogo della radici agita i fantasmi della mente:

I ricordi, queste ombre troppo lunghe del nostro breve corpo.

Come corpi senza più vita, i ricordi affiorano irruenti dall’abisso galleggiando confusamente nella mia coscienza. Seduto nel mio scomodo sedile di terza classe gli occhi, fissi sul finestrino, sembrano non veder più il lento svolgersi del paesaggio. Gli occhi, ora, stanno osservando  la mia vita, la vita della mia adolescenza amara.

 Vedo la mia casa ove vidi la luce.

 Qui antiche donne vivono mai sazie di ricordare e narrano una storia che io so’ a memoria e che non vorrei sapere e dicono che una notte col cuore fasciato di crudeltà e d’ira fredda un uomo fece guasto senza pietà nei suoi affetti più sacri, disperse una famiglia in fiore.

Vedo il carro. Vedo mia madre su quel carro. Vedo un uomo su quel carro. Vedo mio padre con me e la mia sorellina fermi a guardare quel lento carro che s’avvia mesto nella piana verso  Civitavecchia.

Il treno s’è ora fermato a Santa Marinella. E’ da qualche minuto che l’odore del mare è entrato impetuoso nell’aria.

Dopo la ripartenza lo scoglio domina e tutto appare come un giardino fiorito. Il barbaglio del mare è accecante e l’odore ancor più penetrante. Dovrei  gioire di questo squarcio che la natura mi offre  ma l’animo mio è in rivolta. Una smania cocente si è impossessata di me e mi sta travolgendo attimo dopo attimo. Sto avvicinandomi a qualcosa di inquietante.

Civitavecchia!

Dovrei ricordare con letizia il luogo del mio primo lavoro, al porto. La mia prima indipendenza economica.  

Eppure non riesco a dominare l’angoscia. La stazione è ormai vicina, pochi minuti ed il treno mi condurrà nel pieno dell’abisso, nel nero cerchio da cui vorrei evadere.

Forse, dovrei dar spazio a lei. Dovrei aprire al suo dolore. Almeno per una volta nella vita. Una sola volta per comprendere che non ho solo io castigato la mia vita, vivendola.

Che cosa, lei, deve aver provato? Quale livello di dolore ha trafitto il suo cuore? Quale devastante strazio? Debbo farla parlare attraverso il mio cuore. Lasciar spazio alle parole che deve aver sussurrato allora!

 Lo devo!

Ecco, avverto la sua voce, mi vedo in quell’androne, non riesco a percepire con chiarezza il suo volto, forse, non voglio vederlo, ma tento affannosamente di immaginare la scena dal lato che non ho mai voluto accettare. Il luogo è qui, poco distante da questa stazione, a pochi metri da dove ora mi trovo dentro questo treno, inabissato in questo assurdo  vagone.

Mio Dio! Sento la sua voce!

“ Oh Dio mio, Nazzarè! Ma me vedi chi so’? Nazzarè ma non me riconosci? Nazzarè quanto sei grande, ma non vedi chi so’? “

“Signora, che vuole da me? Io non so’ proprio chi sia, vada via!!”

“A’ Giovà  ma che stai a fa? Li cacci i clienti? Non lo vedi che se ne annato via?

“No, no! Lo sai chi era quello, lo sai? Era…. Nazzareno , Nazzareno mio.

“Giova’, carmete. Viè qua, riposete, pija fiato. Qui ‘amo da lavorà. Non piagne fija. Lo sai, questa è la nostra vita. Non piagne Giovà! Guarda er salone è zeppo de clienti.

La vita io l’ho castigata vivendola….

Invano, invano lotto per possedere i giorni che mi travolgono rumorosi

Io….. annego nel tempo.

Il treno è fuggito dalla città del mio dolore. Vedo ora la Farnesiana, i suoi boschi. Ed ecco la campagna nuda, ondulata, sparsa di melanconiche rovine. Quando d’estate percorro in ferrovia questa terra, un odor di stoppie bruciate mi investe, languido agreste ricordo del mio antico asilo.

Fra poco il treno rallenterà. Sarà mia fermata, la stazione di Corneto.

Sono sceso, il treno è uscito dalla visuale. Sono solo in un silenzio lugubre.

 Il buffet della stazione: lo vedo come era allora quando mio padre realizzò il sogno della sua vita dopo la fuga di mia madre a Civitavecchia. Un giorno ebbe il permesso di costruirlo. Un casottino di legno, il “pinotto americano” (nome che tanto lo entusiasmava). Le malconce staccionate di cemento, i gerani svogliati lungo il marciapiede, un po’ di squallidi ed esausti eucalipti, l’estrema solitudine della stazione vuota. Oggi, come allora. Ed io, bambino, sulla riva di quel torrente secco che è la strada ferrata, a guardare la mia castellina , laggiù lontano, piena di torri.

 Giace lassù la mia infanzia

Lassù su quella collina

Ch’io riveggo di notte

Passando in ferrovia

Ecco, ora mi avvio verso la meta. L’incontro sarà come io l’ho immaginato.

Quando lei potrà rendersi madre ai miei occhi? Madre, non una vecchia parente da assistere. Madre, non acuto dolore da rimuovere. Quando potrò sentirmi figlio di te, madre? Essere accarezzato, viziato. Vedere il tuo sorriso nel vedermi vivere e crescere. Perché la vita può negare ciò che natura concede così spontaneamente?

Eppure, madre,  mentre io faticosamente salgo il pendio che mi porterà a te per rimproverarti, per minacciarti, per fare atti che tu avresti dovuto fare a me tanti e tanti anni fa, io, madre, in cuore non riesco ad avere altro pensiero che questo:

 io devo al grembo che mi ha partorito il temerario amore della vita….

Io nacqui da una donna che cantava nel rimetter in ordine la casa e, madre più trionfante che amorosa soleva in braccio portarmi con gloria…

Madre cui non piacque la terra per ultima dimora. La terra faticosa, la terra che patisti oltre la morte….

Tu che vivente avesti incerto asilo, sicuro loco avrai …fin che l’umana pietà lo conceda.

CARLO ALBERTO FALZETTI

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Vincenzo Cardarelli il cui vero nome è Nazareno Caldarelli nacque da Giovanna Caldarelli di Civitavecchia. Suo padre si chiamava Antonio Romagnoli e pur vivendo con i suoi figlioli, Vincenzo e la sorellina Annunziata, non li riconobbe mai anagraficamente.

 

Il dipinto “Profilo di Tarquinia” è della pittrice Bianca Moraja.